È noto che la civiltà Occidentale è permeata dalla cultura degli aiuti, cioè da quella cultura che muove dall'imperativo morale di donare a chi è svantaggiato. Questa cultura, che nei paesi occidentali ha radici cristiane, negli ultimi trent'anni si è incrociata con il mondo dell'intrattenimento: personalità mediatiche, "leggende" del rock, abbracciano con entusiasmo la filosofia degli aiuti, ne fanno propaganda e rimproverano i governi di non fare abbastanza. Per bacchettare certi iniziative e le politiche di aiuto finora perseguite è uscito il libro-saggio dell'autorevole economista africana, Dambisa Moyo, con l'abrasivo titolo “La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il TerzoMondo", una traduzione dal titolo peraltro non corretto rispetto a quello originale che voleva significare invece un certo modo di intendere gli aiuti: Dead Aid:Why aid is not working and how there is a better way for Africa ( perchè l'aiuto non sta funzionando e qual è la strada migliore per l'Africa) . Si tratta della storia del fallimento delle politiche allo sviluppo postbellico e postcoloniale dei Paesi occidentali nei confronti delle disastrate economie dell'Africa subsahariana. Il titolo originale "Dead Aid" richiama polemicamente il concerto di solidarietà di Geldof e Bono Live Aid del 1985, i quali "hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza" , il cui obiettivo, sempre secondo l'autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all'emotività superficiale che porta all'elemosina. Ma la critica è anche per i miliardi di dollari trasferiti direttamente ai governi dei paesi poveri mediante accordi bilaterali o attraverso istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Non è tanto il supporto di cifre, report e quant'altro a rendere il libro davvero assertivo; è la esposizione logica e piana di un ragionamento basato sull'osservazione di sessant'anni di politiche fallimentari che hanno inondato l'Africa di fiumi di denaro - in 50 anni più di un trilione di dollari - creando solo una classe politica inefficiente e priva del senso di responsabilità. Gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana. Infatti, «tra il 1970 e il 1998, quando il livello degli aiuti era al suo livello massimo, il tasso di povertà del continente è passato dal 11 % al 66%. Si tratta di circa 600 milioni di africani, più della metà della popolazione del Continente, costretta a vivere sotto la linea della povertà»(p.88). Da qui la risposta diretta e tranchant dell'autrice: gli aiuti al "Terzo Mondo", così come li abbiamo sempre intesi, fanno male! E inoltre, un certo modo di intendere la solidarietà non solo rischia di alimentare la cultura dell'accattonaggio, ma anche crea un legame vizioso tra donatore e ricevente favorendo il perpetuarsi di una logica perversa dell'auto-consolazione del donatore e un senso di gratificazione del ricevente nella propria condizione di subordinazione ed inferiorità.
La Moyo mette in luce tutti i punti deboli delle tradizionali politiche di aiuto internazionale esponendo un ragionamentomolto articolato: da quando l'Occidente ha iniziato a far confluire fiumi di denaro verso il Continente ha messo in moto un circolo vizioso fatto di dipendenza dagli aiuti, di demotivazione e di uccisione del mercato locale:
"... In Africa c' è un fabbricante di zanzariere che ne produce circa cinquecento la settimana. Dà lavoro a dieci persone, ognuna delle quali deve mantenere fino a quindici famigliari. Per quanto lavorino sodo, la loro produzione non è sufficiente per combattere gli insetti portatori di malaria. Entra in scena un divo di Hollywood che fa un gran chiasso per mobilitare le masse e incitare i governi occidentali a raccogliere e inviare centomila zanzariere nella regione infestata dalla malattia, al costo di un milione di dollari. Le zanzariere arrivano e vengono distribuite: davvero una «buona azione». Col mercato inondato dalle zanzariere estere, però, il nostro fabbricante viene immediatamente estromesso dal mercato, i suoi dieci operai non possono più mantenere le centocinquanta persone che dipendono da loro e, fatto non trascurabile, entro cinque anni al massimo la maggior parte delle zanzariere importate sarà lacera, danneggiata e inutilizzabile. [così]“unintervento efficace a breve termine può involontariamente minare ogni fragile possibilità di sviluppo già esistente” (pp.83-84)
La Moyo, come tanti altri africani della sua generazione, si chiede allora senza giri di parole: perché, nonostante questi miliardi, l'Africa è incapace di posare il piede sulla scala economica in modo convincente e che cosa la trattiene dal rendersi capace di unirsi al resto del globo nel XXI secolo? Perché, caso unico al mondo, l'Africa è prigioniera di un ciclo di malfunzionamento? Cosa impedisce al continente di affrancarsi da una condizione di povertà cronica? Soprattutto la Moyo ritorna con insistenza sulla domanda: se gli altri paesi ce l'hanno fatta senza aiuti umanitari perché i paesi africani non possono farcela?
La risposta, secondo l'autrice, affonda le sue radici appunto negli aiuti: quelli umanitari o di emergenza, attivati e distribuiti in seguito a catastrofi e calamità; quelli distribuiti in loco da organizzazioni non governative (ONG) a istituzioni o persone (1);quelli sistematici, ossia pagamenti effettuati direttamente ai governi, sia tramite trasferimenti da governo a governo ("aiuti bilaterali") sia tramite enti quali la Banca Mondiale (noti come "aiuti multilaterali"). Si tratta della somma complessiva dei prestiti e delle sovvenzioni, che sono poi i miliardi "che hanno ostacolato, soffocato e ritardato lo sviluppo dell'Africa". Ed è di questi miliardi che si occupa il libro.
1)Questo libro però non si occupa di aiuti per le emergenze o di fondi raccolti dalle ONG, impegnate in progetti specifici di riconosciuta utilità.
L'irresponsabilità delle Istituzioni locali
Come vedremo più avanti, Dambisa Moyo non è l'unica a richiamare questo problema centrale. Anche la giornalista keniota June Arunga, nel suo documentario "The Devil's Footpath”, aveva mostratocome all'origine del sottosviluppo vi sia la corruzione delle élites locali, l'opacità dei diritti di proprietà, l'assenza di ruleof law e l'abbondanza di barriere poste al libero operare dei mercati. Le cifre le danno ragione, stando ai dati più recenti. Gli aiuti - che costituiscono il 15% del PIL nell'Africa subsahariana - anziché convergere in progetti di responsabilizzazione delle Istituzioni locali hanno troppo spesso finito per innescare uno sciagurato circolo vizioso: alimentano la corruzione, la deptocrazia, le guerre civili che rafforzano i regimi dispotici ( la guerra civile e un conflitto interno o internazionalizzato conta almeno un milione di morti all'anno n.d.r.), scoraggiano gli investimenti, inibiscono la classe imprenditoriale autoctona, incrementano l'inflazione e creano dipendenza e povertà, rendendo indispensabili ulteriori aiuti. “Ogni anno l'Africa brucia 20 miliardi di dollari per rimborsare il debito estero e oltre 150 miliardi sono inghiottiti dalla dilagante corruzione. La realtà è che nessun paese al mondo è mai riuscito a ridurre i livelli di povertà e a sostenere la crescita economica grazie agli aiuti”. Ha sintetizzato bene, Zakaria Fareed nel suo interessantissimo libro “Democrazia senza libertà in America e nel resto del mondo”(Rizzoli, 2003) dicendo che “quando un governo sa di poter contare su entrate che non dipendono dalle sue attività - siano queste frutto di aiuti stranieri o di grandi risorse naturali - perde la necessità e l'interesse a perseguire un coerente e duraturo sviluppo industriale per il suo paese. Inoltre, quando queste entrate economiche finiscono nelle mani di governi poco democratici - come spesso accade con gli aiuti in Africa – i problemi si aggravano: nel migliore dei casi i governi accentrano su di sé la distribuzione delle risorse, dimenticandosi di incentivare i cittadini a produrre ricchezza, nel peggiore dei casi questo denaro favorisce la corruzione e viene utilizzato per scopi molto diversi da quelli previsti” .
La novità di Dambisa Moyo
Nata e cresciuta nello Zambia, ma con un percorso accademico e professionale di stampo occidentale con tappe alla Banca mondiale, alle Università di Harvard e di Oxford ed alla Goldman Sachs, Dambisa Moyo è una rappresentante di quella generazione di africani attivi con uno sguardo acuto, amorevole ma critico sul continente, attento a percepire il senso del nuovo e del buono che l'Africa può cogliere, con discernimento, dalle nuove opportunità globali. Lei sa come funziona il settore privato, ha visto come milioni di persone sono sfuggite alla povertà grazie alla crescita economica.
Il tema degli aiuti non è nuovo. La presunta pertinenza, efficacia, impatto e sostenibilità degli aiuti èstata oggetto di varie analisi impietose da eminenti schiere di africani e non. Da anni ormai vi sono libri, giornalisti ed accademici che si scagliano contro gli effetti negativi dell'aiuto in Africa. Anzi, per gli specialisti dello “sviluppo” la domanda sull'arretratezza cronica e la stagnazione economica dell'Africa sub sahariana rappresenta una tappa mentale ed operativa fissa. E' la domanda dei padri fondatori dell'Africa moderna, dei teorici dello sviluppo degli anni sessanta, degli analisti del fallimento dei “decenni perduti dello sviluppo”(1960-1990), dei critici implacabili del concetto stesso di sviluppo come Serge Latouche, gli economisti Paul Collier, William Easterly, Jeffrey Sachs. In tutto questo, Dambisa Moyo allarga la breccia già aperta negli anni cinquanta da Peter Bauer, grande economista ungherese trapiantato in Inghilterra che per primo rilevò gli effetti perversi degli aiuti. Il suo libro non a caso è dedicato alla memoria di Bauer per il quale il 'foreign aid'era «rob the poor of rich countries giving to the rich in poor countries». E cioè, “gli aiuti interferivano con lo sviluppo dal momento che il denaro finiva sempre nelle mani di pochi eletti, rendendo così gli aiuti un modo di tassare i poveri in Occidente per sussidiare le élitesnelle ex colonie” (p.115). Alla stregua di Dambisa Moyo, in quella schiera di studiosi citata, tra gli africani troviamo June Arunga ( Kenya), Thompson Ayodele ( Nigeria), Franklin Cudjoe ( Ghana), Mamadou Koulibaly ( Costa d'Avorio), e altri ancora, tutti persuasi che l'Africa deve tornare agli africani e questi ultimi devono essere attori, e non semplici spettatori. Tra gli autori africani conosciuti in Italia e che più di altri si sono prodigati in dibattiti forti su questo argomento, anche se con angolatura diversa, ricordiamo Aminata Traoré (ex ministro della Cultura del Mali), Jean- Leonard Touadi (Congo Brazaville) Filomeno Lopes (Guinea Bissau).
Cosa distingue allora Dambisa? L'autrice, allontanandosi da argomentazioni di stampo marxista o neo-imperialiste, introduce un punto di vista di rottura rispetto al pensiero unico secondo il quale "l'eterno infante Africa deve essere sempre aiutato". Curiosamente di Dambisa Moyo, una personalità carismatica e un'ottima presenza televisiva, viene presentata in copertina una sua foto simile a Naomi Campbell mentre l'edizione inglese riporta un'immagine stilizzata dell'Africa ( come avviene spesso l'editoria italiana privilegia un'immagine femminile accattivante e commerciale) ; in realtà la Moyo sa muoversi con disinvoltura fra il radicamento nella sua realtà africana e l'apertura a quel che di più aggiornato offre oggi l'analisi economica, alla ricerca di una spiegazione razionale del perché il trilione di dollari rovesciati sull'Africa nell'arco di decenni abbia prodotto economie traballanti e redditi pro capite fra i più bassi del mondo. Il libro pone una domanda apparentemente semplice: “cosa succederebbe se uno a uno tutti i paesi africani ricevessero una telefonata in cui si comunica che entro cinque anni esatti i rubinetti degli aiuti verranno chiusi per sempre?” (p.219). Per Dambisa Moyo proprio questo deve succedere per spingere gli africani a smettere di guardare il cielo degli aiuti e rivolgere lo sguardo verso la loro terra da valorizzare utilizzando le risorse proprie e imparando a navigare nel mare aperto delle nuove opportunità aperte dalla globalizzazione dei mercati finanziari. La risposta e le soluzioni della Moyo riguardano una graduale ma rigorosa riduzione degli aiuti sistematici (da attuare in un arco temporale che va da cinque a dieci anni) che dovrà andare di pari passo con un incremento degli investimenti (anche stranieri) per portare alla creazione di un mercato interno stabile in grado di realizzare infrastrutture efficienti ed eliminare la corruzione diffusa.
In sintesi la Moyo propone:
= I governi africani dovrebbero seguire i mercati asiatici per acquistare obbligazioni internazionali e dovrebbero incentivare gli investimenti esteri. Gli investimenti obbligazionari sono fondamentali, poiché "si possono rubare i soldi degli aiuti ogni giorno della settimana, mentre con il capitale privato lo si può fare una volta sola.[....] E senza denaro per placare l'irrequietezza di un esercito, nessun despota può durare" (p.216)
= I paesi poveri dovrebbero investire su larga scala nelle infrastrutture. Inoltre bisognerebbe ridurre la burocrazia, ideare dei sistemi moderni per impedire la corruzione e migliorare il sistema giudiziario.
= Favorire un libero mercato internazionale dei prodotti agricoli negoziando la riduzione dei sussidi a vantaggio degli agricoltori americani ed europei. E qui l'Occidente dovrebbe decidere di prendersi le giuste responsabilità: "II momento migliore per piantare un albero era vent'anni fa. Altrimenti, il momento migliore è adesso" (proverbio africano) (p.235).
= Aprire centri di intermediazione finanziaria basati sul microcredito, seguendo il modello della Grameen Bank fondata dal Premio Nobel Muhammad Yunus. Soprattutto seguire la Cina. Definita - secondo Moyo - l'anti-Bono per lo spietato pragmatismo delle sue posizioni ponendo l'Occidente intero di fronte ai pregiudizi intrisi di sensi di colpa che sono alla base delle sue "buone azioni", invitando a liberarsene.
= Bisogna spingere gli investimenti stranieri, creare opportunità per l'esportazione dei prodotti locali, allargare lo spazio del microcredito, concedere incentivi a chi intraprende in uno spirito di competizione e di crescita del mercato. Cose che da qualche parte cominciano ad accadere, grazie ad investitori cinesi, indiani, brasiliani. Significativo è il caso del Botswana che ha compiuto una netta liberalizzazione economica, ridotto la quota di aiuti e attirato investimenti stranieri. Come rileva la studiosa, questo Paese «ha perseguito con determinazione numerose opzioni economiche di mercato che sono state la chiave del suo successo» e ha raggiunto tale risultato «smettendo di dipendere dagli altri». Insomma «l'Africa deve imparare dalla Cina che si è aperta al commercio, agli investimenti, alle esportazioni. E che con 4 mila miliardi di dollari di riserve valutarie e un'inesauribile fame di materie prime, è oggi il partner ideale dell'Africa: hanno realizzato più infrastrutture i cinesi in 5 anni che gli americani in mezzo secolo»(p.76) anche se dobbiamo sottolineare che è bene non farsi illudere dai tassi di crescita a doppia cifra mostrati da molti paesi africani negli ultimi anni. Alcune cose stanno cambiando, e in futuro se ne vedranno gli effetti, ma fino a questo momento la crescita economica africana, basata essenzialmente sulle esportazioni di petrolio e minerali, non ha cambiato di molto le vite delle persone.
Proprio per quanto riguarda la presenza della Cina in Africa la Moyo non tiene in adeguata considerazione alcuni fattori critici che sono stati analizzati ultimamente da numerosi studiosi e giornalisti. Il prof. Mbuyi Kabunda (R.D.Congo) afferma che vi sono più di 800 imprese che operano in 49 paesi africani. La Cina è diventata il terzo socio commerciale del continente e il secondo importatore di petrolio africano dopo gli Stati Uniti. Kabunda evidenzia la complementarità dei due paesi dove la Cina ha un eccesso di capitali e allo stesso tempo bisogno di risorse naturali per mantenere la sua straordinaria crescita economica, mentre l'Africa, da parte sua, ha una forte carenza di capitali ma, al contrario, dispone di abbondanti risorse naturali. La Cina a differenza dell'Occidente ha cancellato il debito di una trentina di paesi africani e concesso prestiti a tassi bassi a lungo termine. Quel che è certo è che la diplomazia petrolifera cinese va di pari passo con la “diplomazia della vetrina” per rispondere ai propri interessi di potenza mondiale. Da qui scaturiscono alcuni aspetti negativi: 1) l'invasione del settore dell'industria tessile e dell'economia a base popolare compromettendo la produzione locale, 2) il sempre crescente acquisto delle terra dove i cinesi mettono a coltura le nuove varietà di riso da loro create che permettono di aumentare la produzione a discapito della biodiversità, 3) la frequente assenza di norme di sicurezza per i lavoratori nelle fabbriche 4) la contraddizione cinese di vendere armi agli africani e nel contempo essere presente nelle operazioni di mantenimento della pace ( in Sierra Leone, Liberia, Sahara Occ., R.D.Congo) 4) ignorare le problematiche ambientali e i diritti umani del continente, per esempio con lo sfruttamento abusivo del legname ( Intervista di Diana Castilho- Riv.Lernesto online 8.4.2010) . Anche il professor Elikia M'Bokolo (R.D.Congo) si sofferma sul rapporto Cina-Africa affermando che “la Cina ha esattamente la stessa logica di sfruttamento delle ex- potenze coloniali: ha bisogno di materie prime e viene a cercarle in Africa senza preoccuparsi di sviluppare la lavorazione in loco”. Tuttavia, osserva, in questo campo si è usciti dalla logica Nord-Sud : in Africa oggi c'è la Cina, ma anche l'India, il Brasile, Dubai, la Turchia e questo può aiutare i paesi africani ad aprire i loro orizzonti perché possano finalmente “inventare il loro sviluppo” ( intervista di Anna Pozzi- riv. Missionline 1.12.2010) . La strategia attuata dalla Cina, definita del soft power, ècostituita da una serie di tattiche: amicizia, vendita tecnologica e formazione, prestiti a basso interesse e cancellazione del debito. Molti leader africani accolgono aiuti e investimenti cinesi perché a differenza di quelli europei sono efficienti e veloci ma soprattutto perché non vincolati ad intromissioni nelle politiche interne di ciascun paese. Tuttavia forti critiche all'operato di Pechino in Africa vengono da molte organizzazioni per i diritti umani, sindacati, associazioni per la difesa dell' ambiente e la protezione del patrimonio culturale, nonché anche da una parte della classe politica dei paesi africani stessi. “In particolare, la Cina è stata spesso accusata di prendere petrolio e materie prime dal continente nero in cambio della costruzione di infrastrutture affidate però a ditte cinesi . I soldi degli investimenti insomma restano ai dirigenti delle imprese, agli operai specializzati, tecnici e ingegneri cinesi. Agli africani ( non contando i funzionari corrotti) non resterebbero che le briciole” (Daniele Massaccesi : Dossier:Cinafrica il Grande Gioco cinese-Rivista ottobre 2010 Missioniconsolata) . Noi sappiamo che l'Occidente non ha fatto di meglio con la sua politica, ma i cinesi probabilmente sono più accattivanti perché agiscono senza il paternalismo moralista sui diritti umani esercitato dall'Occidente stesso. Dal suo canto, il prof.John Humphrey del britannico Institut of Development Studies afferma che “spetta ai paesi africani incoraggiare miglioramenti nella condotta della Cina […..] la forza in grado di modificare l'atteggiamento della Cina deve venire dall' Africa, non dall'Occidente”.
In conclusione
Nonostante non siano stati affrontati con ampiezza i problemi che suscita la partnership con la Cina, a ragioneDambisa Moyo afferma “Oggi in Africa milioni di persone sono più povere proprio a causa degli aiuti, la miseria e la povertà invece di cessare, sono aumentate” (p.23). I programmi degli Stati occidentali e delle organizzazioni internazionali hanno l'effetto di rafforzare ulteriormente quel potere politico che già controlla tutto, anche perché i finanziamenti da Stato a Stato consolidano proprio i regimi che sbarrano la strada a chi vuole intraprendere: si pensi che, in Africa, molto spesso ci vogliono due anni per ottenere una semplice licenza necessaria a lavorare. Ben vengano, dunque, a suo avviso, nuovi partner e nuovi investitori anche dall'Oriente, troppo frettolosamente bollati dagli Occidentali come saccheggiatori e neocolonizzatori. Allo stesso tempo invita l'Africa a liberarsi dell'Occidente e dal paradosso dei suoi cosiddetti "aiuti" che pretendono di essere il rimedio mentre costituiscono il virus stesso di una malattia curabile: la povertà. L'autrice sottolinea in particolare: nessuno può negare che negli ultimi dieci anni la Cina ha potenziato le relazioni con l'Africa, perché cosciente dei vantaggi rappresentati dal commercio, di nuovi modi di approccio Sud-Sud che l'Occidente avrebbe potuto tranquillamente valorizzare nella sua cooperazione allo sviluppo cinquantennale Nord-Sud. Su questa linea, si fa prendere la mano dai principi della scuola di Chicago arrivando a sostenere che “la democrazia non è il prerequisito della crescita economica, come sostengono i fautori degli aiuti. Al contrario, è la crescita economica a essere un prerequisito della democrazia, l'unica cosa di cui la crescita economica non ha bisogno sono gli aiuti”. Il prof Joseph Ki-Zerbo, filosofo e storico africano, nei suoi numerosi viaggi in Italia negli ultimi anni della sua vita, diceva parlando a proposito degli aiuti all'Africa, che "il vero aiuto che può aiutare davvero l'Africa è l'aiuto che aiuta a eliminare l'aiuto». Ma dalle individuazioni cristalline del problema dentro il testo, le cose stanno diversamente: è cioè, gli aiuti tradizionalmente intesi, continuano a perseguire secondi fini, e "l'aiuto che aiuta veramente a eliminare l'aiuto" è ancora da venire