Bernardine Evaristo
Radici bionde
BigSur, 2021
traduzione di Martina Testa
Certo, dire qualcosa di nuovo davanti a un romanzo sulla schiavitù atlantica è una impresa tosta: per un paragone, l’elenco di libri che dovremmo stendere è poderoso, senza contare i film o le serie televisive. Recentemente negli Stati Uniti c’è stato un revival delle slave stories, rinfocolato dai gravi episodi di razzismo che sono accaduti.
Ci ha pensato Bernardine Evaristo, la brillante scrittrice britannica di origine nigeriana, da poco balzata agli onori della celebrità in Italia con la traduzione di “Donna, ragazza, altro” (da noi recensita sul sito), a trovare un modo differente. L’autrice ha infatti intrapreso una strada diversa, già sperimentata per gli orrori del nazifascismo e la persecuzione antiebraica: si può trattare con ironia e, a volte, proprio con una divertente presa in giro, un argomento serio, pieno di sofferenze indicibili?
Ebbene la Evaristo è proprio quello che ci propone presentandoci una sorta di distopia storica ( o forse più correttamente una ucronia) in cui gli schiavisti sono i nehri , che hanno fondato un grande impero coloniale a partire dal Regno Unito di Grande Ambossa e gli schiavi sono i bianki di Europia.
Non aveva osato tanto neanche Abdourahman Waberi, autore gibutiano, quando aveva scritto “Stati Uniti d’Africa” (uscito in Italia per Morellini nel 2007 e per Feltrinelli nel 2009), in cui aveva immaginato un’Africa prospera e sviluppata che attira migranti straccioni provenienti dall’Europa e dall’America, entrambe sottosviluppate e sfinite da guerre interetniche e nazionaliste.
Il capovolgimento della storia attribuisce perciò all’Aphrika, in particolare all’isola di Ambossa, che si trova, più o meno, di fronte alla costa nordafricana, la nascita del surplus dei grandi proprietari terrieri, impiegato nel commercio e rinvigorito economicamente dalla tratta degli schiavi presi da Europia, da impiegare nelle piantagioni di Nuova Ambossa. Si tratta di un gruppo di isole , erroneamente chiamate Arcipelago giapponese, da un esploratore , alla ricerca di una nuova rotta per l’Asia: il nome gli era rimasto…Nuova Ambossa, con capitale Londolo che conosce uno sviluppo incredibile e una grande differenza di classi.
La cronologia storica che viene riportata dall’autrice è un po’ di fantasia, dal momento che si mescolano tempi feudali e medievali con un periodo assimilabile all’Inghilterra tra ‘700 e ‘800. A volte ciò crea qualche confusione nel comprendere gli eventi. Ma l’autrice vuole scrivere un romanzo, servendosi di capacità immaginativa e ironia, non un saggio storico.
Ovviamente Europia è chiamato il Continente Grigio, a causa del suo clima nebbioso, piovoso e freddo al confronto con l’Aphrika. Il testo si presenta pieno di citazioni letterarie e rimandi ad altri romanzi sulla schiavitù, compresa la presenza di una sotterranea che conduce alla libertà, con l’aiuto della Resistenza fatta di neri, conquistati all’abolizionismo e di bianchi che facevano il doppio gioco coi padroni, come ne “La ferrovia sotterranea “di Colson Whitehead. Eccoci noi lettori nei panni dei poveri bianki umiliati, percossi, sfruttati e uccisi, per comprendere a pieno cosa sia stato questo delittuoso fenomeno della schiavitù.
Il romanzo si divide in tre parti: la prima e la terza sono le disavventure di Doris, strappata alla famiglia di piccoli agricoltori europiani simil-scozzesi e venduta a Bwana, un più che agiato proprietario terriero, e ridotta in schiavitù servile, quasi di privilegio, dato che i genitori le avevano consentito di imparare a leggere, scrivere e far di conto: fatto che comportava un incarico pulito di contabilità degli affari del padrone. Il nome di Bwana è Kaga Konata Katamba che usava marchiare i suoi schiavi con la sigla KKK.
Un primo tentativo di fuga di Doris la conduce, per punizione, nella Nuova Ambossa, dove conoscerà la dura realtà del lavoro nella piantagione di canna da zucchero che Bwana possiede laggiù e sperimenterà frustate e umiliazioni, fame e paura.
Ma nel Nuovo Mondo conosce un ambiente schiavistico diverso: non sono europiani condotti di recente nelle piantagioni, ma un gruppo che non ha mai conosciuto il luogo di provenienza di genitori, nonni e avi remoti; sono nati e cresciuti in condizione di schiavitù, hanno mescolato lingue, usanze , gastronomie e religioni di varie zone europiane e anche con quelle di Aphrikia, creando una formazione originale, in cui hanno potuto ricostituire un embrione di comunità, di famiglie, di sogni, riassaporando affetti e legami da cui gli antenati erano stati violentemente separati. La scrittrice inventa anche un modo di parlare dei bianghi schiavi, assimilabile al linguaggio presumibilmente della Mamie di “Via col vento”. E’ qui che Doris diventerà adulta, passando attraverso sofferenze che la lasceranno fisicamente segnata per sempre, capirà il valore della libertà, verso la quale s'involerà questa volta con successo, dopo altre mirabolanti avventure.
Molto interessanti le descrizioni dei diversi ambienti, quello degli schiavi e quello dei padroni, queste sì rese con scrupolosità storica, elargendo luci ed ombre. Anche la comunità degli schiavi di Nuova Ambossa conosce capi e capetti, gelosie e cattiverie, nessuno è santo e per sopravvivere si fanno molte cose che non si vorrebbero fare: tuttavia permane un senso di fraternità e di solidarietà con cui Doris si fortifica e cresce umanamente.
Londolo di Ambossa e Little Londolo di Nuova Ambossa, le proprietà dei padroni, con il lusso sfacciato e le stramberie degli aristocratici sono occasioni godibilissime di feroce ironia nei confronti degli inglesi, che emergono attraverso un linguaggio creativo e scoppiettante, assai più avvertibile per i londinesi che per noi; infatti la scrittrice deforma nomi reali di quartieri, stazioni metropolitane, strade e ponti di Londra.
Londolo diventa meta di turisti di Aphrikia, scortati da guerrieri masai o zulu, che visitano gli slums dei whaites, come Brixtane e fotografano bambini macilenti che chiedono elemosine ai ricchi stranieri . Non mancano sceriffi che fermano i bianki per il solo fatto del colore della pelle, accalappiabianki che gironzolano nelle periferie allo scopo di rapire i pochi bianki teoricamente liberi e venderli come schiavi ad una nave in attesa al porto; o fenomeni di assimilazione da parte degli europiani che frequentano parrucchieri per arricciarsi i capelli ed estetisti per scurirsi la pelle o schiacciarsi il naso. Il titolo “Radici bionde” allude proprio alla pretesa di cancellare le proprie peculiarità fisiche per aderire all’ideale di bellezza dei neheri, sapendo che la ricrescita dei capelli biondi tinti di nero costringe ad una finzione perpetua...
Le invenzioni linguistiche e narrative costituiscono una girandola da far girare la testa e non sappiamo più se parliamo di bianchi o di neri, tanto i bianghi sono descritti come i blek e viceversa.
La seconda parte è scritta direttamente dal capo Kaga Konata Katamba, che venuto da umili origini, ormai reso gentiluomo dalle ricchezze e dalle proprietà conquistate con tutti i mezzi leciti e illeciti possibili, si erge a intellettuale e filosofo e scrive i suoi pensieri sulla liceità della schiavitù, sul diritto di proprietà di altri esseri umani, sulla bontà delle punizioni, dato che i caucasidi sono affetti da una minore sensibilità al dolore e in conseguenza di una limitata capacità cerebrale comprendono solo con le cattive maniere.
Lo scritto è sulla falsariga di quei mémoires, di cui ci sono esemplari in tutto il ‘700 e ‘800 occidentale, dove si narrano le avventure della propria vita e si seminano riflessioni, pensieri, esperienze e idee, come cita il frontespizio del testo di Bwana.
A volte lo sforzo creativo di restituirci un mondo alla rovescia prende il sopravvento e le emozioni del libro si affievoliscono, a volte la crudezza delle descrizioni ( e non ci viene risparmiato niente) ci conducono alla empatia più profonda con i soggetti sofferenti: un modo eccezionale per calarci nella questione della schiavitù e riflettere sulle conseguenze odierne di quel fenomeno, sul razzismo e sulla bellezza della diversità umana.
Particolare attenzione presta l’autrice alle donne che pagano doppiamente la diversità: quella della pelle e quella del sesso. Il predominio su di loro passa per violenze sessuali, a cominciare dai marinai delle navi che traversano l’Atlantico, per rapporti obbligati coi padroni e padroncini, cui non ci si può sottrarre, spesso per le separazioni dai figli, venduti ad altri proprietari; anche tra i bianki circolano violenza, soprusi e rozzezza verso le donne.
Bernardine Evaristo riesce nel suo intento: mettendoci nei panni degli altri siamo costretti a fare i conti con il nostro razzismo e il concetto di diversità, la cui tematica svolge un ruolo fondamentale nella sua scrittura.