Vincenzo Maria Oreggia, Pesce d'aprile a Conakry, Edizioni dell'Arco, 2010
Sulla falesia dei Dogon, in Mali, avevo visto vecchi che prima del tramonto depositavano mucchietti d’arachidi in caselle geometriche disegnate sulla sabbia nell’attesa che le iene, nottetempo, venissero a mangiarle lasciando impronte da decifrare all’alba. Ero entrato in piccole cabine di legno dove i marabout senegalesi gettano i cauri, le conchiglie un tempo usate come moneta, leggendo nel destino e chiedendo sacrifici apotropaici. Avevo accompagnato un amico pittore a casa di una lontana parente, in un sobborgo di Dakar, presso la quale doveva procurarsi certi amuleti da portare al braccio, in tasca o attorno alla vita per proteggersi dai pericoli di un viaggio e attirarsi la buona sorte. Avevo visto confezionare da un saggio esperto di scritture esoteriche brevi preghiere infilate in lembi di tessuto ricuciti e sistemati dentro contenitori simili a portafogli in pelle di iena...
La natura, qui, è un agone primordiale in cui gli uomini scendono a patti per addomesticare cose fuori dal controllo, per dare senso al caso o a un destino imprevedibile. Stabilita questa strana forma di commercio con l’invisibile, inscritta da secoli nei comportamenti, il mondo intero diventa una sostanza pronta a smaterializzarsi, a farsi anima.