La pubblicazione, nel 2007, di una piccola e preziosa antologia di poetesse arabe contemporanee dall’intrigante titolo Non ho peccato abbastanza, a cura di Valentina Colombo per La piccola biblioteca Oscar Mondadori, ha reso un po’ di notorietà ad un soggetto abbastanza sconosciuto, quello delle voci poetiche femminili attuali del Maghreb e del Medioriente. Basta fare un giro nel web e ci si accorge di quante presentazioni sia stata oggetto o di quante bloggers abbiano pubblicato poesie tratte da questa antologia, forse per una consonanza con le espressioni in esse contenute o per la sorpresa di trovare versi scottanti, sensuali o francamente erotici di poetesse saudite, degli Emirati, dello Yemen.
Il problema è sempre un certo provincialismo culturale da cui è affetto il pubblico medio italiano, rafforzato da una editoria che pubblica e traduce poca poesia contemporanea, figuriamoci di lingua araba… Per questo la lettura di questa antologia provoca stupore, obbliga ad informarsi, a capire in quali contesti questa poesia venga prodotta e pubblicata e quali effetti susciti nei paesi dove nasce, che immaginiamo tutti in blocco oscurantisti, integralisti o viceversa da Mille e una notte.
Non è facile rispondere alle domande che pone questa produzione poetica per chi non è un arabista e legge tutto in traduzione, ma con l’aiuto delle analisi di Valentina Colombo, di Isabella Camera D’Afflitto e di Toni Maraini, si è cercato di indagare sul contesto in cui nasce in Nordafrica - più pertinente al profilo del nostro sito - tralasciando il Medio Oriente. Anche se da questo bisogna partire per parlare di poesia araba moderna.
Perché la poesia esiste dall’epoca preislamica, monorimica e con ritmi e metri codificati, ma è all’Iraq degli anni ’40 che bisogna guardare per assistere alla desacralizzazione della tradizione poetica. Badr Shakir al-Sayyab e Nazik al-Mala’ika propongono, con il loro esempio, l’abbandono delle codificazioni in favore del verso libero, non nel senso del caos stilistico, ma di un audace rinnovamento a partire dalla tradizione. Con la al-Mala’ika, però, si rinnovano anche i contenuti, assai vicini all’impegno sociale e particolarmente all’emancipazione femminile. C’è un legame tra la poesia femminile e l’analisi della condizione delle donne: nel rinnovamento si evidenzia la possibilità, per le poetesse, di esprimersi su temi più consoni alla vita femminile, non solo l’amore, grande tema di tutta la poesia araba, ma anche la durezza dell’esclusione, della sottomissione, della solitudine, la voglia di riuscire e contare attraverso la parola poetica, dato che questa possibilità è loro negata, perlopiù, nella società e nella politica, tranne qualche eccezione. Soprattutto la voglia di sfida e libertà nell’uso dei contenuti e del linguaggio.
Certo ha contato molto l’apporto del siriano Nizar Qabbani per sdoganare un immaginario, fino ad allora espresso con immagini ed espressioni più stereotipate e convenzionali nei confronti delle donne. L’eterno femminino diventa addirittura metafora della libertà stessa. Ed è a quella libertà assoluta, primigenia e trasgressiva che si rivolge la libanese Joumana Haddad nel suo poemetto Il ritorno di Lilith, dando voce alla prima eva, poi cacciata dall’eden, simbolo delle donne che prendono in mano il proprio destino, anche a dispetto del desiderio maschile. Negli anni ’70 quanti studi, quante rivistine e associazioni si sono chiamate con questo nome in Italia… Questo ci riporta ai rapporti con la cultura occidentale.
Ma occorre inquadrare meglio la cultura contemporanea del Nord Africa: sicuramente per la rinascita del mondo arabo-musulmano, il “modernismo”, come lo si suole chiamare, il rapporto con un certo occidente, è stato importante. Per le rivendicazioni di giustizia e libertà dall’impero ottomano e dal colonialismo, per il raggiungimento delle costituzioni moderne e delle democrazie tutti i popoli si sono ispirati ai diritti dell’uomo e alla rivoluzione francese, alla nascita delle democrazie nel XIX e XX secolo. Per il rinnovamento della cultura è indubbio che si sia guardato alla cultura d’avanguardia in Europa. Tuttavia si deve sottolineare che un rinnovamento si era acceso all’interno stesso del mondo arabo musulmano, a prescindere da influenze esterne.
Nel panorama attuale i processi di laicizzazione e modernizzazione sono ostacolati però da una interpretazione religiosa di stampo fondamentalista. Così, oggi, si assiste ad un conflitto non tra modernità e tradizione, ma tra modernità e fondamentalismo.
Nel Maghreb esiste una tradizione culturale secolare e religiosa non incompatibile con l’evolversi della società. Da sempre questa tradizione ha integrato elementi diversi provenienti dal mondo pre-islamico, dal passato berbero e africano, dall’esperienza dei regni di El-Andalus, dal Mediterraneo, nel suo complesso: non ha aspettato il “dono” occidentale della cultura moderna per generare processi dinamici che da questa non sono nati, ma se mai accelerati e arricchiti. Per modernità si intende dunque non tanto una occidentalizzazione ma questa capacità inclusiva e di apertura, rispetto ai mutamenti, della tradizione, che resta una “materia prima di un processo di riformulazione della coesione identitaria e dell’espressione artistica”, come ci ricorda Toni Maraini. Naturalmente questo non esclude fatti di pura e semplice imitazione, come accade sempre nei fenomeni culturali.
Oggi questa tradizione lotta con il fondamentalismo, con una ideologia che si ricollega al wahabismo saudita, ai “Fratelli musulmani” d’Egitto, al khomeismo iraniano, al Giama’t-i-islami pakistano. Questo modello bandisce forme culturali popolari, attestate in Nord Africa, sia religiose che artistiche. Così come anche le espressioni sociali della modernità, quali lo sport, la libertà intellettuale e di ricerca, l’emancipazione del ruolo della donna, sindacati e partiti laici, e ogni creazione artistica moderna. Una visione ideologico-politica che spesso accomuna fondamentalisti e regimi autoritari, che pure li combattono e reprimono, ma solo per paura di essere sostituiti al potere. Non è un caso che molte vittime in Algeria, tra gli anni 80’ e 90’, siano stati giornalisti, cineasti, cantanti, pittori, poeti, intellettuali uccisi, costretti all’esilio o ridotti al silenzio.
Il rapporto con l’occidente si è modificato: finita l’epoca di una dimensione cosmopolita della cultura, il Maghreb si è visto respingere in un ruolo eternamente“emergente”,”differente”,”esotico”, “debitore dell’occidente”, senza accedere ad un ruolo di comprimario nella ricerca di nuove forme e orizzonti culturali, ingenerando una certa disillusione e disincanto nei confronti di quelle aspettative che negli anni ’60 e ’70 avevano dominato la scena. Eppure sono nati molti poeti e poetesse che, senza spezzare le radici, hanno contaminato la sperimentazione con ritmi e immagini della cultura tradizionale. In modo particolare hanno contribuito ad una rinascita del linguaggio arabo, dato che la narrativa non sempre sceglie la lingua madre per esprimersi. Aperti e pluralisti gli artisti nordafricani, non supini imitatori occidentali, come spesso la nostra cultura europea tende a connotarli, nell’arte come nel cinema, nel teatro come nella letteratura.
Data la difficoltà di accesso alle fonti sull’argomento la nostra scelta si restringe a quella proposta dalla Colombo nell’antologia e a qualche testo reperito tradotto in internet: le egiziane Iman Mersal e Fatima Na’ut, la marocchina Wafaa Lamrani, le libiche Fatima Mahmud e Laila Naihum, l’algerina Rabia Djelti e la libico-tunisina Amal Musa.
In tutti i testi dominano contemporaneamente disillusione e tristezza e la certezza che qualcosa cambierà, deve cambiare, per le donne, dopotutto “E’ giusto che la felicità arrivi almeno prima o poi” ci avverte Fatima Na’ut.
Le poetesse trovano parole nuove per esprimere finalmente quello che non poteva essere detto sulla relazione uomo-donna, sul corpo, sull’amore non solo sentimento ma fisicità potente e inebriante, sul diritto ad esprimere ogni idea, ogni emozione che si affacci alla creatività dell’artista. Versi bellissimi sono dedicati all’amore per se stesse, il primo imperativo cui ogni donna dovrebbe ubbidire. “Mi avvolgo nelle fasce della mia pelle. Mi abbraccio desiderandomi”, ci dice Amal Musa. Tanti testi ci sottolineano la fede nella forza della parola poetica per raggiungere la libertà, per superare i confini entro cui sono tutte strette, per partecipare dell’universo in modo totale e ‘divino’. La poesia diventa un tutt’uno con quella forza inarrestabile che molte sentono in sé e che in questi versi assume diverse immagini: acqua soprattutto, sotto forma di pioggia, di fiume che scorre e straripa, di lacrima capace di irrorare l’aridità. Ma compare anche sotto forma di fuoco impossibile da estinguere, di aria, sole e luce difficili da contenere e definire.
Il tu maschile compare spesso come assenza, come una cattedra che ha perso la sua sacralità, su cui esercitare pensieri e desideri anche crudeli. Ci sorprende Iman Mersal: “Non me ne andrò prima che egli muoia innanzi a me. Appoggerò l’orecchio sul suo petto, dove il silenzio è più forte di ogni tentativo di farmene dubitare, neppure un gatto ha gli artigli di una donna delusa che cerca di rovesciare il cestino della spazzatura colmo degli avanzi della nostra giornata insieme”.
Nell’algerina Rabia Djelti troviamo anche l’eco della pesante situazione determinata dal terrorismo degli integralisti e nella libica Fatima Mahmud l’aria stagnante e soffocante della mancanza di libertà e la durezza della repressione: non a caso si tratta di poetesse costrette all’esilio.
In tutte spesso il rimorso di non aver fatto tutto il possibile (”non ho peccato abbastanza” dice il titolo dell’antologia) contro chi attenta alla libertà: in nome di un islam tradito non si possono privare le donne dei diritti, nel nome del ’padre’ non si può disonorare la ‘madre’.
Si propone qui una scelta di testi integrali o di brani, con l’indicazione delle autrici e la loro provenienza.