Dahomey
Regia di Mati Diop
Francia- Senegal, 2024
Entrato un po' in sordina il film documentario della regista franco-senegalese, già nota al pubblico per Atlantiques, alla proiezione ha uno straordinario successo di pubblico e di critica, ottenendo un premio a Cannes nell'edizione 2024.
Diciamo subito, opera sorprendente per la mescolanza di stili cui ricorre Mati Diop, nipote del grande regista senegalese Djibril Diop Mabety. Passa infatti dalla cronaca, con annotazioni sociali e antropologiche (come nella carrellata di tutto l'ambiente dei potenti del Benin e di altri stati africani, vistosamente abbigliati in abiti tradizionali) alla minuziosa descrizione dell'imballaggio delle opere, alla indagine meticolosa, non priva di tenerezza, dello storico e curatore del Benin Calixte Biah: analizza, misura, prevede i futuri interventi di restauro prima del trasporto per aereo e per mare. E con un colpo di grande cinema visionario, affida la voce narrante di tutta l'operazione ad un totem dell'antico re Ghezo, che si qualifica - con una voce roca e cavernosa proveniente dall'oltretomba, dal notevole effetto sonoro - come reperto n.26 (bollato solo come un numero proprio come gli schiavi).
La voce narra sbigottita e spaventata, come, dopo una lunghissima prigionia in un ambiente estraneo, dopo la notte eterna che ha vissuto, si trovi ad affrontare un viaggio per arrivare nel paese dal quale era stato trafugato, che non sa se forse riconoscerà, perché molto tempo è passato. Tuona contro i colonialisti francesi che hanno perpetrato una strage di esseri umani per impossessarsi dei tesori del re del Dahomey, oggi rispondente all'attuale Benin, nel 1892, nel palazzo reale dell'antica capitale Ahomey, ad opera del generale Dodds; ma si ribella con forza contro quelli di oggi che dei 7000 reperti ne osano restituire solo 26. Parla nella lingua fon la statua , sottolineando come molti oggetti siano non solo segno di potere dei sovrani, ma anche legati ai culti sacri della religione tradizionale.
Il viaggio per mare, al contrario del solito, dall'Europa, rimanda a quello degli schiavi dall'Africa verso l'Europa e l'America. Ma anche a quelli odierni degli africani verso l'Europa, in cui molti trovano la morte come gli schiavi di secoli fa.
Forse è meglio chiarire le circostanze da cui prende le mosse il film: nel 2017 il presidente francese Macron, più attento alla sua popolarità in calo nel continente africano - date le ingombranti presenze di Russia e Cina, per citare le prevalenti - che all'intenzione di compiere un reale atto dovuto, dichiara, durante una visita ufficiale in Burkina Faso, il proposito di cominciare a restituire il patrimonio artistico-culturale africano ospitato nei musei francesi, in particolar modo i musei parigini.
In realtà le contrattazioni vanno avanti a rilento tra diplomazie e lungaggini burocratiche e rivelano chiaramente che questa intenzione della restituzione non è facile come il presidente l'ha pomposamente annunciata. Dopo qualche anno, nel 2021 solo 26 opere (statue e oggetti cultuali) arrivano dal museo parigino di quai Branly nel palazzo presidenziale di Cotonou, una cui ala è stata attrezzata come spazio espositivo, aprendo al pubblico nel 2022 e raccogliendo circa 70.000 visitatori.
I mugugni di molti paesi europei sono palesi, mascherati dalla preoccupazione che gli africani non sapranno provvedere ad una conservazione adeguata di quei reperti, per mancanza di soldi e personale specializzato. Vero, ma la reticenza nasconde anche un'altra forma di suprematismo bianco, come sottolineano molti studenti di un'assemblea universitaria, filmata dalla regista (dopo la preventiva richiesta al presidente Talon di lasciare esprimere liberamente senza censure i giovani).
Questa è la parte più vivace del documentario: una assemblea appassionata e variegata nelle convinzioni espresse da ragazzi e ragazze, ingenua e incauta come lo erano quelle del'68, ma non priva di straordinario spirito critico. Chi si commuove semplicemente parlando di quello che ha visto, cioè il proprio patrimonio culturale a cui non hanno mai potuto avere accesso. Chi inorridisce spaventato all'idea che si debbano accogliere reperti che parlano di superstizioni del passato, del vudu, ripudiato da cristiani e musulmani, anche se ancora largamente praticato. Chi vede, in questa restituzione, solo una mossa politica di Macron e Talon, in cerca di consenso, dimenticando che i veri problemi del Benin sono altro , come la povertà e la mancanza di istruzione e cure sanitarie. I più radicali se la prendono con il governo: come si può pretendere che le scuole, la gente comune, viaggi per andare a vedere un museo, senza facilitazioni nel biglietto e nei trasporti? passare da una indecente sussistenza di vita alla frequentazione di musei ce ne corre...Ci sono quelli che insistono sulle ripercussioni che ci sono state nella popolazione per non aver avuto né visione né memoria del loro patrimonio culturale, crescendo senza radici e accettando in toto la lingua francese e la cultura europea. Come si vede la regista filma ottenendo dei risultati fantastici, sottolineando con le inquadrature, ora la rabbia, ora l'indifferenza, ora l'accortezza politica, ora la volontà di riappropriarsi di ciò che è stato tolto con la violenza.
Sul finale affida alla voce dolente del reperto n.26, i dubbi su tutta l'operazione: saprà il paese affrontare tutto questo? Non sarà cambiato al punto di non saper comprendere cosa hanno significato gli oggetti restituiti? Sarà vero che queste restituzioni continueranno? O quegli oggetti, ridotti a mercificati gadget turistici, assomiglieranno alle mini riproduzioni della Tour Eiffel che si vedono tutte illuminate nell'inquadratura iniziale del documentario?
Certo la restituzione è un problema complesso che non si può esaurire nell'iniziale entusiasmo degli africani: Europa e America rispondono con la lentezza della diplomazia, con la preoccupazione che gli africani non sappiano come conservare le opere restituite, con la difficoltà di varare nuove leggi che favoriscano la fuoriuscita di questi reperti; con il concetto di museo universale, valido ovunque si trovi, dimenticando che si tratta di oggetti illegalmente posseduti. Alcuni paesi come la Germania, l'Olanda e il Belgio si sono mostrati maggiormente solleciti, ma lo scoglio duro è rappresentato da Francia e Gran Bretagna, che già devono supportare richieste dell'Italia, della Grecia e della Turchia. Ma il dubbio sussiste: è così difficile decolonizzare l'arte e la cultura? Quanto tempo ha impiegato l'Italia a restituire l'obelisco di Axum?
Eppure restituire è il solo modo per favorire una conciliazione su questo doloroso passato, altrimenti impossibile.