Alain Mabanckou - Otto lezioni sull'Africa -recensione a cura di Giulia De Martino

Alain Mabanckou

Otto lezioni sull’Africa

edizioni e/o, 2023

traduzione di Lorenzo Alunni

 

Lo scrittore congolese Mabanckou è assai noto in Italia per la quantità di traduzioni che sono circolate, in gran parte da noi recensite soprattutto a partire dal 2010.

Nella prefazione di questo saggio rivela tutta la sua emozione per l’assegnazione, nel 2015, della cattedra annuale di Creazione artistica, affidata per la prima volta dal Collège de France di Parigi ad uno scrittore africano. Oltre all’onore accordatogli da una prestigiosa istituzione culturale francese, ha provato anche l’emozione di trovarsi nello stesso Quartiere latino che aveva visto nascere, nella adiacente Sorbona, il primo Congresso di scrittori e artisti neri nel 1956, la fondazione della fondamentale rivista Presenza Africana e della omonima casa editrice tra il 1947 e il 1949. In una Parigi che era tutta una effervescenza culturale letteraria, filosofica, artistica grazie alla presenza di Gide, Sartre, Leiris, Picasso per citarne qualcuno e d’oltreoceano, statunitensi e antillani come Baldwin, Wright e tanti altri ancora.

Quando ancora la Francia possedeva colonie, erano state istituite cattedre dei “paesi del sud” di carattere essenzialmente etnologico e antropologico, perlopiù finanziate non dal ministero dell’Educazione, ma dalle istituzioni coloniali. Anche in seguito alla post-colonizzazione c’è sempre stata un’ombra di sospetto verso gli studi africani per il pericolo che contraddicessero la visione edulcorata dell’incontro tra Europa e Africa e per il timore, da parte della Francia, di essere messa costantemente sul banco degli imputati per le disavventure del continente. La Francia ha sempre preteso di parlare lei a nome degli africani, tanto da chiamare la letteratura scritta dagli europei sull’Africa letteratura africana. Questo testo è la raccolta e pubblicazione delle lezioni tenute da Mabanckou .

In coda al volume la lettera aperta dell’autore al Presidente francese, sulla francofonia, e il discorso dello scrittore a Reims per la memoria dei tirailleurs senegalesi che hanno combattuto per la Francia.

Mabanckou parte da sé stesso come autore africano, titolo rivendicato con orgoglio, sebbene da circa 15 anni residente negli Usa e professore in una università americana.  Le lezioni, avverte nella prolusione iniziale, verteranno sulle sue origini, come scrittore, immerse in quelle di una letteratura africana nata dal rifiuto da canoni imposti dalla letteratura europea “nei quali l’Africa era solo una comparsa muta, ridicolizzata, buona solo a scortare l’Europa nelle sue compagini più esotiche e a esprimersi solo per onomatopee”.

Dunque saranno esaminati i legami della letteratura coloniale francese con la letteratura africana francofona, associando anche le letterature caraibiche e afroamericane fino ad arrivare alla letteratura diasporica e a quella della migritude, o come suole essere chiamata l’Afrique sur Seine. La congerie di scrittori citati nelle otto lezioni impedisce di darne conto esaurientemente, rimandando alla lettura del testo in questione.

La partenza dai testi scritti da viaggiatori ed esploratori del mondo francofono, spesso non privi di descrizioni realistiche su ciò che vedevano, perché fondati su obiettivi di conoscenza, lascia spazio ad un gusto per l’esotismo e l’avventura; lì non interessano gli africani in sé ma il lato insolito e misterioso di quegli ambienti in cui venivano collocati e un sostanziale giudizio di contrapposizione tra la civiltà bianca e la bestialità nera, cui non si sottraggono neanche certi autori britannici come Conrad in Cuore di tenebra, secondo il parere di Chinua Achebe, con cui Mabanckou concorda fino ad un certo punto. Ne nasce una immagine caricaturale degli africani, sempre considerati come un mucchio uniforme di selvaggi da nord a sud, senza distinzioni culturali o linguistiche, che dominerà tutta la letteratura coloniale francese fino agli anni trenta. Debolmente contrastata da una letteratura africana coloniale scritta da autoctoni che dovrà attendere il cambiamento di sguardo degli anni trenta e il movimento della Negritudine, esteso fino agli anni successivi del secondo dopoguerra. Tuttavia autori francesi come Gide, Celine, Morand, Londres, in alcune opere, segnano uno stacco dal panorama prevalente, anche se certe crude descrizioni sono più nell’ambito della denuncia di abusi e soprusi piuttosto che di contestazione vera e propria del sistema coloniale.

La nascita di una letteratura africana autonoma deve molto al soffio culturale nuovo venuto dall’America tra gli anni ’20-’30 e a quegli artisti, spinti da una nazione segregazionista come quella americana ad esiliarsi a Parigi: il Rinascimento di Harlem influenzò gli studenti neri in Francia, innescando il volo di una nuova mentalità e di una letteratura capace di decostruire la narrazione dell’Africa, come era stata condotta fino ad allora. Batouala di René Maran( originario della Guyana) segna il passaggio di attacco alla tesi della superiorità della cultura bianca, anche se non si può propriamente collocare al di fuori del romanzo coloniale: ambiguità che Mabanckou riconosce anche nel guineano Camara Laye quando nel 1953 pubblica Un bambino nero.

Essenziale l’apporto della cultura antillana nella persona di Aimé Cesaire con le sue analisi sul colonialismo e di Leon Gontran Damas per avviare con Leopold Senghor quell’eccezionale clima di fervore intellettuale ed artistico che fu il Movimento della Negritude. Jazz, diffusione della danza e delle culture nere africane, le ricerche di Frobenius si mescolarono con Picasso e Sartre, dando vita a due strade per la poesia e il romanzo africano: l’una, quella di mostrare al mondo il passato culturale dell’Africa, la sua grandezza storica fatta di grandi imperi che fino al XVI sec. avevano dominato e avuto rapporti commerciali con l’occidente, lungi dall’essere quella tabula rasa su cui l’occidente avrebbe scritto a suo piacimento. L’altra : la fascinazione della cultura bianca attraverso l’acculturazione e contemporaneamente la sua messa in discussione come allontanamento dai principi ancestrali. Mongo Beti, Cheikh Ahamidou Kane, Yambo Ouologuem avviano la letteratura verso il periodo delle indipendenze, quando molti autori si schierarono non solo contro i principi della colonizzazione, ma anche in favore di una libertà politica e di una democrazia che dagli anni ’70 in poi sarebbe stata ingoiata dai dittatori neri. Il sole delle indipendenze di Ahmadou Kourouma segna una sintesi tra l’Africa antica e quella del presente: un principe malinké, nostalgico della passata grandezza del suo casato deve affrontare non solo un nuovo tipo di vita ma anche l’arrivo del partito unico che tarpa la bocca a tutti.

Gli anni ’70 segnano l’ingresso delle donne nel paesaggio letterario africano con Mariama Ba e Aminata Sow Fall che introducono temi che avranno una lunga scia di altre scrittrici negli anni seguenti: la poligamia, la condizione di subalternità delle donne, l’escissione, la sterilità. Le nuove scrittrici degli anni ’80-2000, come per esempio Callixthe Beyala e Ken Bugul faranno comparire altre tematiche legate alle nuove ingiustizie di chi in Francia ci è arrivato come migrante o addirittura di chi ci è nato. O come in Leonora Miano il tentativo di non nascondere più le connivenze degli africani stessi nei confronti della schiavitù e della tratta.

Finite le illusioni di un cambiamento sia in Francia che in Africa comincia a serpeggiare nei romanzi un afro-pessimismo negli scrittori esiliatisi in Europa o in America, che guardano con sarcasmo, a volte feroce, alle disavventure politiche degli stati africani e dei loro abitanti. Senza peraltro dimenticare la straordinaria resilienza e la creatività espressa dalle città, ormai megalopoli, piene di vitalità e contraddizioni.

E’ qui che si colloca come scrittore Mabanckou: la generazione di Efoui, di Waberi, di Nganang, dove ribolle ancora la contrapposizione tra le culture, erede della frattura coloniale, ma anche quella di Marie Ndiaye, dove si rivendica una libertà di scrittura rifiutando la fraternità fittizia definita dal colore della pelle, scegliendo strade diverse per la definizione di identità, dibattito molto sentito in Francia dalle generazioni più giovani. Questa è anche la generazione che vede cadere l’idillio con la cultura americana nera e non solo, che ha cominciato a colpevolizzare gli africani per aver contribuito a far nascere la deportazione nelle Americhe e la conseguente condizione di minorità sociale attuale.

Questi scrittori hanno suscitato l’entusiasmo di giornalisti come Rampini che ne La speranza africana dedica loro pagine per esprimere la condizione attuale dell’Africa, fatta non solo di corruzione, guerre civili, terrorismo, carestie e siccità, povertà e malattie, ma anche di una elite di intellettuali e artisti che raccontano sé stessi e l’Africa, nel bene e nel male, con la pretesa di non essere ingabbiati in definizioni identitarie e soprattutto liberi di esprimersi nelle lingue che li hanno acculturati. Mabanckou dedica pagine illuminanti sul patrimonio orale africano, sul fatto che gli stati non mettono in condizione i loro cittadini di potere accedere ad eventuali letterature in lingue locali: solo allora si potrà parlare di letterature nazionali, anche se lui rivendica la libertà dell’artista di esprimersi nella lingua che desidera.

 

 

 

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