Leggere l’Africa 2
-Appunti per un aggiornamento sulla situazione editoriale -
Premessa
Ancora una volta abbiamo deciso di fare il punto sulla situazione della letteratura africana tradotta in Italia. L’altro articolo, pubblicato su questo sito (e in“Leggere Tutti” nov.dic.2006), comprendeva edizioni fino al 2005, più o meno.
Il nostro obiettivo non è quello di essere esaustivi ed approfonditi ma quello di lanciare, a chi ci segue, degli spunti di riflessione, magari suggerire piste d’indagine a qualche studente o tuttalpiù suscitare curiosità.
Dobbiamo subito sottolineare l’enorme differenza, rispetto all’attuale, del contesto culturale, socio-economico, editoriale, in cui quel primo articolo appariva. Oggi, più di dieci anni dopo, le coordinate mutate ci costringono ad un’altra narrazione.L’interesse che aveva dominato l’editoria italiana media e piccola verso la pubblicazione di testi africani, creando un piccolo boom dagli anni ‘90 fino ai primi del 2000, è andato scemando perché di mezzo, dal 2008 , ci sono state una crisi e una recessione economica che hanno spazzato via molti piccoli editori o li hanno costretti a virare verso pubblicazioni sicure, certamente non di nicchia. Alcuni editori continuano ancora con pubblicazioni di testi africani, ma in modo molto sporadico, altri, invece, come la casa editrice romana 66thand2nd, continua con fede e coraggio a far conoscere questa letteratura, traducendo anche più testi degli stessi autori. Perché questo è un altro problema che affligge l’editoria italiana che voglia pubblicare libri di scrittori africani: di uno stesso autore si pubblicano uno o due romanzi per poi scomparire nel nulla per anni, come se non avesse più prodotto alcuno scritto, è quanto è successo per Leonora Miano o per Paulina Chiziane, tanto per fare un esempio.
Certo di mezzo, nella pubblicazione di romanzi africani, è intervenuto l’ingresso della grande editoria, Einaudi, Feltrinelli, Bompiani, Mondadori, solo per citarne alcuni, sempre molto attenti però a tradurre ciò che è già un successo garantito a Parigi, a Londra, o in America. Oppure a seguire gli umori e gli interessi del pubblico piuttosto che a sperimentare, a rischiare su argomenti impopolari o ignoti ai lettori italiani. Una riprova di questo è una certa ritrosia a proporre testi considerati difficili da tradurre, espressi con modalità narrative oniriche e magiche, vicine ad una certa tradizione orale africana, con un tasso di invenzioni linguistiche mirabolanti lontane dalla lingua standard: è il caso, per esempio, di grandi scrittori angolani come José Luandino Vieira, José Eduardo Agualusa, Pepetela, del mozambicano Mia Couto, tutti lusofoni.
Un altro elemento che ha pesato nel progressivo disinteresse di editori e lettori italiani è stato il mutare degli atteggiamenti nei confronti della questione migratoria sia da parte della politica che della gente comune. Se per alcuni anni la curiosità e l’interesse verso autori e culture diverse aveva determinato certe scelte editoriali, oggi che l’immigrazione è solo un problema di sicurezza, che il terrorismo dilaga, che un rinascente nazionalismo fa propendere al “prima gli italiani” e la crescita dell’indifferenza smorza le curiosità verso gli ‘altri’ , si impongono strade differenti.
Del resto la scelta delle grandi case editrici italiane di far tradurre e pubblicare perlopiù quanto esce in Francia, Inghilterra, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Canada riflette anche il cambiamento intervenuto presso molti autori africani: la maggioranza di loro è africana di nascita, ma ha studiato oppure lavora con residenza in Europa o in America, senza fare un definitivo ritorno nel paese d’origine, vivendo eternamente al confine di più mondi.
Questo perché spesso, in molti paesi africani, non sono effettivamente liberi di scrivere ciò che vogliono, sono osteggiati dalle élite che li accusa di presentare aspetti non favorevoli delle diverse realtà africane o sono addirittura repressi, incarcerati, privati dei diritti politici come il libico Hisham Matar o il camerunense Patrice Nganang ( ma la lista è molto più lunga ). Molte sono ancora le situazioni di guerra e di pericolo che non permettono di vivere di arte e letteratura.
Senza contare che per molti di loro è frustrante o addirittura difficile pubblicare in Africa, dove la povertà o la scarsa istruzione non contribuiscono a creare nuovi lettori. Anche se in molte zone l’indice di istruzione è aumentato, l’editoria africana sopravvive in gran parte con la pubblicazione di testi scolastici o con la scelta di alcuni generi di chiaro consumo popolare come il ‘polar’ o i romanzi rosa, d’avventura e fantascienza o la graphic novel che sfidano, sullo stesso terreno cultural-popolare, le produzioni televisive nigeriane, congolesi, egiziane, sudafricane. E’ bene ricordare come la circolazione dei libri sia ancora in gran parte informale tramite lo scambio, il prestito o la pirateria, perché mancano librerie e biblioteche e, in alcuni paesi, un libro può costare anche una settimana di salario di un operaio.
Questo spiega ancor più la diaspora degli scrittori africani che intendono fare della scrittura la professione di cui vivere. Dopo il tragico fenomeno della tratta dall’Africa verso le Americhe che comportò la deportazione di milioni di persone, assistiamo oggi ad un trasferimento volontario di artisti, intellettuali, scrittori simile a quello delle emigrazioni comuni: si va a cercare di vivere meglio per potersi esprimere senza difficoltà politiche od economiche.
Questo ci ha indotto a non suddividere più , in questa nostra panoramica, gli autori per aree geografiche, che evocano il triste ricordo dei confini, spesso artificiali, tracciati dagli imperi coloniali. Abbiamo scelto di privilegiare le aree tematiche e i generi letterari: tutti gli autori, anche quelli nordafricani che si esprimono in arabo, hanno in comune la caratteristica di uscire dal proprio mondo per confrontarsi con un’altra mentalità, per muoversi oltre i tabù e le regole imposte nella propria terra.
1. Afropolitan, ovvero della nuova diaspora.
E’ indubbio che creare etichette per parlare di una tipologia di scrittori facilita molto i critici che li debbano recensire, tuttavia si sa che molti autori storcono il naso o non vi si riconoscono. E’ successo anche per il termine ‘afropolitan’ coniato dalla scrittrice Taiye Selasi nel 2005, conosciuta in Italia nel 2013 con la pubblicazione di Einaudi “La bellezza delle cose fragili” e per la partecipazione come giudice a Masterpiece di Rai3.
Con il termine suddetto si allude ad una intera generazione di scrittori di origine africana che vive tra Europa, Africa e America, che non scrive perciò nelle lingue locali ma in quelle dei paesi ex-colonizzatori, prevalentemente anglofoni o comunque in una lingua terza scelta volontariamente come per il caso degli stranieri italofoni (vedi Amara Lakhous, autore algerino arabo- berbero di cultura francese che si è espresso in italiano). Ma, anche a distanza, il loro pensiero costante è rivolto alla vita in Africa, forse per una sorta di complesso di colpa, cui si aggiunge l’idea di identità plurime che si accumulano e scambiano con le culture occidentali.
Questi autori, con le loro storie, ci restituiscono le realtà multiple in cui sono immersi, come il nigeriano Teju Cole che ci dà dei ritratti imperdibili sia di New York in “Città aperta”(Einaudi, 2013) che di Lagos in “Ogni giorno è per il ladro”( Einaudi, 2014) , come pure in “Americanah “di Chimamanda ‘Ngozi Adichie ( Einaudi, 2014) o “Leggere il vento “ di Dinaw Mengestu ( Piemme, 2011).
Il modo in cui emerge la realtà multiculturale è nuovo perché avviene attraverso l’arte, la moda, la musica, la tecnologia dei nuovi media, presentandoci aspetti della vita urbana del mondo africano e di quello occidentale, con tutte le contraddizioni e criticità ma anche con umorismo e affetto. Anche se, a onor del vero, la satira più feroce è riservata ai propri connazionali più che agli occidentali.
Non c’è più la lotta di molti scrittori delle generazioni delle indipendenze contro le lingue e le culture delle potenze colonizzatrici : come, per esempio, per molti scrittori arabi nordafricani che hanno scritto in francese con un senso di conflittualità e contemporaneamente di perdita e arricchimento, vedi il marocchino Khatibi o l’algerino Khateb Yacine. Il motto della nuova generazione è “la lingua è di chi la usa”, come ha sbrigativamente commentato Alain Mabanckou in una intervista di qualche tempo fa, senza troppi problemi etico-filosofici.
Questi scrittori quindi, accettano l’inglese , il francese o il portoghese come un dato di fatto, se mai l’arricchiscono con termini dei pidgin locali o mescolando le innumerevoli realtà linguistiche di molti paesi africani e sanno anche garantirsi una eco più vasta nel mondo. Così è accaduto per il perfetto mimetismo linguistico utilizzato dall’ivoriano Ahmadou Kouruma in “Allah non è mica obbligato” (e/o, 2002) che ibrida il francese con il malinké. Molti autori nigeriani ormai scrivono in nigerian english, tutti includono gli slang delle metropoli.
Cammino decisamente inverso, sul piano linguistico, è quello dello scrittore keniota Ngugi wa Thiong’o che dopo il successo di “Un chicco di grano”( ed.or. in inglese,1967- Jaca Book,1978) decise di lasciare l’inglese per il kikuyu, perlomeno fino a quando fu costretto all’esilio negli Stati Uniti, nel 1981, senza tuttavia abbandonare le sue posizioni teoriche sulla lingua (vedi “Decolonizzare la mente: la politica della lingua nella letteratura africana” del 1986, ma uscito in Italia con Jaca book nel 2015).
Degli scrittori descritti finora, potremmo coniare scherzosamente il termine di ‘autori con la valigia in mano’. Spesso non basta essersi trasferiti per lavoro in America o in Europa: i loro romanzi continuano ad avere gli echi delle loro erranze fisiche e culturali permanenti, come per l’angolano Ondjaki, per il congolese del Congo Brazzaville Alain Mabanckou, tornato nella sua città natale Pointe Noire dopo 23 anni, come ci racconta in “Domani avrò vent’anni”( 66thand2nd, 2011) , per il keniota Binyavanga Wainaina, il cui percorso tra Kenia, Uganda, Sudafrica, Stati Uniti ci è narrato in “ Un giorno scriverò di questo posto” ( 66thand2nd, 2013), o per il libico Hisham Matar ne “Il ritorno” ( Einaudi, 2017) solo per citarne alcuni.
Certo sono scrittori amati dal pubblico occidentale perché hanno modalità mescolate con le tradizioni letterarie europee e perché ci offrono ritratti dei paesi africani, soprattutto delle grandi città, per noi inediti e interessanti, tesi a smontare immagini stereotipate dell’Africa o a offrire critiche postcolonialiste postulate diversamente da quelle che avevamo letto in Driss Chraibi, Cheik Hamidou Kane o Salih Tayeb.
Del resto, anche scrittori come Cristina Ali Farah, italiana di origine somala, l’algerino Amara Lakhous o Igiaba Scego, anch’essa italo somala, che si sono espressi in romanzi in lingua italiana, oggi sono altrove o hanno la tentazione di farlo, come Igiaba, sempre in bilico tra Italia , Usa, Gran Bretagna dove risiede gran parte della sua famiglia.
Dunque non ci sono scrittori che risiedono in Africa? Sarebbe ovviamente una esagerazione... Il maliano Moussa Konaté ha scritto i polar del commissario Habib, che lo hanno reso famoso in Europa, senza muoversi da Bamako ( editi dalla Del Vecchio tra il 2002- 2006 e E/O nel 2009) il senegalese Abasse Ndione (“ Vita a spirale, E/O, 2004) ha continuato a fare l’infermiere fino alla pensione a Dakar. E se l’algerino Yasmina Khadra ha abbandonato il suo paese per la Francia , altri come Boualem Sansal, Hamidou Grine, Kamel Daud , pur tra molte difficoltà resistono in Algeria. Così anche scrittori egiziani come Ala al Aswani e Ibrahim Sonallah o nigeriani come Odafe Atogun e Igoni Barrett, non si sono incamminati in questa diaspora-vagabondaggio culturale, tanto la globalizzazione ormai raggiunge anche quelli che non partono.
E’ normale che con queste premesse molti punti comuni a questi scrittori siano legati a temi quali l’identità, il razzismo, le critiche rivolte non più soltanto al colonialismo ma alla rapacità e corruzione delle classi dirigenti attuali, all’idea di un arricchimento a qualunque costo che sembra dominare molti strati delle popolazioni africane impoverite, all’abbattimento dei pregiudizi culturali tradizionali nei confronti dei diversi o delle donne.
2. Le scrittrici e i diritti delle donne
Sicuramente grande è la distanza tra i personaggi femminili della senegalese Mariama Ba autrice di ”Une si longue lettre”, scritto nel ‘79, ma edito in Italia solo nel 2013 ( Modu Modu, Trepuzi) ,“ La sposa bianca di Ousmane” (Giovane Africa Edizioni, Pontedera, 2014) rispetto a quelli che compaiono nei romanzi emersi dalle “primavere arabe”: “Sono corso verso il Nilo” di Ala al Aswani(Feltrinelli 2018), “La città vince sempre” di Omar Robert Hamilton( Guanda, 2017), “Cronache di un’ultima estate” di Yasmine El Rashidi ( Bollati Boringhieri, 2017).
Le donne, di classi sociali medie, piccolo borghesi e popolari, in questi ultimi testi citati, sono soggetti autonomi che lottano insieme agli uomini, scoprono il gusto della libertà, al di fuori degli schemi patriarcali e religiosi: sanno che la rivoluzione non potrà incidere se non passa per i loro diritti innanzitutto. Sono donne che pronunciano la parola “io” e sanno che pagheranno per questo.
Ma in Egitto già da tempo la scrittrice e psichiatra Nawal al Sa’dawi, oggi quasi novantenne, aveva istillato i germi di un prezioso femminismo che, a partire dagli anni ’80, l’ha resa invisa a tutti i governi che si sono succeduti fino ad oggi nel paese. Nel 2001 scrive “L’amore ai tempi del petrolio”( Il Sirente, 2009) una strana storia di un’archeologa in un paese arabo immaginario dispotico e autoritario, un miscuglio di Arabia Saudita e di Egitto, in cui la donna va alle radici del sistema patriarcale, esprimendosi in modo surreale , con modalità allucinatorie simili a quelle dei giovani scrittori di ultima generazione come Ahmed Nagi o Ahmad al-Aydi.
Anche in “Zeina” (Atmosphere libri, 2018) resta l’antesignana del femminismo arabo con la vicenda di due donne, in cui si evidenzia la frustrazione femminile di fronte ad una società sostanzialmente maschilista che utilizza l’umiliazione e il sopruso violento, psicologico e fisico, per dominare.
Oggi, la portavoce di un femminismo africano è rappresentato dalla quarantenne scrittrice nigeriana Chimamanda ‘Ngozi Adichie. Di lei si dice post-femminista, nel senso che si esprime come una scrittrice degli anni 2000, che lotta per l’affermazione di una migliore posizione della donna in Africa come altrove, non facendo discorsi teorici o semplicemente di principio, ma approcciando il problema in modo pratico e sbrigativo. Lo testimoniano i personaggi femminili di “Americanah” (Einaudi, 2014), “Quella cosa intorno al collo”( Einaudi, 2017), ma anche l’appello diretto ai maschi africani e non, contenuto in un libretto, tanto breve quanto denso, dal significativo titolo: “Cara Ijeawele. Quindici consigli per crescere una bambina femminista”(Einaudi, 2017). Evidentemente, vivere a cavallo di due mondi, porta come conseguenza aperture impensabili fino a qualche anno fa.
Basti pensare ai testi della mozambicana Paulina Chiziane con “Settimo giuramento” del 2003, “Niketche, una storia di poligamia” del 2006, “L’allegro canto della pernice” del 2010, (tutti editi da La nuova frontiera) in cui i temi riguardanti il cammino di autonomia della donna, sempre presenti in tutti i suoi testi, sono molto legati alla storia passata e recente del Mozambico e a modalità vicine a un linguaggio narrativo della oralità tradizionale africana, sicuramente più distanti dalla sensibilità culturale europea o americana.
Infatti è tra le scrittrici di origine africana nate o residenti in Francia che si registrano maggiormente testi legati ai diritti delle donne, spesso con accenti ironici o satirici nei confronti dei maschi tradizionalisti. Ci riferiamo ad autrici come la camerunense Calixthe Beyala, nota in Italia per il divertente “Come cucinarsi il marito all’africana “(Epoché, 2008), “Gli onori perduti”( Feltrinelli, 2005), “A bruciarmi è stato il sole” ( Epoché 2005 ) nei quali si seguono i tentativi di sottrarsi al destino cui la tradizione avvia le donne o almeno di capovolgerlo a loro favore, sia nei villaggi d’origine che nella metropoli parigina. L’altra scrittrice franco-camerunense Leonora Miano esplora invece le violenze e i soprusi nei confronti di bambini e donne, molte delle quali avviate alla prostituzione, in conseguenza degli orrori delle guerre civili, in testi quali “Notte dentro”(Epoché, 2002) e “I contorni dell’alba”(Epoché,2008) .
La franco-algerina Alice Zeniter si colloca su un altro piano: nata in Francia, ormai alla terza generazione, si pone il problema della libertà di scelta, al di là dei pregiudizi e delle costrizioni della parte arabo-islamica o della società francese: nel libro “L’arte di perdere”(Einaudi, 2018) rappresenta se stessa come una donna che desidera scegliere a cosa appartenere, quando e a chi legarsi, senza schemi precostituiti.
Non mancano testi relativi al problema della mancata nascita di figli che è ancora oggi fonte di angosce per molte spose africane . Ce ne sono echi in “Prudenti come serpenti”( 66 Thand2nd , 2012) della nigeriana Lola Shoneyin, dove il problema si intreccia con quello della poligamia degli uomini facoltosi e “Resta con me”(La nave di Teseo, 2018) di un’altra scrittrice nigeriana , Ayobami Adebayo, in cui una donna e un uomo riescono a infrangere le barriere della tradizione e a dare un senso diverso al loro legame matrimoniale.
Ad occuparsi ancora di violenze contro le donne è la scrittrice sudafricana Sindiwe Magona in “ Da madre a madre” ( Gorée, 2006) e “Guguletu blues racconti di donne della township” (Gorée, 2006). Brutalità originate da guerre civili della lotta all’apartheid, ma tutte scaturite da un concetto di patriarcato e maschilismo feroce, da cui il Sudafrica attuale stenta ancora a liberarsi, soprattutto nelle grandi periferie, dove lo stupro mantiene la caratteristica di correggere le donne troppo indipendenti.
Anche la franco-camerunense Scholastique Mukasongo, in “ Nostra signora del Nilo”( 66thand2nd, 2014), insinuandosi, con la sua narrazione in un collegio femminile, sullo sfondo delle lotte hutu-tutsi in Rwanda, svela l’intreccio tra violenze sociali, etniche ed educazione di adolescenti, strette tra sogni di autonomia e aderenza ai dettami tradizionali delle famiglie.
Yewande Omotoso, antillana di origine, ma nigeriana e poi sudafricana per scelte di vita della sua famiglia sembra chiedersi ne “La signora della porta accanto”(66Thand2nd, 2018) se il superamento dei pregiudizi tra due ottantenni vicine di casa, ex-donne di successo della classe media, una bianca e una nera, fatto di piccoli passi ma all’insegna di una riscoperta solidarietà, possa essere il contributo femminile per una riconciliazione nazionale non ancora compiuta. Alcune di queste scrittrici sono attive in enti e associazioni che si occupano di emancipazione femminile in Africa, legati al lavoro agricolo, artigianale e imprenditoriale soprattutto nella zona centro-ovest piuttosto che nel Nordafrica, dove per ragioni sociali e religiose solo l’8% delle donne si attiva in tal senso.
3. Le metropoli e il romanzo urbano
E’ naturale che l’attenzione degli scrittori si sia spostata dalla campagna e dai villaggi agricoli alla città, dato l’alto tasso di incremento della popolazione urbana: secondo le previsioni Onu, nel 2030, in Africa, il 70% degli abitanti avrà totalmente abbandonato le aree rurali. Le cause sono molteplici, ne enumeriamo alcune : la mancanza di sicurezza dovuta alle guerre e al terrorismo, i cambiamenti climatici che determinano una inarrestabile siccità, le terre date in affitto alle multinazionali o direttamente a stati occidentali e asiatici, la speranza di una vita migliore e più libera da superstizioni e tradizioni, la sensazione di essere finalmente collegati con il resto del mondo tramite le nuove tecnologie di comunicazione.
Abbandonate le illusioni della prima generazione di scrittori delle indipendenze, che pure non erano sempre stati ottimisti sulle capacità delle classi dirigenti di saper guidare le trasformazioni, questi autori si trovano a vivere e a respirare un’aria diversa. Gli aggiustamenti strutturali degli anni’80 , con i conseguenti tagli sociali, hanno distrutto in molti stati sanità pubblica, istruzione, economie nazionali; la voracità delle élite ha determinato una corruzione senza limiti, foraggiata dall’occidente stesso, che preferisce mantenerle al potere in cambio di stabilità e mano libera per i propri lucrosi affari. La mancanza di prospettive e il desiderio di essere comunque dentro lo sviluppo globale ha cambiato la vita di molti africani e anche dei narratori di queste realtà.
La scrittura si orienta verso l'ambientazione urbana, passano in secondo piano il villaggio e il lavoro nei campi, la vita scandita dai ritmi naturali del giorno e delle stagioni, la descrizione degli usi e costumi, dei riti degli antenati che tanta parte avevano occupato nei testi del periodo delle indipendenze da parte di scrittori orgogliosi di far conoscere le loro culture. Una certa cinematografia africana di quegli anni ce l'aveva fatto vedere per immagini, in film che hanno avuto una discreta circolazione in Europa e anche in Italia.
Gli scrittori perciò si confrontano con i nuovi miti della globalizzazione, dell’arricchimento individuale tutto e subito. I giovani si sono accorti di contare poco come individui e lottano per il successo personale piuttosto che per la società nel suo complesso, non credendo più al rinnovamento e alle promesse delle élite politiche. In questo contesto si inseriscono l’enorme sviluppo delle lotterie, delle truffe online e la criminalità organizzata che canalizza le energie giovanili nella delinquenza o nei viaggi della speranza verso l’eldorado occidentale. Il viaggio per mare diventa una sorta di nuovo rito d’iniziazione per i giovani che, alla fine del percorso sono costretti a confrontarsi con la realtà europea, assai più dura e ben distante dai miti che si vagheggiano in patria. Ce lo descrive, per esempio, l’unico autore africano di lingua spagnola tradotto in italiano, Donato Ndongo della Guinea equatoriale in “Metrò”(Gorée, 2010).
Ma non c’è solo questo nei romanzi: le città non sono solo mostri che divorano i propri abitanti con la violenza, il traffico impazzito formato dai più svariati mezzi di locomozione, con la corruzione che va dal primo ministro fino all’ultimo usciere, con slums fatiscenti, vere e proprie discariche a cielo aperto.
Dominano anche creatività, spirito d’iniziativa e voglia di essere in mezzo alle cose del mondo moderno, sia pure riciclando e inventando lavori, facendo emergere una resistenza entusiasta: musica, sotto qualsiasi forma, moda, arte invadono questi centri urbani. I giovani riempiono gli internet cafè , hanno una smania di essere aggiornati su tutto quanto appassiona un giovane europeo o americano, alimentando il sogno di voler essere uguale a loro.
Talvolta i romanzi in questione, che descrivono queste realtà, hanno lo stesso ritmo frenetico, chiassoso e indiavolato delle città in cui ambientano le storie. Centri e periferie sono descritti minuziosamente, nelle viuzze come nei boulevard, nelle architetture e negli arredi delle case più sordide e povere come negli ambienti lussuosi dei privilegiati.
Possiamo dare solo una panoramica di città e autori perché è impossibile in breve accennare alle peculiarità di ciascuno:
Lagos/Nigeria : Igoni Barrett “Culo nero” ( 66thand2nd,2017)
Odafe Atogun “Un canto libero” ( Frassinelli, 2017)
Kinshasa/R.d.Congo: In Koli Jean Bofane “Congo inc. Il testamento di Bismarck” (66thand2nd,2015 ) ” e “Matematica congolese” ( 66thand2nd,2014)
Cotonou/ Benin: Florent Cuao-Zotti “Non sta al porco dire che l’ovile è sporco”(66thand2nd, 2012)
Il Cairo/ Egitto: Hamilton “La città vince sempre” (Guanda,2017)
Ala al Aswani “Sono corso verso il Nilo” (Feltrinelli,2018)
Sonallah Ibrahim “Le stagioni di Zhat” (Calabuig,2015)
Khaled Khamissi “Taxi” (Il Sirente, 2008)
Una generica città africana inventata, con le caratteristiche di Khartum e Il Cairo, è quella descritta dallo scrittore sudanese Amir Tag Elsir , “Il cacciatore di larve” (Nottetempo, 2013)
Bamako/Mali: Moussa Konaté “Il commissario Habib: due gialli in Africa” ( Del Vecchio, 2015)
Casablanca/Marocco: Fouad Laroui “ L’esteta radicale” (Del Vecchio, 2013)
Mahi Binebine ”Il grande salto” (Rizzoli, 2016)
Algeri/ Algeria : in molti romanzi di Yasmina Khadra, tra i più recenti “Il pazzo col bisturi” (ed.Capricorno, 2017)
Aziz Chaouki “La stella di Algeri”(/E/O,2014)
E altri ancora che non riusciamo a citare in modo esaustivo.
Ricorrono alcune immagini, situazioni, luoghi: il mercato centrale, con venditori della più disparata merce, imbroglioni, prostitute bambine, bambini di strada, dediti a furtarelli o lavoretti illegali. Il giovanissimo protagonista di “Congo inc.”, letteralmente innamorato della tecnologia occidentale si procura un computer con un furto e trova nel mercato il luogo adatto dove sperimentare, per un suo affaruccio da quattro soldi, le aggressive tecniche di compravendita apprese nel gioco virtuale di Congo Bololo, in cui personaggi senza scrupoli si accaparrano merci quali oro, diamanti, petrolio, coltan con ogni mezzo lecito e illecito.
Altra ricorrenza frequente è l’internet cafè o il locale dove si ascolta musica, si beve, spesso ubriacandosi, discutendo e accalorandosi sulle più svariate questioni. Un maestro nel descrivere questi ambienti e personaggi, spesso borderline, è senz’altro Alain Mabanckou in “Verre cassé” ( Morellini, 2008) e “Black bazar ( 66thand2nd, 2010). Spesso vi si aggiungono prostitute dal cuore d’oro o venditrici di street food, con un vero e proprio campionario di ricette locali. In alcuni romanzi e racconti compaiono le chiese del risveglio, frequentate da molti africani non solo per esprimere una accesa spiritualità, ma nella speranza che i vari guru, dialogando direttamente con Dio, riescano a riempire le tasche dei poveracci in modo rapido e massiccio. Anche se le uniche tasche che si riempiono sono solo quelle dei fondatori imbroglioni e ipocriti, ferocemente presi in giro da questi scrittori.
In tutti i romanzi ci sono le testimonianze della diffusa illegalità e corruzione: si comincia dai doganieri all’aeroporto, poi i poliziotti per strada e nei commissariati, fino agli uffici comunali, agli ospedali e alle scuole. Qualsiasi richiesta di un cittadino o anche di un turista viene soddisfatta solo dietro compenso. Figuriamoci quando si sale nella scala sociale e del potere…
Eppure di tanto in tanto, nelle pagine di questi romanzi urbani, s’insinuano descrizioni di lenti o tumultuosi fiumi, albe e tramonti trasfigurati dalle nebbie, villaggi polverosi, foreste a perdita d’occhio e savane infuocate: la vecchia Africa pulsa ancora sotto le lamiere e i grattacieli.
Un caso a parte è rappresentato dai giovani scrittori sudafricani post-apartheid che hanno dovuto confrontarsi con gigantesche trasformazioni ma anche con le clamorose delusioni del neonato stato arcobaleno, con odi ancora forti tra bianchi e neri, e violenze interetniche: grandi città come Johannesburg e Cape Town sono diventate meta di africani da ogni parte del continente, generando numerosi conflitti contro i migranti. L’Aids e la violenza delle gang urbane dilagano. Ma è nata anche una stagione di creatività poetica e musicale veramente eccezionale. Ne recano tracce “Benvenuti a Hillbrow” di Phaswane Mpe (Sirente, 2011) “Cane mangia cane” di Nicholas Mhlongo (Morellini, 2008) “Camera 207”di Kgbetli Moele (Epoché, 2009) e i numerosi testi di slum poetry, performers, rapper, piuttosto che i consolidati romanzi del premio Nobel J.M. Coetzee e della famosa Nadine Gordimer. Particolarmente significativa l’emozionante antologia poetica “Marikana. Il Sudafrica e la fine del sogno arcobaleno” (Aviani &Aviani, 2015) che ce ne dà un’ampia panoramica, alternando cronaca, racconti e poesie di inquietante bellezza. Con “Nato fuori legge” (Ponte alle Grazie, 2019) Trevor Noah, un sudafricano di grande successo nelle tv americane come comico e presentatore sui generis, ci dà le sue memorie di meticcio, nato da madre nera khsosa e padre bianco svizzero. Nato con l’apartheid, vissuto con la fine del potere bianco e del dopo Mandela, ci consegna una incredibile descrizione, mai letta finora neanche nei saggi, delle traversie di un meticcio, troppo bianco per gli uni, troppo nero per gli altri, scritta con un’ironia continua e spiazzante.
4. Temi nuovi: a) l’omosessualità ; b) il dilagare dell’integralismo islamico.
a) In alcuni testi compare, con modalità diverse, una tematica finora ignorata, quella relativa all’omosessualità.
Antesignano, nell’introdurre il tema gay nelle storie, era stato Ala al Aswani in“ Palazzo Yacubian” (Feltrinelli, 2006), il cui romanzo tuttavia non ruotava solo intorno a questo problema: la storia narra le diverse vicende di un condominio cairota, tra cui quella di un giornalista omosessuale che si lega d’amore con un giovane militare. L’intento dell’autore è quello di far emergere le ipocrisie dei benpensanti e dei religiosi di un microcosmo corrotto e avido, uno spaccato della società egiziana all’epoca di Mubarak. Le numerose e furibonde polemiche, anche in relazione alle immagini osé del film che fu tratto dal libro, ve le lasciamo immaginare…
Nel continente africano, in ben 38 stati l’omosessualità è un reato grave e i gay sono sottoposti a soprusi, nella vita quotidiana e nelle loro scelte, non solo da parte dei governi ma anche della gente comune, fortemente invischiata in questo pregiudizio. Nel romanzo di Tendai Huchu, nato in Zimbabwe ma residente in Scozia,“ Il parrucchiere di Harare”( Terre di Libri, 2014) troviamo lo sgretolarsi della vita segreta di un omosessuale, parrucchiere geniale nel salone più famoso della città, microcosmo- metafora del paese nelle mani del dittatore Robert Mugabe e della sua cricca: le sue scelte, la lotta contro l’educazione imposta dalla famiglia e i pregiudizi sociali diventano un auspicio di lotta comune contro un regime ingiusto, corrotto e autoritario. In “Moffie”(Iacobelli, 2012) André Carl von der Merwe, un sudafricano anglo-afrikaaner, rielaborando, 25 anni dopo, materiale di un suo diario in romanzo, parla direttamente della sua esperienza di omosessuale, durante la lunga ferma militare negli anni dell’apartheid e degli interventi in Angola e Namibia. Viene descritta minuziosamente la dura educazione boera e calvinista a cui fu sottoposto dal padre che lo scherniva, chiamandolo “moffie”, femminuccia. Saranno proprio le ingiustizie subite nella sua persona e le violenze perpetrate a danno di popolazioni inermi e contro i neri del suo paese a legare in lui la lotta anti-apartheid e quella per i diritti degli omosessuali. In Sudafrica oggi l’omosessualità non è più reato. Un testo serio e struggente a differenza dei toni satirico-umoristici degli altri.
Max Lobe, scrittore camerunense trapiantato in Svizzera, ne “La trinità bantu” ci dà proprio della Svizzera, luogo di ambientazione della storia. un’immagine diversa dal solito: si narrano le vicende tragicomiche di un immigrato laureato, alle prese con una ricerca lavorativa adeguata al suo livello culturale, e del suo compagno svizzero di alta estrazione borghese, gay sì, ma incapace di capire la dura problematica che ruota intorno ad un migrante .
b) L’altro tema del paragrafo sta conoscendo una diffusione in letteratura, legata purtroppo alla cronaca: dal 2004 si susseguono attentati terroristici, rivendicati a torto o a ragione prima da Alqaeda poi dall’Isis in Europa, in Africa e in Medioriente. Questo ha indotto alcuni scrittori, soprattutto algerini che hanno vissuto 10 anni di guerra civile con gli islamisti, a porsi delle domande su chi siano i giovani che cedono alle lusinghe della propaganda integralista in patria e in Europa, soprattutto in Francia.
Yasmina Khadra ha dedicato già due romanzi all’argomento:”L’attentato”(Sellerio, 2016) e “Khalil”(Sellerio, 2018) in cui si seguono i profili, nel primo, di una dottoressa palestinese, che si immola come kamikaze, nel secondo, di un ragazzo emarginato del quartiere Molenbeeck di Bruxelles, passato nelle fila dell’integralismo, che poi opera una scelta divergente da quella dei compagni che si erano radicalizzati con lui. Se nella serie precedente dell’ispettore Lobo, Yasmina Khadra aveva fatto emergere le lotte di potere tra islamisti e l’élite algerina al governo dalla fine della guerra per l’indipendenza, qui invece cerca di indagare la falsa integrazione prodotta dall’Europa nei confronti degli immigrati che consente agli integralisti la propaganda antioccidentale e la promessa del paradiso a chi si immola.
Anche il marocchino Mahi Binebine descrive la vita di un gruppo di adolescenti di una bidonville alle porte della modernissima Casablanca ne “Il grande salto”( Rizzoli, 2016) in cui spiega le relazioni che gli integralisti riescono ad instaurare e le tecniche usate con i ragazzi deprivati, ma che hanno dei sogni come tutti i giovani, fino ad indurli agli attentati e al sacrificio di sé. Ala al Aswani, invece, in “Sono corso verso il Nilo”(Feltrinelli, 2018) ci mostra gli intrecci tra i Fratelli Musulmani, sopravvissuti alle repressioni di Mubarak, decisi a salire sul carro dei vincitori che hanno piegato in Egitto la primavera araba, per occupare tutti i sistemi d’informazione e intrattenimento televisivi e dei media in generale, alleati del potere di turno.
Di carattere diverso è “2084 la fine del mondo” dell’algerino Boualem Sansal (Neri Pozza, 2016) un romanzo distopico che ipotizza la vittoria del Daesh, dopo una guerra mondiale, in cui l’integralismo è ormai in grado di dettare legge in ogni angolo della terra e le persone conducono una vita eterodiretta, ormai senza più pensieri o comportamenti divergenti, pena terribili castighi. Pessimista e angosciante, l’autore se la prende non solo con la religione musulmana, ma con tutte le religioni che si comportano in modo totalizzante, e non risparmia neanche il ‘political correct’ nei confronti dei musulmani che ha , secondo lui, paralizzato intellettualmente l’Europa.
Comunque incursioni sull’integralismo sono contenute, sia pure di sfuggita dove il problema è meno sentito, anche in altri romanzi .
5. Le storie per narrare la Storia
Sono molti gli scrittori che si avventurano nei terreni della rievocazione storica, con protagonisti bambini o adolescenti che danno voce ad un passato considerato imbarazzante, difficile o addirittura indicibile. Le voci infantili, con quel tasso di estraneità al mondo serio degli adulti, spesso riescono a restituire la complessità della Storia , proprio perché funzionano da elemento distanziante.
Anche Hisham Matar ne “Il ritorno” ( Einaudi, 2017) ricorre ai ricordi d’infanzia per parlare del regime di Gheddafi, collegando l’io bambino con l’uomo maturo che ritorna in Libia dopo la morte del dittatore.
In “ Piccolo paese” ( Bompiani, 2017) Gael Faye, di padre francese e madre tutsi del Rwanda, rievoca la parte felice del tempo vissuto in Burundi, le scorribande tra le ville residenziali del quartiere in cui viveva; fino a quando l’eden si interrompe e si profila il tragico conflitto, di cui il ragazzino non riesce a comprendere i contorni: è il modo che l’autore escogita per svelarci l’assurdità di quelle guerre che hanno insanguinato la regione dei grandi laghi. Non possiamo citarli tutti, ma numerosi sono i romanzi sui bambini-soldato e sul Rwanda-Burundi.
Con l’autrice bambina e i racconti delle vicissitudini della famiglia, Yasmine El Rashidi ci trasporta nell’Egitto sia dei tempi della monarchia che di Nasser e Sadat.
E’ una protagonista quattordicenne che ci narra la violenta lotta tra shona e ndebele nello Zimbabwe, raggiungendo effetti involontariamente quasi comici, tanto tutto le sembra assurdo ne “La fuga di Rudo verso i monti Phezulu” di Cristopher Mlalazi ( Terre di libri, 2014).
Mia Couto sceglie un protagonista undicenne ne “L’altro lato del mondo”( Sellerio, 2015) per sciogliere la sofferenza di un padre che non è riuscito ad elaborare i lutti della guerra civile in Mozambico.
Per ben due volte l’angolano Ondjaki è tornato ad affidare a dei ragazzini la rievocazione della guerra civile in Angola degli anni’80, dopo le lotte per l’indipendenza: con “Buongiorno compagni”( Iacobelli, 2011) e poi con “Nonna diciannove e il segreto sovietico”( Il sirente, 2015). Ha esplorato le tensioni, i conflitti e le atrocità attraverso le impertinenze di un bambino di una famiglia acculturata e benestante, nel primo testo, e nel secondo, tramite una banda di ragazzini di un quartiere povero di Luanda, a contatto con sovietici e cubani, presenti sul territorio per “aiutare” l’Mpla. Innocenza, umorismo, speranza e delusione accompagnano le osservazioni dei piccoli protagonisti.
Anche Alain Mabanckou si cimenta con protagonisti infantili in ”Domani avrò vent’anni” (66thand2nd, 2011) che descrive la sua infanzia a Pointe Noire in una famiglia borghese alle prese con il comunismo di stato e le grandi trasformazioni economico- politiche del mondo apprese alla radio senza capire veramente. E poi in “Peperoncino”( 66thand2nd,2016) che è una sorta di romanzo di formazione al negativo: una coppia di orfani cerca di sopravvivere al collegio e alle pretese di educatori incapaci, incaricati di fare di loro una manovalanza ubbidiente al governo comunista. Come sottrarsi? Così i due sognano un futuro da delinquenti per sottrarsi ad un destino già segnato.
Il mauritano Karim Miské in “Appartenersi” ( Fazi, 2016) rilegge la Storia con gli occhi di se stesso bambino e poi adolescente: la Mauritania del padre, musulmana e schiavista - il genitore appartiene infatti ad una famiglia nobile - lo disgustano quanto l’Albania di Enver Oxa, frequentata per un periodo di tempo con la madre, ottusamente comunista.
Ne “ I pescatori “ di Chigozie Obioma (Bompiani, 2016) con toni un po’ realistici, un po’ da favola, le vicende dei sei figli di una famiglia nigeriana offrono lo spunto per dare uno sguardo alla guerra del Biafra degli anni’60, alle violenze politiche e alla corruzione dilagante dagli anni ‘90 ad oggi, visti da una cittadina di provincia ancora immersa nella natura e nella campagna. Bambino e poi adolescente è il protagonista de ”Gli angeli muoiono delle nostre ferite” di Yasmina Khadra ( Sellerio, 2014), che ci fa conoscere la povertà delle zone rurali del paese e poi la Orano luci ed ombre degli anni’30 , durante il periodo della colonizzazione francese.
Alcuni autori preferiscono ricostruzioni storiche inquadrate in una immaginazione surreale e onirica come Pepetela in “La generazione dell’utopia” (Diabasis, 2009), Luandino Vieira in ”Di fiumi anziani e guerriglieri (Albatros,2010), il già citato Mia Couto “L’altro lato del mondo” ( Sellerio, 2015), J.E.Agualusa in “Teoria generale dell’oblio” (Neri Pozza, 2017), tutti di area lusofona. Tutti i testi sono in relazione alle lotte per l’indipendenza e alle guerre civili successive.
Un’altra bambina che fugge in America dai disordini delle guerre civili è il mezzo di cui si serve Noviolet Bulawayo dello Zimbabwe in “C’è bisogno di altri nomi”(Bompiani, 2014) per spiegare lo spiazzamento di chi emigra: il paese sognato non è quello che ci si trova ad affrontare. Ma anche ci parla del solco che si crea tra chi parte e cambia e chi resta e sente l’altro ormai non più in comunione.
Altri, pur in ricostruzioni storiche affidate al romanzesco delle storie di fiction operano delle vere e proprie informazioni e riflessioni su argomenti spesso sconosciuti al pubblico europeo o negletti dalla storiografia ufficiale. Ci riferiamo per esempio a “La punizione” di Tahar Ben Jelloun “(La nave di Teseo, 2018”) sulla prigionia illegale di molti giovani negli anni repressivi del re Hassan II in Marocco, tra gli anni ‘60 e i ‘70.
Così anche in “Montplaisant” (66thand2nd, 2017) e “La stagione delle prugne” (66thand2nd, 2018) dove il camerunense Patrice Nganang rievoca, nel primo citato, attraverso la corte dell’illuminato sultano Noya, la storia del Camerun tra le due guerre mondiali ; nel secondo, il ruolo svolto dalle truppe africane, in particolare del suo paese, nella II guerra mondiale e il contributo delle lotte per la riconquista della libertà dal nazifascismo, partendo dal punto di vista di una comunità rurale, ovvero il centro interpretato dalla periferia. Completerà la trilogia, il terzo libro dello scrittore, “Empreintes de crabe” di prossima pubblicazione, nella traduzione italiana.
“L’italiano” ( e/o, 2017) del tunisino Shoukri al Mabkhout offre ai lettori italiani la ricostruzione, negli anni’’80-’90, del periodo di passaggio politico da Bourghiba a Ben Ali, segnato da grandi trasformazioni socio-economiche, dall’emergere dell’islamismo, da una dura repressione di sindacati e partiti di sinistra. Il mozambicano Ungulani Ba Ka Khosa in “Ualalapi” (Edizioni Aiep,2004) ricostruisce un frammento della storia del suo paese con le vicende dell’ultimo imperatore di Gaza nel XIX secolo.
Alice Zaniter, nella sua ricerca identitaria, ne ”L’arte di perdere” propone un argomento, indigesto ai francesi quanto agli algerini: il trasferimento in Francia degli harki, tacciati di collaborazionismo e tradimento, imposto dalle circostanze della guerra d’Algeria e l’atteggiamento vergognoso loro riservato dai governi e dalla gente, senza comprendere di che cosa realmente si fosse trattato. I libri della Zaniter e di Nganag, che ritengono di aver dato voce a coloro ai quali era stata negata, contengono in fondo al testo, l’elenco dei saggi e studi, documenti e siti da consultare perché si pongono proprio come testi veritieri e storici, pur nelle invenzioni di personaggi e trame.
Adotta questo metodo anche Igiaba Scego in “Adua”, parlando della situazione passata e presente della Somalia. Lo stesso apparato storico è presente nei testi “Azazel” ( Neri Pozza, 2010) e “Nabateo lo scriba”(Neri Pozza, 2011) dello studioso egiziano Youssef Ziedan che si cimenta con la narrativa storica lanciandoci nella Alessandria del V secolo tra le giovani e litigiose comunità cristiane nel primo, e nel secondo, tra i Nabatei del VII, alle soglie della conversione all’Islam che sta avanzando.
Alcuni romanzi ricreano meticolosamente attraverso la storia di alcune famiglie la vita del Cairo al tempo del debosciato re Farouk in “Cairo automobile club” (Feltrinelli , 2014) di Ala al Aswani o gli anni faticosi da Nasser a Sadat e Mubarak ne “Le stagioni di Zhat” (Calabuig, 2015) di Sonallah Ibrahim: tutte delusioni e speranze di allora narrate con un occhio alle cosiddette primavere arabe successive.
Una dolente e allucinata fantasia storica è rappresentata da “L’ultima notte del Rais” (Sellerio,2015) di Yasmina Khadra, dove viene immaginato un Gheddafi - inconsapevole della morte prossima che sta per raggiungerlo - che ripensa alla sua vicenda di vita, che è anche storia della Libia, incapace di uscire dal suo egocentrismo e megalomania di dittatore. E’ per l’autore l’occasione di porre una riflessione su tutte le dittature, in particolar modo quelle africane di cui il continente non riesce ancora a liberarsi.
Da citare insieme sono i tanti testi di scrittori algerini che ritornano sempre a questi argomenti chiave: la guerra di liberazione e i successivi governi dell’FLN, l’islamismo e la guerra civile, i deprivati giovani di oggi e i padri della rivoluzione imbolsiti e resi avidi dal potere, e infine, sorprendentemente, quale rapporto avere con lo scrittore francese, pied noir d’Algeria, l’amato-odiato Albert Camus. Menzioniamo, come esempio, l’interessantissimo romanzo “Il Caso Mersault” (Bompiani, 2015) e i racconti de “ La prefazione del negro” di Kamel Daoud (ed. Casagrande, Bellinzona, 2013), “Camus nel narghilé” (ed. E/O, 2013) di Hamid Grine, “La libreria della rue Charras” ( ed.l’Orma,2018) di Kaouther Adimi, “Lo specchio vuoto” (Mesogea, 2018) di Samir Toumi.
6. Scrittori e scrittrici dal Corno d’Africa
Un discorso a parte merita questa area geografica per alcune motivazioni.
La prima riguarda i legami coloniali e post coloniali con l’Italia . L‘editoria italiana ci ha regalato una stagione felice di pubblicazioni: ci riferiamo ai testi del somalo Nuruddin Farah, tradotti da Edizioni Lavoro tra il 1993 e il 2003 ( ultimo tradotto “Nodi”, Frassinelli 2008), del gibutiano Abdourahman A.Waberi di cui ricordiamo, tra gli altri, “Transit” (Morellini, 2005) e “Gli Stati Uniti d’Africa” ( Feltrinelli, 2009), dell’etiope Maaza Mengiste, “Lo sguardo del leone” (Neri Pozza, 2010), della somala Nadifa Mohamed, “Mambaboy” ( Neri Pozza 2010), di Dinaw Mengestu,”Leggere il vento” ( Piemme 2011). In seguito più nulla è stato pubblicato. Certo lo stato perenne di agitazione e difficoltà in Eritrea ed Etiopia, soprattutto in Somalia , da cui è arrivata una ingente quantità di immigrati in Europa, forse tiene lontani gli autori dallo scrivere e gli editori dal tradurre e pubblicare.
La seconda motivazione è che da questa stessa area provengono 4 scrittrici italiane di origine africana: Gabriella Ghermandi, Ubax Cristina Ali Farah, Igiaba Scego, Erminia Dall’Oro. Ci hanno dato delle opere per le quali si è parlato di scrittura post-coloniale italiana. Non è questa la sede per disquisire sull’argomento, vogliamo solo presentarle insieme, perché, a differenza degli autori italiani che hanno scritto testi ambientati in Africa, loro sono, come individui e come membri di famiglie, parte della storia del Corno d’Africa e delle vicende migratorie che le hanno portate ad una identità plurima.
In verità, Erminia Dell’Oro è italiana, in quanto figlia di italiani presenti in Eritrea dalla fine dell’800; tornata in Italia quando non è stato più possibile vivere ad Asmara, ha mantenuto rapporti stretti con quella che lei considera la sua terra d’origine, vedi “Asmara addio”(Dalai, 1997). Con “L’abbandono” del 1997 ma ripubblicato da Einaudi nel 2006 , torna all’Eritrea colonia italiana, con il fenomeno del madamato, le leggi razziali, i figli meticci, schivati da italiani e autoctoni e un senso incerto della propria identità con Marianna, figlia di Sellass, protagonista del romanzo. Ne “Il mare davanti” ( Piemme, 2017) affronta invece l’emigrazione di un giovane dall’Eritrea, come disertore di un esercito che tiene nella ferma i suoi giovani a tempo indeterminato, impedendo loro un futuro. L’approdo in Italia è però pieno di incognite.
Gabriella Ghermandi, madre etiope e padre italiano, ha sorpreso il mondo letterario con “Regina di fiori e di perle”( Donzelli, 2007) nel proporre una vera e propria rivisitazione della storia dell’Etiopia dagli anni del fascismo ad oggi, passando per la dittatura di Menghistù, ponendo al centro coloro che l’hanno vissuta con sofferenza ma anche con fierezza. Suo impegno precipuo, in un passaggio di testimone dal nonno narratore di storie a se stessa, è non disperdere il ricco patrimonio culturale, anche in situazioni di lontananza ed emigrazione. La scrittrice infatti si è trasformata in una performer di monologhi teatrali e musicali della tradizione etiopica in una originale forma musicale che mescola suoni antichi e moderni ( vedi CD Atse Tewodros Project, un progetto di jazz italo-etiope, 2014).
Nei due testi “Madre piccola”( Frassinelli, 2007) e “Il comandante del fiume” ( 66Thand2nd, 2014) Cristina Ali Farah, di madre italiana e padre somalo, ci immette nel passato e presente di famiglie somale scappate dalla guerra civile con una scrittura non lineare, polifonica e intermittente come l’andirivieni di ricordi dolorosi. Suoi temi, soprattutto nel primo libro, sono le difficoltà e lo sradicamento nella diaspora, le differenze tra uomini e donne nell’affrontarle, la delusione dell’Italia, da cui molti somali si attendevano una accoglienza migliore di quella che hanno trovato. Nel secondo testo tocca, nel protagonista adolescente, il senso di identità di chi è nato ‘dopo’ in Italia e non conosce né la Somalia né la guerra civile, se non dai racconti a mezza bocca degli adulti che vorrebbero preservare i figli dagli orrori. Ma non si può avere futuro se non si fanno i conti con il passato, anche a costo di scoperte dolorose.
Igiaba Scego è entrata con grande attivismo nel mondo culturale che in Italia si occupa di immigrazione, razzismo, seconde generazioni e identità, partecipando a testate giornalistiche, scrivendo testi per le scuole, pubblicando con scrittori e scrittrici, italiani di origine straniera, che hanno queste tematiche in comune con lei, come per esempio “Pecore nere” (Laterza, 2006). Ma l’uscita di “Oltre Babilonia”( Donzelli, 2008) e “Adua”(Giunti, 2015) l’hanno consacrata come scrittrice di seconda generazione a pieno titolo, entrando nel tema identitario non solo con la mente, ma anche con il corpo, soprattutto con la storia di Zurha del primo testo, una negropolitana romana con una doppia lingua, doppia storia, un padre in comune con una ragazza di origine argentina. Una confusione di storie, idee, emozioni, soluzioni sbagliate di vita e possibilità di uscirne fuori con qualcosa di sensato per tutti. Ma è in “Adua” che ci chiede il conto per il passato coloniale, per il dittatore Siad Barre e il ruolo svolto dall’Italia, per il razzismo di ieri e di oggi, per l’indifferenza di quanto accade in Somalia, attraverso la storia di una donna matura, emigrata negli anni’70, alle prese con i suoi sogni falliti e quelli di suo padre e con la immigrazione dei giovani di oggi diversa da quella del passato.
Tutte donne e storie di donne quelle che vi abbiamo citato, narrate da una angolazione femminile, in cui la riflessione sul passato cortocircuita con il presente in modo incessante ed emozionante.
7. Scrittori italiani ed ex-colonie africane
Nel momento in cui, con mutate condizioni storico-politiche, si sono aperti archivi segreti, in cui l’immigrazione dall’Africa ha riacceso antichi fantasmi da esorcizzare o da comprendere meglio e gli storici hanno messo mano a un materiale ostico senza paraocchi e pregiudizi politici e culturali, allora è cominciato il boom editoriale di fiction ambientate prevalentemente nell’Africa orientale o (in minore misura) in Libia e pubblicazioni di memorie personali o familiari. Riemerge il rimosso coloniale anche di parte etiope: viene edito “Martha Nasibù. Memorie di una principessa etiope” (uscito nel 2012, ma riproposto da Neri Pozza nel 2015).
La querelle su che natura abbia avuto il colonialismo italiano pervade in modo sotterraneo la scrittura dei testi, che spesso assumono forme di noir e dell’indagine di polizia militare o giudiziaria.
Ci narrano storie in cui emergono i comportamenti negativi di gerarchi fascisti, carabinieri o militari che hanno condotto a eccidi, malversazioni, vessazioni su popolazioni inermi, o a casi di corruzione amministrativa.
Lo scrittore Carlo Lucarelli per ben tre volte è tornato ad ambientare romanzi in Etiopia ed Eritrea con l’emozionante “L’ ottava vibrazione”( Einaudi, 2008 ) dedicato alla sconfitta /vittoria di Adua
( dipende dal punto di vista), “Albergo Italia” (Einaudi, 2014) e “Il tempo delle iene” (Einaudi, 2015) gli ultimi due con la spassosa coppia investigativa del capitano dei carabinieri Colaprico di stanza in Eritrea e il suo aiutante Ogbà, brigadiere delle milizie locali.
Giorgio Bellario ha inventato la serie del maggiore dei carabinieri Morosini, coadiuvato dal maresciallo Barbagallo e da Tesfaghi, altro aiutante locale in “Morire è un attimo”(2008), “Una donna di troppo”(2009) editi da Angolo Monzoni , “Le rose di Axum”( Hobby &Work, 2012) e “Le nebbie di Massaua”(edizioni del Capricorno, 2018). Tutti i testi disegnano atmosfere di fine ‘800 o del biennio 1935-’36, alle soglie dell’aggressione mussoliniana dell’Abissinia, con le città dominate dagli stessi intrighi, servilismo, corruzione e affarismo come se fossero Roma o Milano, con qualche tocco di esotismo e avventura.
Anche “Un mattino a Irgalem” (Fandango, 2001) di Davide Longo presenta un avvocato militare che d’ufficio deve difendere il caso di un sergente che ha sgozzato e squartato non solo civili locali ma anche i compagni inviati per fermarlo, scheggia impazzita di una guerra assurda che sembra un personaggio uscito dai film contro la guerra in Vietnam. “I fantasmi dell’impero” di Cosentino, Dodaro, Panella (Sellerio, 2017) mescola fiction, dispacci militari, messaggi segreti, telegrammi per presentarci lotte di potere, strenua resistenza degli abitanti e l’Italietta di sempre, colonie o madrepatria che sia. Oppure abbiamo romanzi che descrivono la bella vita delle classi borghesi in colonia che non riescono a capire il perché delle ribellioni degli africani e non sono neanche capaci di presagire la fine dell’impero, sottovalutando inglesi e eroi della resistenza, trattati alla stregua di delinquenti comuni, come in “Notte abissina” di Fabrizio Coscia (Avagliano, 2006) e “Debra libanos” (Il Maestrale, 2002) di Luciano Marrocu : qui viene colta l’elegante vita di Addis Abeba tra l’attentato a Graziani, le ritorsioni sui civili e l’eccidio presso il monastero copto in cui morirono un numero ingente di monaci e fedeli, anche se la vita dei coloni continua spensierata tra balli e spettacoli.
Un altro filone riprende le esperienze di militari o civili partiti alla fine dell’800 con grande senso dell’avventura o nel 1936, rincorrendo la volontà di potenza, gloria e riscatto che Mussolini istilla nei giovani, oltre al miraggio di benessere e ricchezza che nell’Italia dei poveri funge da richiamo irresistibile. Ci sono gli incantevoli romanzi di Paola Pastacaldi “Khadija”( PeQuod,2005 ) e “L’Africa non è nera” (Mursia,2015) che contiene uno dei più bei ritratti di Asmara, ”Ti saluto vado in Abissinia”(Marlin, 2016) di Stefano Prosperi, “La grande A”(Giunti, 2017) di Giulia Caminito , “La malinconia dei Crusich” di Gianfranco Calligarich ( Bompiani, 2016). Il focus di questi testi è più che altro sugli italiani e in maggioranza sono ben documentati, anche se un po’ resta il sospetto, per alcuni, che lo stereotipo “italiani brava gente” sia duro a morire.
La colonia viene sentita come un laboratorio sociale di creatività e laboriosità di un’Italia che, di lì a poco, sarebbe stata capace di tirarsi su dalle macerie della II guerra mondiale, inventando un boom economico, giudicato impossibile.
Altri, invece, si avvicinano di più alla vita degli etiopi, eritrei e somali, narrandone le sofferenze, le violenze subite, gli effetti dell’iprite e rendono gli africani protagonisti. Ci riferiamo a “Timira, romanzo meticcio” di Wu ming 2 e Antar Mohamed, sulle vicende reali di Isabella e Giorgio, figli di un militare italiano e di una donna somala durante l’occupazione italiana, riconosciuti dal padre e fatti venire in Italia. Le leggi razziali, la doppia identità vissuta durante il periodo fascista, il miraggio dello spettacolo per lei, l’adesione e la morte nella resistenza per lui, il ritorno di Isabella in Somalia, abbandonata poi come profuga nella guerra civile del’91 rendono la storia dei due meticci, che va dagli anni ‘20 ai ‘90, estremamente affascinante. Documenti, lettere, articoli si alternano alle pagine di fiction, cui hanno collaborato Antar, figlio di Isabella e la stessa donna, prima di morire. Anche “Sangue giusto” di Francesca Melandri (Rizzoli, 2017) unisce la storia contemporanea, riferita all’immigrazione odierna dal Corno d’Africa, al passato coloniale dell’Italia. Sull’immigrazione, il razzismo e l’ integrazione, sulla politica italiana che affronta l’accoglienza in modo inadeguato e burocratico, sullo stato di guerra permanente in Somalia che non permette una vita quotidiana normale, punta Carmine Abate ne “Le rughe del sorriso” ( Mondadori, 2018): il romanzo contiene anche la descrizione della terribile traversata del deserto per giungere ai punti d’imbarco in Libia e dell’inumano comportamento dei libici, trafficanti e poliziotti.
I romanzi ambientati in Libia, a parte l’originale “Carmine Pascià che nacque buttero e morì beduino” (Rizzoli, 2008) di Gian Antonio Stella, sono tutti legati ai due eventi tragici della cacciata degli ebrei, molti dei quali italiani, nel 1967 e al rimpatrio forzato degli italiani nel 1970, insediatisi nel 1938 come coloni. Con “Carmine Pascià” siamo nel 1917, quando un contadino pastore del Cilento, arruolato a forza dall’esercito italiano e spedito in Libia, si sveglia dopo una sbornia colossale prigioniero degli arabi che resistono agli italiani. Da qui si dipana una vicenda in cui il protagonista finisce con l’essere dalla parte della guerriglia araba: dopo tutto ha più dimestichezza con questi pastori beduini severi e onesti che con l’esercito di uno stato italiano che gli era sempre stato nemico.
“E venne la notte” (Giunti, 2003) di Victor Magiar narra la storia di un bambino di famiglia ebrea sefardita, da secoli installata in Libia: la vita facile e dolce della comunità ebraica di Tripoli viene bruscamente interrotta dal conflitto israelo-palestinese del 1967: già precedenti pogrom non avevano fatto presagire nulla di buono, ma ora tutta la famiglia deve andarsene, pena la morte. Lo stesso avviene per la piccola Micol di “Qual è la via del vento”(e/o, 2018) di Daniela Dawan, costretta con la famiglia a cercare scampo alla sfrenata e insensata caccia all’ebreo che si sguinzaglia tra le vie di Tripoli, senza che il vecchio re Idris riesca a controllare la situazione.
“Ultima estate in suol d’amor”( Neri Pozza, 2011 ) rievoca la Tripoli multietnica e multiculturale del periodo pre-Gheddafi: italiani, inglesi, francesi, ebrei e cristiani avevano trovato il modo di convivere in pace. Ma sta per abbattersi il ciclone Gheddafi che farà piazza pulita di quel clima culturale. L’adolescente protagonista della storia, tra amori e feste di matrimonio, respira l’ultima estate di permanenza degli italiani. La giornalista Luciana Capretti in “Ghibli” (Rizzoli, 2004) rievoca proprio la cacciata dei ventimila italiani nel ‘70, in un romanzo di fiction in cui emergono le memorie della sua famiglia che aveva subito tale sorte. Un rimosso della storia italiana: nessuno si commuove per le loro storie, un po’ come per i profughi giuliano-dalmati, ci si vergogna di questi ex-fascisti o presunti tali, ma la scrittrice li guarda con la mente rivolta ai profughi di oggi che sbarcano in Italia. Non importa da dove vieni, se sei costretto a scappare con ogni mezzo, hai diritto ad essere accolto. Un accenno ad un breve romanzo dello scomparso Manlio Cancogni, scritto da novantenne, ”Il trasferimento”(Elliot. 2017): un funzionario italiano della Cirenaica anni’30 ( dove la mano di Graziani è stata il più dura possibile) vede commettere ingiustizie e assassinii nei confronti dei libici che si ribellano. Non è di provata fede fascista e avrà un suo modo anche lui di ribellarsi. Accettata la sua domanda di rimpatrio ritornerà in Italia con un bambino adottato, figlio di un libico impiccato.
8. Il polar, la fantascienza, il fumetto: letteratura popolare, ma non solo
Il giallo, la detective story, il thriller sono chiaramente identificabili come letteratura popolare che tuttavia, anche in Africa, ha acquisito i tratti di un genere utilizzato da alcuni autori per descrivere la società contemporanea, soprattutto i suoi mali: molto spesso dominano pessimismo e cinismo, ma non mancano umorismi, ironie e sarcasmi.
Yasmina Khadra ha inventato le inchieste del duro, cinico ma integerrimo commissario Llob, di cui la casa editrice E/O ha curato quasi tutta la serie fino a “Morituri” del 2006, accanto al recente “Il pazzo col bisturi” ( ed.Capricorno, 2017) : è un commissario che si confronta pericolosamente con il terrorismo, ma anche con la corruzione degli alti papaveri di Algeri.
Anche il serissimo angolano Pepetela si cimenta con il genere, creando un buffo e sconclusionato agente con il mito di James Bond che a Luanda deve seguire un caso intricatissimo di stupro e assassinio, ma che finisce con lo sventare un complotto addirittura contro lo stato. La coppia del commissario Habib e dell’ispettore Sosso, ricreando un po’ il gioco di Sherlock Holmes e di Watson, è uscita dalla penna del maliano Moussa Konaté, scomparso nel 2013; le loro avvincenti inchieste, tutte edite da Del Vecchio editore tra il 2010 e il 2015, ci trasportano a Bamako e in altri luoghi del Mali, facendo emergere il progressivo sgretolamento delle tradizioni e le trasformazioni che stanno per far precipitare il paese nell’abisso in cui si trova attualmente. Mah Aissata Fofana, anche lei del Mali, fa agire nei villaggi dogon le inchieste dell’ ispettrice Fofy in romanzi dai titoli chilometrici come “ Un popolo delle stelle, un baobab, il cadavere di un albino” ( Segno, 2012) e “Un cadavere sorridente, una calebasse piangente, un balanzan rimpicciolito ( Segno, 2013).
La lettura di “Polvere di diamanti” dell’egiziano Ahmed Mourad tocca i vertici di un noir decadente, oscuro, ricco di colpi di scena, svelandoci un Cairo, pre-caduta di Mubarak, in cui un giovane deve farsi giustizia da sé, perché intorno dominano solo soprusi e nefandezze.
Il sudafricano Deon Mayer scrive a rotta di collo dei bestseller mozzafiato ed è tradotto dall’afrikaans dalle maggiori editorie mondiali, in Italia principalmente da Piemme ed e/o, con modalità narrative gradite al pubblico internazionale. Il giornalista del Benin Florent Couao-Zotti gioca con il genere pulp precipitandoci nelle notti di Cotonou, piene di agguati , intrighi e crudeltà, in “Non sta al porco dire che l’ovile è sporco” (66thand2nd, 2012) con un gusto del grottesco e dello splatter che rasenta Tarantino. Nella foresta e i suoi inquietanti misteri siamo invece condotti dal ghanese Kwei Quartey in “Omicidio della foresta”(Feltrinelli, 2010).
Anche una scrittrice marocchina, Bahaa Trabelsi, ne “La sedia del custode”( edizione Le Assassine, 2018) si serve della caccia a un serial killer fondamentalista per parlare di Casablanca, in bilico tra modernità e tradizioni, contraddizioni religiose con tanto di polizia corrotta e un sentore di lussuria che neanche Sodoma e Gomorra...
Di diverso genere la serie di gialli sfornata da Alex McCall, un giurista scozzese che ha vissuto a lungo a Bulawayo in Zimbabwe: protagonista di inesauribili avventure è la detective Precious Ramotswe, una pacifica e tenace signora africana di Gaborone che detiene l’unica agenzia di investigazioni diretta da una donna in Botswana, capace con il suo fiuto femminile di sbrogliare le matasse più ingarbugliate: garbo e buonumore, con qualche pizzico di brivido, sono le caratteristiche di questi testi divertenti, tutti editi da Guanda.
La fantascienza ha un grosso potere attrattivo in Africa, ma i lettori italiani non possono conoscerla in modo approfondito, date le scarse traduzioni, mentre risulterebbero interessanti. Il motivo è da ricercarsi nel permanere, in molte culture africane, dell’attrazione per la magia, per personaggi dotati di poteri soprannaturali che si intrecciano con certi archetipi della fantascienza occidentale. Gli autori africani di questo genere, le cui opere vengono tradotte e pubblicate, si dirigono verso storie di invasioni aliene, che riducono in schiavitù gli autoctoni, prediligendo i racconti distopici o utopici per parlare dell’oggi. Come nel recente “La fila” (Produzioni Nero, 2018) dell’egiziana Basma Abdel Aziz, prodotto tipico della weird fiction in cui è rappresentata una umanità, presumibilmente nordafricana, in fila per l’apertura di una misteriosa porta verso un non si sa che cosa: uomini che si dibattono tra il desiderio di entrare per avere cibo e un po’ di benessere e la voglia di fuggire di là dal mare. Di questo genere abbiamo già citato “2084 La fine del mondo” di Sansal, il racconto “Gibril al cherosene” di Kamel Daoud più affine, in verità a un ‘conte philosophique’. Anche “Gli Stati uniti d’Africa” (Feltrinelli, 2009) di Waberi, operando un rovesciamento di prospettiva, mostra la storia al contrario di profughi euroamericani, impoveriti da disastri ambientali, crisi economiche e guerre, che si accalcano alle porte di un’Africa opulenta e sviluppata. Aggiungiamo “Chi teme la morte” ( Gorgoyle, 2015) e “Laguna”( Zona 42, 2017) della scrittrice americana di origine nigeriana Nnedi Okorafor, che mescola magia, fantasy e fantascienza con miti della tradizione igbo. I romanzi si svolgono in una Nigeria postapocalittica o in un qualunque paese africano similare, in cui non è difficile scorgere la realtà dolorosa degli stupri etnici, della sopraffazione di un gruppo etnico su un altro, l’emergere di un bisogno di salvezza, contando solo su forze che escono in seno alla propria gente, ma utilizzando la tradizione in un modo diverso dagli antenati. Di prossima uscita in Italia, della stessa autrice, l’ultimo della trilogia di “Binti”, in cui una ragazza affronta il viaggio per andare a studiare, parecchi universi più in là, scoprendo che restare dentro una sola cultura non ci mette in condizione di capire e che tutti dobbiamo trasformarci. Tomi Adeyemi, figlia di immigrati nigeriani negli Usa, con “Figli di sangue ed ossa” (Rizzoli, 2018) ci da un’allegoria dell’essere neri oggi, attingendo alla mitologia yoruba e proponendo un’eroina nera, soprattutto alle giovani generazioni femminili afroamericane e non.
Per quanto riguarda i comics ricordiamo l’uso didattico del fumetto nelle scuole africane e di molte onlus che li utilizzano in campo educativo e sanitario, agevolando la diffusione del genere. Il settore conta in Africa molti giovani autori, invitati ormai in tutti i numerosi festival del settore italiani ed europei, ma che stentano a trovare la pubblicazione in Italia. Dal 2008 si è cercato, tramite soprattutto l’associazionismo, di divulgare il più famoso fumetto senegalese “Goorgoorlou” di TTFons (Lai Momo, 2008), dedicato alla presa in giro del disoccupato classico di Dakar, alle prese con il faticoso ‘sbarcare il lunario’ che è la sua attività quotidiana fondamentale.
Nel 2010 fece scalpore la pubblicazione, per le edizioni Sirente, di “Metro” dell’egiziano Magdi El Shafee, soprattutto perché il giovane autore era stato tratto in processo, insieme al suo editore, per gli argomenti e le immagini osé del fumetto. Esempio di contaminazione tra realismo sociale e mezzi visivi dei nuovi media, mostra come , attraverso i comics, alcuni giovani autori, impegnati sui temi più scottanti del paese, cercano di dare il loro contributo. La graphic novel “Metro” si svolge, in gran parte, nelle stazioni sotterranee della metro del Cairo, narrando in uno splendido bianco e nero, una storia di corruzione e voglia di libertà, che reca tutto il sapore dei giovani che hanno lottato a piazza Tahrir.
In italiano direttamente è stato pubblicato da Becco Giallo editore, nel 2018, “Sotto il velo” della italo-tunisina Takoua Ben Mohamed, fumetto che narra con molta ironia la quotidianità di una ragazza che ha scelto liberamente il velo in Italia, toccando argomenti quali il razzismo, l’islamofobia e il dialogo interreligioso.
9. Che ne è della vecchia dicitura ‘letteratura della migrazione’?
Lungi dal voler commentare le etichette con cui si vogliono chiamare gli autori stranieri che scrivono in italiano -‘scritture migranti’, ‘scrittori di seconda generazione’, ‘scrittori postcoloniali’ e via dicendo- diciamo che comunque non sono molti gli scrittori africani che si esprimono nella nostra lingua, per le caratteristiche dell’immigrazione italiana, composte da una pletora di provenienze e di quelli del Corno d’Africa si è già detto nel paragrafo 6.
Quelle sopra citate sono espressioni che sono servite, per una cultura poco cosmopolita come la nostra, ad aprirsi ad altri mondi, a partire dalla fine degli anni’80. Concorsi, riviste e premi ad hoc rincorrevano tutti quelli che aprivano ai lettori italiani realtà diverse e esperienze spesso dolorose.
Molti autori, nella maggioranza giovani istruiti e colti, che avevano iniziato con racconti brevi o storie a sfondo autobiografico, scritte spesso in coppia con un italiano, hanno finito con l’entrare nella galassia degli operatori culturali nell’editoria, nel giornalismo, nell’associazionismo. Altri svolgono attività di mediatori culturali, spesso scrivendo per il teatro o comunque nell’ambito dello spettacolo. Evidentemente non si può vivere di sola letteratura.
Ci riferiamo , per esempio, al senegalese Mohamed Ba che nel 2013 ha pubblicato con le edizioni Paoline ”Il tempo dalla mia parte”, ma che si districa fra teatro, mediazione culturale e percussioni; il senegalese Mbacke Gadji, scrittore di punta delle Edizioni dell’Arco a partire dal 2003 con l’ultimo testo del 2011 ”Piove sul Ndoukouman”, dal duro taglio di reportage, tratta del traffico di droga nel suo paese; l’autore non si è negato nessuna esperienza, dalla politica, al cinema, al giornalismo. Il congolese Bakolo Ngoi, oltre che di letteratura per ragazzi si interessa di turismo ed organizzazione di eventi ed è noto per “Colpo di testa”(Fabbri,2003) sul mito del calcio che alimenta i sogni di molti ragazzini africani e “Corri, Lidja ,corri” (ed. Paoline, 2010) ovvero il fenomeno dei bambini-soldato spiegati ai più piccoli con la storia di una ragazzina che, pur vivendo una condizione drammatica di vita, non perde il suo candore. Anche la guineana Aminata Fofana passa dalla letteratura ”La luna che mi seguiva” (Einaudi, 2006) e “La culla di Giuda” ( Barbera, Siena, 2012) alla moda, dalla politica alla musica.
L’algerino Tahar Lamri, naturalizzato italiano, autore dell’interessante “I sessanta nomi dell’amore”, che ha avuto edizioni diverse a partire dalla prima di Fara nel 2006, è animatore di festival letterari e riviste interculturali, inoltre si occupa di teatro e traduzioni. Il più prolifico di questi autori è senz’altro Kossi Komla Ebri, togolese, naturalizzato italiano, medico e animatore sanitario di molte onlus che operano in Africa ; ha coniato il termine oralitura per definire la capacità di rendere la fantasia e la ricchezza della comunicazione orale di tradizione africana nello scritto e lo vediamo in opera in alcuni testi scritti fin dal 2002, ma ora rieditati da Touba culturale Italy, 2018 come ”Neyla”, “Imbarazzismi”, una divertente raccolta di episodi di razzismo volontario e involontario nel quotidiano,“All’incrocio dei sentieri. I racconti dell’incontro” (Emi, 2003). Questi autori sono essenzialmente orientati a mostrare le culture tradizionali e a preservarle da un inquietante azzeramento.
Diverso il caso di Amilca Ismael, italiana di origine mozambicana, immigrata negli anni ‘80, che arriva alla scrittura a partire dalle sue esperienze di lavoro, come operatrice in una casa di riposo. Ne “La casa dei ricordi”(Il Filo, Albatros, 2008), che non è semplicemente un libro-testimonianza, intreccia, in un linguaggio semplice ed efficace, storie di anziane donne italiane con narrazioni al femminile, pescate nei suoi ricordi d’Africa, in un continuo paragone di differenze e analogie tra i due mondi. Compaiono alcune tematiche sviluppate in seguito ne ”Il racconto di Nadia”( Il filo, Albatros, 2010) e in “Effimera libertà” (Youcanprint self-Publishing, 2014) come il razzismo in Italia, la complessità del problema della linea del colore in Mozambico, patriarcato e matriarcato, figure maschili di padri-padroni violenti, un mondo femminile, spesso umiliato e quiescente alla tradizione di oppressione e sfruttamento delle donne.
Amara Lakhous ci ha regalato 5 acuti e divertenti romanzi in italiano, forse per poco data la sua attuale residenza negli Stati Uniti e la sua versatilità nelle lingue... Poteva scrivere in francese, come tanti altri algerini, ma scegliere la nostra lingua è stata una sfida che si è sentito di affrontare, andando al di là delle aspettative del lettore italiano che si è ritrovato a leggere pagine zeppe di dialetti meridionali e settentrionali, mescolate con la lingua colta. Il pubblico e i critici lo hanno premiato con un successo straordinario. A parte “Un pirata piccolo piccolo”( riedito da E/O nel 2011) il romanzo scritto in arabo che si è trascinato appresso nella sua fuga dall’Algeria già in fiamme, gli altri romanzi si svolgono due a Roma e due a Torino :”Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio” (E/O, 2006) da cui è stato tratto il film omonimo nel 2010 e “Divorzio all’islamica in viale Marconi”(E/O, 2011); “Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario( E/O, 2013) “La zingarata della verginella di via Ormea” ( E/O, 2014). La lunghezza dei titoli e la precisazione delle località ci svela il suo amore per un certo tipo di commedia all’italiana e la volontà di indagare i tic degli italiani ( ma anche degli stranieri, soprattutto musulmani) con realismo e competenza. Utilizzando la lente dell’ironia, qualche volta sarcasmo, qualche volta comicità pura, analizza le tipologie del razzismo italiano, esercitato in primis verso gli italiani stessi meridionali; è interessato a svelare le manipolazioni di un certo tipo di stampa allarmistica, che ha ormai trovato i suoi capri espiatori negli immigrati o negli zingari, destrutturando pregiudizi e luoghi comuni. Per farlo ha bisogno di fondare le sue narrazioni in microcosmi: un condominio nel quartiere multietnico di Piazza Vittorio, un call center frequentato da stranieri, il popolare rione di San Salvario e le decine di nazionalità che coabitano insieme ai torinesi, un campo nomadi nella solita zona degradata. Perché l’italiano medio si scalda tanto per il furto di una zingarella e molto meno per gli scandali bancari e la collusione tra colletti bianchi e mafie di ogni genere? Ma non giudica questo arguto scrittore, solo osserva sornione, sperando che le diverse comunità italiane e straniere trovino una strada di solidarietà e comprensione reciproca.
Terminiamo questa cavalcata con due autori, l’uno Jorge Canifa Alves, nato capoverdiano e naturalizzato italiano e l’altro Valentina Akava Mmaka, nata italiana e naturalizzata sudafricana. Un cammino inverso per lo stesso scopo: il mondo degli altri ci viene incontro, ci chiede di essere rappresentato, ci stimola e ci cambia.
Jorge Canifa Alves, scolarizzato completamente in Italia, ha scoperto l’Africa da adolescente, quando la cultura italiana che lo aveva permeato si incontra con le tradizioni, le storie, la cultura della sua terra d’origine. In “Claridade” ( Fuoco edizioni, 2016) ripercorre anche una delle esperienze creative più interessanti di un gruppo di intellettuali e artisti capoverdiani Di questa mescolanza si nutre il suo humus creativo e si esprime letterariamente in racconti come “Racconti in altalena”(edizioni Dell’Arco, 2006) e “Il bacio della sfinge” che ci narra di Capoverde dentro e fuori l’arcipelago (Fuoco edizioni, 2008), romanzi : “Il salto dello scorpione” ( ilmiolibro self publishing, 2014), piéce teatrali: “Gli affamati” del 2014 e raccolte poetiche: “Kronos ‘90, poesie in bianco, nero e grigio” ( Frecciadoro, 2011) laddove il grigio sta per la sua anima meticcia. I testi sono uniti da realismo, fantasy, linguaggio onirico e cronaca, in un impasto magmatico , a tratti romantico. I suoi personaggi sono eternamente in viaggio, muovendosi conoscono luoghi e persone diverse, si aprono, mutano e approdano a nuove rive, in cui si rinnovano per il futuro che ci aspetta su questa terra ai nostri tempi.
Valentina Akava Mmaka, compie il cammino alla rovescia degli africani: va verso l’Africa, principalmente il Sudafrica, ma viaggiando e lavorando in molti altri paesi, attratta dalle prospettive di cambiamento che le sembra di scorgere, a fianco sempre di donne immigrate, alle quali offre voce attraverso laboratori e adattamenti teatrali. Nel ‘2007 con Epoché pubblica “Cercando Lindiwe”, in cui affronta i problemi identitari di chi deve scappare per vivere e mimetizzarsi assumendo un altro nome e un’altra vita. La protagonista affronta questo nel momento in cui il Sudafrica, nel 1994, emerge dall’apartheid e lei ritorna nel paese: non sarà facile far uscire fuori Lindiwe, celata per 40 anni sotto le spoglie di Ruth e vivere finalmente allo scoperto. Ne “Il viaggio capovolto”( Epoché, 2010) ci parla della sua scelta in controtendenza con i flussi migratori provenienti dall’Africa, dei progetti e incontri, delle storie e della Storia dei vari luoghi in cui si trova ad operare, scoprendo di avere dei punti svariati di osservazione che rendono complesse le sue narrazioni.
10. La produzione poetica
La poesia africana, ancor più del romanzo, negli ultimi dieci anni ha risentito delle difficoltà di traduzione e pubblicazione presso le case editrici, prendendo atto, inoltre, che già di per sé il genere poesia non è stato mai considerato “commerciabile.” Una maniera di aggirare questo ostacolo è rappresentata dai numerosi blog e siti internet impegnati nella traduzione e pubblicazione della poesia africana che vi descriveremo strada facendo.
Abbiamo procrastinato a suo tempo ( vedi Leggere l’Africa 1) il compito di illustrare la poesia africana tradotta dagli anni ‘50 al 2005, affermando che la produzione poetica meritava un posto a parte; sicuramente il discorso è molto ampio ma vale la pena offrire un breve sguardo d’insieme qui, attenendoci alla sua presenza in Italia negli ultimi quindici anni. Nell’articolo succitato avevamo sottolineato l’importanza dei grandi poeti africani a partire dagli anni ‘50 per approdare al periodo dell’indipendenza: in area francofona la grande figura di Léopold Sédar Senghor, prestigiosi poeti come J.B.Tati-Loutard, Tchikaya U Tam'si , Paul Dakeyo : Poesia africana- poeti subsahariani di area francofona a cura di M.J. Hoyet ( Ponte delle Grazie,1992 ) e Sony Labou Tansi “Il quarto lato del triangolo” a cura di Sergio Zoppi e Antonella Emina (La Rosa ed.1997) ; in area lusofona abbiamo sottolineato l’impronta fondamentale di José Craveirinha, Noemia de Sousa, Agostino Netho, Ovidio Martins, José Barbosa e molti altri autori tra Mozambico, Angola e Capoverde, romanzieri e quasi sempre poeti; per l’area anglofona la poesia del Sudafrica, maggiormente legata alle lotte civili e alla protesta antirazzista, ha subito una grande evoluzione. Evidenziamo la presenza in questo sito -nella sezione Poesia- di “Isole galleggianti” Poesia femminile sudafricana” ( a c. di Paola Splendore e Jane Wilkinson -Le Lettere, Firenze , 2011) dove si possono leggere stralci di queste meravigliose liriche.
Raphael d’Abdon, che è nato a Udine ma vive e lavora in Sudafrica, ha tradotto l’antologia “I nostri semi-Peo tsa rona. Poeti sudafricani del post-apartheid”( Compagnia delle lettere, 2007); proprio lui afferma nel blog “absolutepoetry-il movimentodei poeti bloggers”che negli ultimi 15 anni il panorama letterario musicale e culturale africano ( e non solo) è stato travolto dall’arrivo di quella che Zakes Mda ha definito la spoken word revolution. Si tratta di un movimento di artisti molto giovani che portano in scena la parola parlata conciliando l’oralità antica con i ritmi musicali delle attuali metropoli africane. Questo avviene anche all’interno di festival di poesia nazionali e internazionali.
Così si esprime Natalia Molebatsi, nata a Tembisa : [..]“la pelle della mia anima è invasa /l’anima della mia profondità è inghiottita dai volti banali dei vostri centri commerciali/ e dei vostri sportelli di credito/ i miei piedi trovano fango in cui si nascondono spine […].. La spoken word è una poesia che sta avendo un grande seguito tra i giovanissimi perché da una parte nasce dal quotidiano con storie in cui è facile immedesimarsi ( il degrado ambientale, il razzismo strisciante, la mancanza di bellezza e di comunicazione) e dall'altra stabilisce una totale empatia con lo spettatore essendo declamata o cantata; è proprio come ripartire dall'ode greca che si recitava a teatro, un modo di recuperare il valore della poesia in sintonia con lo spirito dei giovani artisti che vi si cimentano. Naturalmente è un fatto epocale che investe oltre l'Africa, un po' tutto il mondo; non dimentichiamo però che il suo primo affiorare è stato proprio nelle comunità afro-americane della prima metà del '900 e presso i musicisti blues.
Nell'ambito della poesia di protesta e rivendicazione della libertà, ricordiamo l’impegno della collana editoriale multicolore “Poeti africani anti-apartheid” ( Ed. Dell'Arco, vari volumi dal 2002 in poi) che ha pubblicato il contributo poetico proveniente da molti paesi dell’Africa.
Tra le persone attive sul fronte poetico qui in Italia, tutti italofoni, ricordiamo: Hamid Barole Abdu, poeta e scrittore eritreo che vive a Modena dal 1974 (“Seppellite la mia terra in Africa, Artestampa, 2006; Rinnovarsi in segni …erranti, Faenza Graf Line, 2013) ha curato inoltre, con la traduzione di Daniela Buccioni, “ Poesie attraverso la perla dell’Africa”, raccolta di poesie scritte da studenti di letteratura del College School di Makerere, in Uganda. Con l’idea di far tradurre il libro in varie lingue e mettere a disposizione di studenti in difficoltà economica il ricavato delle vendite. Anche qui i temi dominanti sono la difesa della natura : Il mio humus/ non ha più humour/ Gli esseri umani/ Mi stanno soffocando/ senza spazio per respirare/ A causa del polietilene [...]( Kadali Peace); la ricerca estetica: Vorrei fare di un verso una rima/ sono accecato/ da quest'arte divina/ Vorrei ricambiare, /ma tu non fai altro che ignorare/ i miei giri di parole [...]( Kenyangi Keshia); il conflitto d'amore :”Ricordo il giorno che ci siamo conosciuti, era ieri?/ Gli Abbracci, il tuo tocco tutti andati via con il vento / L'altro giorno quando inseguivo la tua macchina/ sei sceso e mi hai chiamato 'primitiva' “[...](Nakinkinga Cynthia R.). La traduzione italiana, per quanto accurata, difficilmente può restituire la straordinaria musicalità e freschezza dei versi di questi giovani artisti che scrivono in inglese. E possibile leggerle per intero sul sito di Hamid Barole.
Un altro autore che ci sorprende per avere recuperato una memoria storica della poesia africana, è Cheikh Tidiane Gaye ( Rime abbracciate, Harmattan 2012) di origine senegalese , da molti anni residente in Italia: nella raccolta “Il cantore della negritudine” (ed. dell’Arco, 2013) ha tradotto un selezione di poesie di Léopold Sédar Senghor, figura indimenticata di intellettuale e primo presidente del Senegal. Per Tidiane Gaye, Senghor è stato anche uno dei grandi fondatori della cultura dell’universalità, di quella mondializzazione in cui viviamo.
Ndjock Ngana poeta e scrittore di origine camerunense, anche lui da molti anni qui in Italia, ha dedicato molto spazio, pur tra le varie attività di mediatore culturale, alla poesia, la sua raccolta più recente “La nostra Africa” (Vis, 2017); non dimentichiamo anche Elisa Kidané, missionaria comboniana, nata in Eritrea, che dirige a Verona il mensile Combonifem: ”Africa nostra madre terra”( Effatà, 2017) ;
Per il versante arabo del NordAfrica, segnaliamo le meravigliose poesie che potrete leggere su questo sito, tratte da “Non ho peccato abbastanza” Antologia di poetesse arabe contemporanee a cura di Valentina Colombo ( Mondadori, 2007). Due raccolte di poeti marocchini sono state pubblicate (con testo arabo a fronte): di Hassan Najmi “Il sorriso dell’alchimista ( Di Felice, 2016) e di Mohamed Moksidi “Il guardiano del nulla e altre poesie” ( ed. Cafoscarina, 2018).
Nella rivista online La macchina sognante, Maged Zaher presenta 7 poeti egiziani contemporanei (tradotti dall’arabo): scrittori tra i 25 e i 33 anni di età, molto diversi tra loro tanto da non costituire un gruppo. Sono i poeti della rivoluzione, ma non della poesia slogan; lottano per una vittoria anche estetica, culturale: “il nuovo millennio non è stato pieno di cose brutte/ il nuovo millennio non è stato pieno/ il nuovo millennio non è stato” ( Malaka Badr). I 7 poeti sono: Ibrahim El Sayed, Malaka Badr, Amira Hanafi ( l’unica che scrive in inglese), Tamer Fathi, Hermes, Ahmed Nada, Aya Nabih.
Nelle riviste online abbiamo anche informazioni sui poeti attualmente famosi in Africa, per esempio la rivista Argo- argonline dedica una spazio privilegiato alla poesia, “Poesia del nostro tempo”, con autori di tutto il mondo e tra questi uno dei più importanti poeti della Nigeria, Chijioke Amu-Nnadi, allievo di Chinua Achebe ; in una intervista da lui rilasciata, ci offre in poche righe un quadro di grandi poeti di varia provenienza che lo hanno influenzato: “sono stati importanti per me lo stile semplice e profondo di Dennis Brutus, l’immaginazione selvaggia ma ricca di pensiero di Christopher Okigbo, l’eleganza e la delicatezza di Neruda e Senghor, il fraseggiare scatenato e articolato di Tchicaya U’Tamsi e Gabriel Okara e la musicalità della poesia tradizionale della mia gente, in particolare nei lamenti funebri”.
Sempre online, consigliamo di visitare internopoesia , dove si possono leggere le poesie dei più famosi poeti africani: Chinua Achebe, Sipho Sepamla, Tahar Ben Jelloun cui si aggiunge la preziosa e commovente testimonianza di Tesfalidet Tesfom (giovane migrante eritreo, morto il giorno dopo il suo sbarco a Pozzallo, il 13.3.2018).
Nella rivista online e canale youtube “Voci globali” (nata nel 2010), prende vita il progetto AWP Afro Women Poetry : la vita delle donne raccontata in poesia. Sono poetesse che affidano ai loro versi storie personali e collettive. Tra loro alcune poetesse del Ghana famose per aver partecipato a vari poetry slam. I contenuti delle poesie riguardano sia il racconto dei cambiamenti presenti nel Paese, nella metropoli con i suoi forti contrasti tra quartieri eleganti e fatiscenti, sia le violenze domestiche, le difficoltà psicologiche e l’incertezza sul futuro oltre agli effetti deleteri del razzismo. Il progetto di AWP è quello di far conoscere una rappresentanza da ogni paese dell’Africa Sub-sahariana e per dare una visibilità ad artiste che senza dubbio lo meritano. Si è cominciato dal Ghana, si prosegue con il Togo; la piattaforma AWP è in inglese ed italiano e presto sarà anche in francese. Da visitare assolutamente il canale afrowomenpoetry.net (da un'idea di Antonella Sinopoli) dove si possono ascoltare le poesie dalle autrici stesse, filmate nella loro performance.
Tutto quanto abbiamo detto fin qui circa la produzione poetica degli ultimi anni ha visto emergere prepotentemente l’uso della rivista online e una maggiore conoscenza di essa attraverso questi canali gratuiti. Questo non significa che ci si è totalmente affrancati dal libro come luogo privilegiato di lettura ma sicuramente sono da tenere in considerazione i motivi economici che hanno indotto a percorrere la prima pista.
Postilla
Non abbiamo potuto citare tutto ciò che è stato pubblicato e parlare approfonditamente di testi e autori, perché altrimenti avremmo confezionato il saggio che non era nostra intenzione scrivere. Se trovate incomplete alcune informazioni, date in breve, per ovvi motivi, vi rimandiamo alle recensioni, agli articoli e agli approfondimenti presenti nel nostro sito.