Khaled al Khamissi, Taxi (recensione di Giulia De Martino)

                               
Taxi di Khaled al Khamissi

Traduzione dall’arabo di Ernesto Pagano
Editrice Il Sirente, 2008

Due parole sulla collana in cui compare questo titolo: si chiama “Altriarabi” e pubblica testi di artisti che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo, dissonanti dalle rappresentazioni stereotipate e spesso caricaturali con cui i  media occidentali spesso identificano gli abitanti di queste aree.

Il libro di Khamissi ha venduto in Egitto circa centomila copie, eguagliando il successo editoriale di Palazzo Yacoubian di Al Alswani, in un paese dove vendere 5000 copie produce normalmente un best-seller. Per di più, grazie alla promozione dell’autore, molto abile a muoversi negli ambienti letterari ed accademici europei, data la sua formazione culturale in Europa, conosce incessantemente nuove traduzioni. Cosa ha di tanto speciale? Innanzitutto la lingua in cui è scritto e poi il soggetto: i “tassinari” della capitale che si esprimono, senza peli sulla lingua, sulla maggioranza degli aspetti della vita quotidiana e non in Egitto.
Il testo non è un romanzo, ma nemmeno una inchiesta giornalistica tout court: infatti  rielabora il materiale di ascolto e di scambio umano, avuti dall’autore con centinaia di tassisti del Cairo, in 58 scenette dialogate, di stampo quasi teatrale, cucite da alcune sue opinioni o spiegazioni atte a gustare meglio il libro. L’autore sceglie di far parlare i tassisti nella loro lingua naturale, il dialetto arabo egiziano, relegando l’arabo standard a quelle parti che contestualizzano i diversi raccontini; siccome il testo è composto all’80% di dialoghi, ecco che si può dire che è scritto quasi interamente in quel dialetto che è la lingua vera e viva in cui si esprimono tutti
quotidianamente.
Questo, naturalmente, produce dei problemi di resa in traduzione, brillantemente superati da Ernesto Pagano, che a volte presta agli autisti di taxi accenti ed espressioni meridionali italiane, romane o emiliane, quel tanto che basta per non produrre un effetto di straniamento ed allontanare il lettore dalla realtà cairota. Ne viene fuori un ritratto indimenticabile di questa città di circa 18 milioni di abitanti, percorsa incessantemente da più di 80.000 tassisti, a volte per 18 ore al giorno, in un traffico caotico di macchine autobus, metropolitane, carretti e pedoni, in un ambiente inquinato e soffocante, dal rumore assordante. Leggere questo libro è meglio di molti trattati sociologici o antropologici sulla società egiziana: ci consegna immediatamente una umanità paziente sì, ma che non ne può più di corruzione amministrativa e della polizia, di una elefantiaca burocrazia, di mancanza di democrazia e di libertà, in una parola, dell’onnipotente Mubarak. Sembra che l’ultimo spazio di libertà espressiva sia rappresentato dalla strada, dove il cittadino comune riesce a catalizzare il malcontento sul governo, sulle sue scelte politiche americaneggianti, sulle scelte economiche che stanno mettendo in ginocchio il paese. Il panorama dei tassisti colti da Khamissi è quanto mai vario: ci sono sognatori e mistici, fanatici religiosi e misogini incalliti, malati di pornografia, professori e studenti disoccupati, truffatori, immigrati dal sud, attori a spasso e gente rovinata da speculazioni azzardate per la portata reale delle loro tasche. Il tutto ci dice che fare il tassista è diventato il mestiere di chi non ha più occupazione, un modo di sbarcare il lunario. Le loro opinioni, ma anche le loro barzellette, ci danno uno spaccato del pensiero non delle élites intellettuali ma degli strati popolari e poveri dell’intera società egiziana. Ci sono degli esempi divertenti e altri tristi e inquietanti: citiamo l’episodio in cui si parla della legge che ha liberalizzato le licenze di taxi, producendo una quantità abnorme di autisti, vessati da disposizioni assurde, come quella sulle cinture di sicurezza. Si scopre che il governo egiziano le ha introdotte come beni di lusso sui veicoli importati, facendo pagare alti dazi doganali. Questo ha indotto la maggioranza ad eliminarle per non pagare costi salati, ma poi sono state rese obbligatorie e i tassisti sono stati costretti a reinstallarle, a proprie spese: ovviamente molti lo hanno fatto solo per finta e quindi non funzionano, con i risultati ovvi di incidenti , il che ci dice qualcosa anche di casa nostra.
Alcuni tassisti si esprimono sullo stato bassissimo della istruzione pubblica: i bambini imparano a malapena a leggere, costringendo molti genitori a spendere per lezioni private pur di far imparare qualcosa ai figli. Ecco allora la trovata geniale di un tassista: non manda i figli a scuola così mette da parte i soldi che avrebbe speso per l’istruzione, giudicata ormai inutile, da utilizzare alla maggiore età dei figli per aprire una attività di vendita o un nuovo taxi… L’importante è fare soldi, a scuola tanto si impara solo l’inno nazionale e le sciocchezze che Mubarak vuole si trasmettano ai ragazzi, futuro del paese.
Ma c’è anche spazio per la guerra in Iraq, per i Fratelli musulmani, per le condizioni sanitarie del Said sottosviluppato e anche per un tassista contemplativo: “da 30 anni divido la mia giornata in 3 parti: nella prima lavoro, nella seconda sto con mia moglie e i miei figli e nella terza vado a pescare sul Nilo. Vado a lavare il mio spirito, il mio corpo e i miei occhi. E sulla superficie del Nilo leggo le parola di Dio […] Se ognuno di noi, in questo paese, si fermasse a guardare la superficie dell’acqua […] non ci sarebbero né corruzione né mazzette […] ogni volta che finisco il turno ho paura per i miei figli, paura del futuro […] quando però finisco di pescare, mi sento pieno di speranza per il domani e fiducia che ogni cosa andrà per il meglio”.
La società egiziana a bordo di un taxi, titola una recensione dedicata a questo libro, quanto mai appropriata.


Giulia De Martino

© Scritti d'Africa, Gennaio 2009
                                                                

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