Binyavanga Wainaina
Un giorno scriverò di questo posto
Traduzione di Giovanni Garbellini
Casa Editrice, 66thand2nd
Ecco approdare dal Kenia uno scrittore, recente ospite del festival della letteratura di Mantova, che non ama molto l’etichetta di “afropolitan” riferita a quegli scrittori, dalla vita cosmopolita, che pur vivendo in America o in Europa parlano, nei loro scritti, dei paesi da cui provengono nelle lingue degli ex-colonizzatori. Ama, nelle interviste che ha rilasciato in Italia, se mai l’etichettatura di “panafricano”, anche se si tratta di comode diciture dei critici e dei giornalisti.
In effetti, nel romanzo in questione, tutta l’Africa vi respira, se non tutta, quella che è ricaduta sotto la sua personale esperienza di studente prima , e di scrittore poi. Per questo il testo è una singolare autobiografia da parte di un pressoché quarantenne viaggiatore - osservatore per istinto: il Kenia, l’Uganda, il Rwanda, il Sudafrica, il Senegal, la Costa d’avorio, il Togo ecc. sono i paesi dove ha vissuto o si è recato per studio e lavoro, senza contare gli Stati Uniti che lo hanno visto soggiornare a lungo.
Gli ci sono voluti sette anni per completare questo testo e la scrittura non è stata soltanto autobiografica ma si è intrecciata con l’esperienza di narratore di racconti di viaggio che nel frattempo è cresciuta di pari passo con la maturità dell’uomo.
La molteplicità è presente, nella sua vita, a partire dalla complessa famiglia: madre ugandese di lingua bufumbira, padre keniota di etnia kikuyu , avi congolesi. In questa famiglia non c’è altro che ciò che è presente in tutto il paese: una varietà enorme di espressioni linguistiche. E’tale il guazzabuglio di lingue che in famiglia se ne parlano essenzialmente due, l’inglese, senza il quale padre e madre non avrebbero potuto parlarsi e lo swahili che è la lingua comune che si parla in Kenia un po’ da parte di tutti. Gli resteranno per sempre sconosciute le lingue native del padre e della madre.
Sarà questo abitare contemporaneamente molte culture e lingue (anche senza comprenderle ) questo ascolto quotidiano di suoni che predispone il piccolo Ken Bynyavanga ad una particolare osservazione della realtà: le parlate possono essere wreng wreng, le cose sconosciute che ingenerano ansia sono kimay, che non sono solo parole di ignoto significato, ma anche strumenti musicali inquietanti che producono musiche che fanno sudare e strappano le viscere. E non solo i suoni sono oggetto della sua indagine ma anche i colori dei paesaggi, degli abiti, delle foreste e delle savane. Ci sono pagine liriche molto belle in cui l’autore presenta certi luoghi in determinate stagioni e in certe ore. Come nel cap.I “Adesso ( il sole ) è calato tra gli alberi. Migliaia di soli sono disseminati per il giardino, fanno capolino dai buchi, tutti sferici, tutti lanciano miriadi di raggi. I raggi cascano sui rami e sulle foglie e si frantumano in migliaia di soli perfetti, più piccoli ancora”.
Il testo inizia quando il bambino ha cinque anni e legge il mondo in un modo tutto suo. Questo lo fa sentire diverso dalla sorellina e dal fratello più grandi: tutti gli sembrano abitare in una pelle sicura e possono mostrarsi certi nelle idee e nelle azioni. Come ordinare un mondo-caos di colori, di parole, musiche e suoni diversi se non attraverso il linguaggio? Di qui la necessità di classificarli da parte del bambino e dell’adolescente che cresce tra la morte del grande padre della patria Kenyatta, dell’orco Idi Amin che turba la sua infanzia ( tanta è la paura per il ramo ugandese della famiglia !) della salita al potere di Arap Moi.
La colonna sonora della crescita è una sgargiante sfilata di canzoni e programmi radio televisivi, tipica di qualsiasi bambino europeo e americano. Il mondo in cui cresce il protagonista è irrimediabilmente globalizzato: sogni, miti , modelli e desideri sono uguali a quelli occidentali, perché Binyavanga si trova in una famiglia di un certo benessere, studia in buone scuole. Non siamo di fronte al romanzo di formazione “di un giovane povero”: la miseria è bandita da casa sua e anche quando la famiglia conosce dei rovesci mantiene sempre un certo standard di vita e di alloggio. Tuttavia c’è qualcosa che resiste nel protagonista alle aspettative familiari: ci si attende un economista , un informatico o un esperto di management finanziario o aziendale. Prima di capire che cosa vuole veramente il nostro Binyavanga si perderà tra alcol e droghe, sesso e vita notturna da scapestrato: ma non in Kenia, bensì in Sudafrica. Dall’allontanamento da casa, dalle beghe tribali iniziate dai colonizzatori inglesi e perpetuate dalle classi al potere, dall’avvicinarsi alla realtà di lotta e di rinnovamento del nuovo Sudafrica, dalla percezione delle possibilità infinite che si possono aprire ,se si cercano insieme le soluzioni , comincia a nascere un nuovo Binyavanga: la musica morbida e sensuale del rithm’nblues, di Michael Jackson e company, delle torbide rumbe congolesi cede al duro hiphop urbano di Johaannesburg e Captown e della cantante simbolo Brenda Fassie , uscita dai bassifondi delle township, che segna la fine di un’Africa che non c’è più, poco conosciuta in occidente che le ha preferito la assai più rassicurante Miriam Makeba.
Del resto è martellante la sottolineatura delle discutibili scelte dell’occidente, in qualche caso mortali: per tutte citiamo il risentimento verso gli aiuti umanitari alla Bob Geldof, gli aggiustamenti strutturali della banca mondiale degli anni ’80 che hanno distrutto il sistema scolastico di un certo buon livello in Kenia, la smania di protagonismo dell’interventismo francese nelle aree dell’Africa occidentale e centrale.
Sarà la commovente ed entusiasmante riunione della famiglia presso i nonni ugandesi che celebrano sessanta anni di matrimonio, metafora della diversità presente in tutta l’Africa, ad accendere una serie di riflessioni sul Kenia: sul passaggio a paese totalmente anglofono, pur in mezzo alle liti tribali e all’avvicendamento delle etnie al potere, puritano, assalito da chiese pentecostali spiritualmente aggressive. Riflette anche sui meccanismi di sopravvivenza innestati nei kenioti da una situazione di frazionamento sempre potenzialmente esplosiva, di ipocrisia collettiva per non cadere nel baratro. Da lì si originerà la voglia di volerne parlare un giorno. Finalmente intravede la sua strada : sarà uno scrittore a dispetto di tutto e di tutti.
La storia arriva fino alle ultime elezioni e al referendum sulla costituzione del 2010, alla speranza che, dopo gli scontri degli anni 2000, anche il Kenia trovi la sua strada. Nel frattempo, il protagonista si sente finalmente libero: di vivere dove vuole, di svolgere attività che gli piacciono. Ha infine scelto di abitare a Nairobi, ma se ne allontana sempre volentieri per nuove avventure e conoscenze culturali. Ricordiamo che per un certo tempo ha diretto il China Achebe Center negli Usa. Professa tutto il suo rispetto per questi grandi autori che hanno segnato la letteratura africana delle origini, compreso il suo compatriota Ngugi wa Thiog’o, da lì gli africani hanno cominciato a percepirsi non più attraverso lo sguardo dei colonizzatori. Ma lui si sente diverso: fa parte di una generazione che ha vissuto un’altra storia e che non ha nessuna intenzione di rinnegare quanto offerto dalla globalizzazione, compresa la febbre da cavallo dei mondiali di calcio.
Forse, in fondo al cuore è “un piccolo anglokeniota, incapace di apprezzare il benga”, che è una musica popolare per chitarra, nata negli anni ‘40 . Però scopre che la musica benga era suonata a Nairobi da chitarristi di etnia luo ,secondo una certa tecnica, e si è diffusa rapidamente presso altre tribù, diventando in breve un vero e proprio genere ‘nazionale’-
“Il kimay è gente che parla senza parole, che parla linguaggi precisi, è i suoni di chitarra di tutto il Kenia che parlano le lingue del Kenia.Se il kimay mi creava incertezza, era solo perché mi mancava l’immaginazione necessaria a pensare che fosse possibile un’impresa del genere. Perché il kimay faceva parte di un progetto che aveva lo scopo di rendere persone come noi certe del proprio posto immutabile nel mondo, per renderci incapaci di vedere il passato e il posto che vi occupavamo. Per renderci anglokenioti. Fin dall’inizio, nella nostra musica popolare dell’indipendenza, prima ancora che venisse issata la bandiera, noi kenioti avevamo già trovato una piattaforma coesa per esprimere in musica la nostra varietà e complessità. Sapevamo dall’inizio di poter esistere, noi kenioti, anche se non ci crediamo ancora fino in fondo”.
È caparbia la scrittura di questo autore, ci si insinua addosso con insistenza e anche con ripetizioni, a volte, un po’ fastidiose, vuole essere ben sicuro che comprendiamo ciò che vuole dire, ci lancia in abissi di suoni e ci innalza in emozionanti immaginazioni : la lingua si fa onomatopeica e scricchiola sotto il peso dei significati e dei presunti significati, soprattutto nella prima parte quando lo scrittore è ancora bambino. Nelle ultime pagine, il testo vira , a volte, un po’ troppo sul reportage di viaggio e si diluisce in una narrazione più oggettiva e meno appassionante. Ma non disturba più di tanto.
Un magnifico nuovo scrittore africano.