Carmine Abate- Le rughe del sorriso- recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

Carmine Abate

Le rughe del sorriso

Mondadori,  2018

 

 

Vorremmo segnalarvi un testo interessante e ben confezionato, scritto da un autore italiano, proveniente da un piccolo paese alberesh, cioè albanese, di Calabria, emigrato in Germania e, in seguito, stabilitosi in Trentino, senza però abbandonare del tutto la sua regione d’origine.

Dopo essersi occupato molto di emigrazione italiana, sia attraverso ricerche e saggi  che romanzi, approda alla narrazione di una vicenda migratoria dalla Somalia, quella di un piccolo gruppo in fuga rappresentato da una giovane donna dal sorriso straordinario, Sahra, da suo fratello Hassan geologo, dalla cognata Faaduma e dalla nipotina Maryan . La donna - che parla abbastanza bene l'italiano- scompare improvvisamente dal centro di seconda accoglienza del paese calabro di Spillace (nome immaginario), tra Sila e mare.

A rilevarne la scomparsa è il protagonista del racconto, un giovane insegnante di italiano per stranieri, Antonio Ceresa che, affascinato dalla bellezza e intelligenza di Sahra, ha finito per innamorarsene.  La cognata e la nipotina sanno che è partita alla ricerca del fratello Hassan, di cui non si hanno più notizie dopo che si era allontanato per cercare lavoro, e sono convinte che ritornerà restituendo un marito a Faaduma e un padre a Maryan.

Da qui prende inizio la vicenda che racconta non solo la fuga del piccolo nucleo ma l’epopea di molti migranti che partono dal Corno d’Africa e attraverso il Sudan raggiungono la Libia per imbarcarsi verso la costa italiana. Dunque Sahra non è un personaggio della storia, che è quella della ‘enquete’ di Antonio, ma è un’assenza che emerge dai ricordi di Faaduma e di chiunque l’abbia incontrata,  conquistati dalla energia e determinazione che emana la sua persona.

Il protagonista comincia ad inseguirne le tracce per la Calabria marina e montana, da Crotone a Bocchigliero, fino a Rosarno. Il mistero della scomparsa di Sahra e di suo fratello Hassan persiste fino alle ultime pagine del libro, quando il guizzare di un velo e il balenare di un sorriso rivelano al paese di Spillace - dove Antonio è tornato a vivere nel bel palazzo costruito dal padre con i suoi risparmi di emigrante in Germania - che Sahra è tornata. Ma è un finale aperto come tutte le vite di coloro che sono in viaggio per trovare un posto dignitoso e sicuro in cui vivere.

L’autore compare nel romanzo come  raccoglitore di storie e non a caso l’Abate premette alla narrazione una citazione di Elias Canetti “raccontare, raccontare, finché non muore più nessuno. Mille e una notte, milioni e una notte”. Abate scrive la storia che il Ceresa gli racconta, a sua volta  depositario delle narrazioni del periodo somalo di Faaduma e del professor Brunetti, ex- docente di lingua e cultura italiana all’università di Mogadiscio : questi aveva accolto la bella Sahra come studentessa di italiano.  Nella sua incessante ricerca del fratello, Sahra aveva percorso la penisola italiana e incontrato molte persone: ognuna, con il suo racconto ad Antonio, testimonia un lato della personalità della giovane.

Ciò dà modo all’autore di spaziare in archi temporali e luoghi diversi e di avvicinarsi a temi scottanti ed attuali, quali il razzismo scoperto e quello strisciante, la solidarietà vera di alcuni paesi calabresi e l’accoglienza da salotto di altri, come quella della famiglia di Antonio che finché si tratta di un po’ di elemosina va bene, ma quando si tratta di condividere è tutto un altro discorso... Fino ad esplorare l’intolleranza dichiarata degli “italiani prima di tutto”con cui si può passare facilmente all’aggressione aperta. Riporta i drammatici fatti di Rosarno del 2010, mettendoli in bocca ad un africano che aveva conosciuto Hassan.

Ma non è impietoso verso i paesani pettegoli, quasi tutti anziani, dato che la maggioranza dei giovani è andata via per cercarsi un lavoro e aprirsi un varco di speranza: si tratta di persone chiuse dentro la propria ignoranza, la cui maldicenza congenita, legata all’inattività e sedentarietà, porta all’ostilità e al dileggio dei diversi, non riuscendo ad aprirsi per accogliere, spaventati dalle novità e da un futuro che non sembra portare benessere e soluzione ai loro problemi. L’autore esplora anche l’integrazione, soprattutto attraverso le osservazioni di Antonio circa  il comportamento della piccola Maryan e della sua confidente segreta, una bambola di pezza di nome Maana che ha attraversato con lei i deserti, le città, il mare Mediterraneo, ultimo regalo del padre, simbolo della speranza di sopravvivenza e di felicità. La bimba impara facilmente l’italiano, al contrario di sua madre, si relaziona con gli amichetti dell’asilo e con i nipotini di Antonio in modo naturale e fa con loro quello che fanno tutti i bambini del mondo, se non intervengono i pregiudizi degli adulti: gioca e condivide.

Due sono i momenti di grande impatto emotivo: la storia vera della costruzione in Somalia della comunità di Ayuub, un villaggio di orfani della guerra civile degli anni ‘90’, in seguito alla caduta di Siad Barre, letteralmente inventato dal nulla da Maana Suldaan, con l’aiuto di un sacerdote trentino geologo, ex docente all’università di Ferrara, fondatore di Water for life.  In quell’atmosfera di democrazia, lavoro, istruzione e cultura si forma un’esperienza unica in Somalia, un modello per il paese quando riuscirà ad emergere dalla violenza, dall’islamismo, dalle sanguinose lotte di potere. Il villaggio si è conquistato, nel 2008, il premio della pace intitolato ad Alexander Langer, evento funestato dal sequestro e scomparsa di cinque somali, quasi tutti collaboratori di Water for life. E' il momento in cui Sahra, Faaduma e Hassan, tutti orfani cresciuti e istruiti in quel villaggio, lasciano la Somalia, ormai in balia degli islamisti.

Ma l’attesa del lettore è tutta nella descrizione del viaggio per raggiungere la Libia e la traversata in mare: qui si apre un baratro di sofferenze, botte e soprusi,  detenzioni illegali e stupri, di cui sono oggetto anche le due donne, che mostrano in che situazione di degrado politico e morale si trovi la Libia, quale ipocrisia domini le decisioni dei governanti europei e italiani in particolare, come sia impossibile considerare questo paese come porto sicuro in cui sbarcare o allestire hotspot per alleggerire il carico di Italia, Grecia, Malta o Ungheria.

Gabriele del Grande, Andrea Segre e Dagmawi Yimer, giornalisti e cineasti già ci avevano dato un’idea di tutto ciò attraverso immagini : ora tocca alla letteratura italiana. Questo non è più soltanto narrare la storia degli altri, ormai è anche storia nostra, che ci piaccia o no. Non potremo voltare la faccia dall’altra parte ancora a lungo. Ma, per poterlo fare, come dice lo scrittore Alessandro Leogrande, citato da Abate nei ringraziamenti in fondo al libro: “Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi”.

Carmine Abate che da sempre vive tra i confini delle culture, che ha provato sulla sua pelle l’esperienza della emigrazione e che condivide un po’ la condizione degli scrittori africani in diaspora, prova a spostare l’attenzione degli italiani, dagli immigrati come numero minaccioso e anonimo, a corpi e persone reali, che ci raccontano storie vere e a cui raccontiamo anche noi la nostra storia di emigranti, in uno scambio dialogico senza il quale non ci si può conoscere davvero. E ce lo dice in un linguaggio di frontiera che mescola italiano colto, dialetto calabrese ( ci sono interi capitoli scritti in dialetto) e l’italiano stentato degli immigrati che imparano la lingua nei posti di lavoro e tra la gente comune piuttosto che nelle scuole di italiano, frequentata spesso solo per ingannare l’attesa delle risposte delle autorità preposte sul loro destino di rifugiati.

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