Dinaw Mengestu, Le cose che porta il cielo, Piemme, 2008
Le cose che porta il cielo, è l'opera di un etiope, nato ad Addis Abeba nel 1978 e rifugiatosi in America dall'età di due anni (insieme ad uno zio) per fuggire al "Terrore rosso" del colonnello Mengistu ( il soggetto dell’ultimo film di Gerima “Tezeta”).
Ambientato nella periferia della Capitale americana, tratta la vita di un immigrato, ai margini di una società che si considera tanto democratica ma forse troppo chiusa in se stessa per accorgersi di quel sottobosco di emarginazione, di chi vive un disagio sociale e interiore perché distante dalla propria terra, dai propri affetti, dal proprio modo di essere.
Acuto e obiettivo, Dinaw Menghistu, dimostra con questo romanzo una maturità e una competenza non comuni. È un libro pieno di sofferenza, di povertà, di sogni distrutti, di richiami nostalgici all’amore per la propria famiglia, ma è anche capacità di descriversi e di descrivere la vita di uno straniero in America trattando con delicatezza, a volte con leggera durezza, ricordi, pensieri, frustrazioni, difficoltà, amicizie, lievi innamoramenti, ecc..
Il romanzo permette molteplici piani di lettura : a chi non vuole soffermarsi ad estrapolare l’esegesi narrativa, il racconto è cosi scorrevole che si può leggere tutto d'un fiato, come se il libro sia stato scritto di getto, senza ritocchi; per chi è abituato ad una lettura "lenta" approfondendo un’ opera letteraria, troverà che dentro questo libro si nascondono condizioni umane così profonde e sfocate che, se non vengono messe in risalto, non potranno mai essere riconoscibili. Infatti, mentre l’aspetto dell'impatto iniziale della nuova realtà sociale e territoriale passa in secondo ordine, si esalta la dimensione della vita quotidiana di un sobborgo povero, del lavoro non soddisfacente, del tempo della dialettica che si instaura, la perenne ricerca di legami affettivi, di stati d'animo che rendono sempre i luoghi incerti e insicuri.
Per esorcizzare il tormento interiore, Sopha si rifugia nella lettura de I Fratelli Karamazov, lettura che poi costituisce il fil rouge dell’intero romanzo.
Senza rimpianti per l’Africa, senza più particolari sogni in America, la vita di Sopha scorre nello stretto corridoio di una piccola drogheria in un quartiere povero di Washington dove i clienti sono sempre gli stessi: di giorno studenti di ritorno da scuola, di notte delinquenti e prostitute.
Ma un giorno le cose per lui cominciano a cambiare: in un palazzo disabitato ormai da anni compaiono Judith, una giovane donna bianca e Naomi, la figlia undicenne.
Per Sopha il loro arrivo rappresenta un nuovo inizio, la ragazzina infatti passa tutti i pomeriggi con lui, leggendo e ascoltando le storie della gente che entra e esce dal negozio.
Tra i due non vi sono saluti, parole superflue, solo una complicità segreta e silenziosa, e la volontà di colmare quel vuoto che prende alla gola. Quando Naomi - "il mio spiritello personale" come la descrive - chiede di raccontarle qualcosa, Sopha tenta di accontentarla con le fiabe: "Della iena che morì dalle risate…", "del leone che cercò di rubare la cena alla scimmia…", ecc.. Ma Naomi non ci sta. Lei vuole qualcosa di più dei semplici raccontini.
Ecco allora che Sopha inizia a leggerle, anzi a narrarle I Fratelli Karamazov che lei ascolta rapita. Si tratta di un romanzo, che in un certo modo richiama la storia di Sopha stesso e, nella narrazione, egli riesce a restituire alla ragazzina la voce del padre assente.
«Alzavo gli occhi ogni paio di pagine per vedere se Naomi era attenta, e ovviamente lo era. Anzi, la sua attenzione pareva non calare mai: avvertivo il suo sguardo che mi fissava mentre i miei occhi erano concentrati sulla pagina, e mi rendevo conto che si stava bevendo tutto, non solo le parole, ma anche me e la situazione che avevamo creato insieme (…) Quando entrava in negozio qualcuno che non conoscevo, Naomi teneva il segno dove mi ero interrotto, così io potevo seguire con gli occhi la persona che girava per le corsie. Mi prendeva il libro di mano, metteva il dito esattamente sulla frase o sulla parola che avevo appena finito di leggere e lo teneva lì finché non tornavo» (p.117-118).
Dinaw Menghistu tinge i suoi racconti con pennellate di sottile ironia che danno un senso di leggerezza e spensieratezza. È il tipico sale di molti scrittori migranti, forse per stemperare la dura realtà della vita di cui essi sono testimoni. L'ironia però non si tramuta in sarcasmo o cinismo per cui il lettore non termina la lettura con acredine e disgusto della vita.
Esemplare è in questo senso quell' unica giornata quando, ogni martedì, vengono a fargli visita i suoi due unici amici, Joseph e Kenneth, anche loro immigrati dall’Africa e, dopo aver scolato una bottiglia di whisky, fanno a gara a chi ricorda più nomi di dittatori africani.
A Joseph, ad esempio, piace ripetere, quando è ubriaco, gli appunti dei versi dell'Inferno presi durante le lezioni - «Tanto ch’i vidi de le cose belle/ che porta’l ciel, per un pertugio tondo./ E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Dante XXXIV Inferno vv.137-139) - e dichiarare che sono questi i più perfetti versi che siano mai stati scritti. «Pensaci – dice - Dante sta finalmente uscendo dall'inferno, ed ecco cosa vede: 'Le cose belle che porta '1 ciel'. È perfetto, credimi. Semplicemente perfetto. Ho detto al professore che nessuno come un africano può capire quei versi perché è ciò che abbiamo vissuto. Ogni giorno l'inferno, intervallato da vaghi barlumi di paradiso» (p.113).
In quegli incontri, Joseph parla dei complimenti ricevuti da una sua professoressa dell'Università di Michigan che lo dipinge come «uno degli uomini più brillanti che [lei] abbia mai conosciuto», e che un giorno sarebbe dovuto trasferirsi completamente lì; e Kenneth sogna un giorno di prendere la laurea in ingegneria e poi un master, dicendo che «solo allora sarebbe tornato in Africa, a Nairobi con indosso un completo molto elegante dove tutti diranno: Guardalo là: quello è un tipo importante, quello è speciale. Costruirò dei palazzi da mandarli fuori di testa. Roba mai vista prima». (p.164).
Ma per Sopha non c’è niente di tutto questo: né la speranza di continuare l'Università, né quello di ritornare in Etiopia : «Quanto a me, sarei rimasto dietro al bancone a leggere, seduto sulla mia sedia con lo schienale alto, muto come una divinità, fino alla fine del mondo» (p.164).
«Ogni volta che guardavo Naomi» aveva detto quando le leggeva I fratelli Karamazov, «mi rendevo conto a come negli anni a venire l'avrei ricordata con una nostalgia da devastarmi il cuore, perché ovviamente sapevo già che alla fine mi sarei ritrovato qui da solo» (p.117).
E proprio quando nel cuore di Sopha si stava accendendo un sentimento nei confronti di Judith, dopo l'ennesimo atto di intolleranza, la donna è costretta a trasferirsi. Sopha comprende che la libertà è un diritto per cui dovrà continuare a lottare sempre, in una America che lo ha accolto sì, ma che vuole anche che tu comprenda la sua anima errante dove niente è stabile, come i quartieri che possono cambiare nell'arco di pochi anni da zone residenziali a povere borgate e viceversa.
Habtè Weldemariam
© Scritti d’Africa, dicembre 2008