Algeria
Daoud Kamel, La prefazione del negro. Racconti
Edizioni Casagrande, Bellinzona 2013
Traduzione di Yasmina Melaouah
Dobbiamo la conoscenza di questo autore algerino ad una bellissima iniziativa, da noi poco conosciuta, che è il Babel Festival della letteratura e della traduzione, che si tiene a Bellinzona nella prima decade di settembre, dedicato quest’anno alla francofonia africana.
Gli organizzatori cercano di far conoscere autori poco o non tradotti in Europa, sapendo che i più , cioè gli scrittori arabofoni,non vengono diffusi a causa della difficoltà della lingua:chiaramente il mercato editoriale dispone di maggior copia di traduttori dal francese o dall’inglese o pubblica ciò che solletica di più il lettore europeo.
In questo incontro sono stati messi a contatto editori algerini come Sofiane Hadjadj, presente con le edizioni Barzakh e piccoli ma agguerriti editori svizzeri come Casagrande o Cascio del Canton Ticino o italiani come Socrates.
In questo ambito è intervenuto Kamel Daoud :nato a Mostaganem, vicino Orano, generazione anni’70,scrive in francese ed è un giornalista caporedattore de Le Quotidien d’Oran. Con il quarto racconto della presente raccolta “L’arabe et le vaste pays d’oh”ha vinto, nel 2008, il premio Dib, dedicato allo scrittore algerino Mohammed Dib, morto nel 2003. Prima della “Prefazione del negro” aveva pubblicato un’altra raccolta dal titolo Minotauro 504 . Adesso è atteso un suo romanzo “Mersault, la contre-enquete “ che ha per protagonista il fratello dell’arabo ucciso dal francese ne Lo straniero di Camus. Non è casuale il soggetto appena citato: gli algerini, nel bene e nel male sono ossessionati da Camus, emblema di molte ambiguità che riguardano questo paese. Sarà l’autore più amato-odiato ma i temi dell’assurdo affascinano Daoud quanto Camus.
In molte interviste l’autore ripete con insistenza che l’unico modo per affrontare l’aggressività dei fondamentalisti islamici è trattarli con ironia e sarcasmo; riderci un po’ sopra è un modo per salvarsi da loro. “Ricorrere all’assurdo non è un esercizio di pigrizia intellettuale ma un vero e proprio diritto”.
Confessiamo che non è facile parlarvi di questi racconti: li potremmo definire allegorie, parabole, apologhi, non c’è una trama vera e propria, narrati in prima persona colloquiano con un tu o un voi, mettendo in discussione il narratore in primo luogo, ma cercando anche di imbarazzare e smuovere i lettori. Attraverso un costante umore nero e uno spirito mordace si mette in scena una concezione della letteratura, a volte, fin troppo seria, rasentando anche una erudizione eccessiva attraverso allusioni e citazioni, per noi italiani, poi, proprio oscure…
Ci richiama un po’ ‘ le conte philosophique’ del XVIII sec. di voltairiana memoria: attraverso il riso pungente si rovescia il significato di quanto si rappresenta, inducendo il lettore alla riflessione.
Non è un caso il richiamo al racconto europeo settecentesco, nato nel momento dell’affermazione dell’individuo, della tolleranza e della libertà: in questi racconti di Daoud si pone il problema della libertà individuale in un popolo in cui è stata sviluppata prevalentemente la dimensione collettiva, soprattutto attraverso la religione islamica.
I temi riguardano alcune idee che ossessionano molti scrittori algerini odierni.
Cosa vuole dire, oggi, essere algerino? come si fa a parlare di ciò che è sempre stato considerato intimo, domestico o vergognoso?Non abbiamo più fronte autori della generazione di prima del ’62, dell’indipendenza cioè,come Kateb Yacine, Mohammed Dib, Rachid Boudjedra, Rachid Mimouni, Assia Djebar che hanno dovuto confrontarsi direttamente con il colonialismo e il neo-colonialismo.
I giovani autori più che con la politica in senso stretto vogliono affrontare la quotidianità, la sessualità e tutti quei temi che agitano le generazioni più giovani nel mondo. E con gli stessi mezzi della comunicazione multimediale: vedi l’esplosione dei bloggers nel mondo arabo.
Daoud sceglie una modalità narrativa inusuale e controcorrente, ma ha voglia di parlare lo stesso di educazione sessuale, di intolleranza religiosa, di sogni e frustrazioni dell’uomo arabo contemporaneo, specificatamente nella variabile algerina, dei cliché entro i quali è costretto a vivere dagli occidentali.
Ma per gli algerini c’è un problema in più: non solo il rapporto con la tradizione religiosa e quella degli antenati ma anche quello della falsificazione della storia, operata in primis dai colonizzatori, ma proseguita alla grande con la generazione che ha combattuto sì nella Resistenza, ma per diventare uno squalo insaziabile poi, perpetuando nella popolazione una perenne condizione di infantilità, unita a tratti depressivi e fatalisti.
Per l’autore, gli algerini non credono in se stessi, tanto sono abituati a non pensare con la propria testa e a stare con la schiena curva, preda dei politici al potere e degli islamici contemporaneamente. C’è in atto una volontà di dimenticare il passato, ma questo li riacchiappa sempre: sia quelli che coscientemente mistificano il passato’ eroico e glorioso’ e si riempiono retoricamente la bocca di parole ormai svuotate di reale significato, sia quelli che semplicemente vogliono scappare perché non ne possono più.
Tutto questo si diluisce in quattro racconti. Il primo è quello di un corridore fondista alle ultime Olimpiadi di Atene:all’inizio l’atleta corre senza obiettivi precisi, forse fugge da un paese inaridito e ormai inospitale,come corrono i poveri inseguendo il benessere, non vuole contare sulla memoria, tuttavia mano a mano che i ricordi affiorano la memoria riprende i suoi diritti su di lui così come hanno diritti gli antenati e i discendenti. Solo allora capisce che non corre per vincere un premio, anche se tutta la famiglia e il quartiere lo stanno seguendo in tv e sarebbero orgogliosi di lui.
Per questo, davanti agli occhi strabiliati dei giudici di gara, la sua non è più la corsa dei 5000 o 10000 metri, esce, infatti ,dallo stadio e non si ferma più.“ Ho corso e ho corso giurando a me stesso di non fermarmi finché non fosse successo : finché non avessi visto qualcun altro che ha fatto il percorso inverso dalla pancia della madre e che corre senza saperlo incontro a me, e che come me ha scavalcato le siepi, ha amato le cicogne fino a seguirle ovunque, di cui metà del corpo è nelle gambe e l’altra metà nella sua storia, e che come me non vuole una medaglia ma il sole intero o giungere solamente alla tenerezza del nido più profondo, costruito sul minareto più alto, mai eretto da una preghiera”.
Il secondo racconto mette in scena un militare riconvertito come piccolo capo d’impresa che riesce a costruire un aereo utilizzando progetti e disegni dell’epoca di Boumedienne - quando il paese era praticato dai paesi socialisti- e materiali di scarto e di avanzo. Ad una fiera è orgoglioso di presentare il suo angelo, Gibril al cherosene, come lo chiama affettuosamente. Sogna successo economico ed allori, anela ad essere acclamato dal popolo algerino come un novello eroe dei tempi nuovi. Non succede niente, nessuno si interessa a lui. Il guasto del paese sembra irrecuperabile: non c’è fiducia nelle possibilità di costruire in proprio. La creatività è stata totalmente consegnata ai paesi che da tempo hanno imparato a solcare i cieli, avvalorando lo stereotipo che “un arabo è comunque più famoso quando dirotta un aereo che quando lo costruisce”.
Il terzo racconto è dedicato ai falsificatori di storia, ai militanti dell’ultima ora, agli usurpatori dei meriti altrui. Si immagina che un anziano ex-combattente decida di scrivere una sua personale storia della Gloriosa Guerra di Liberazione, ma non sapendo scrivere ingaggia un ‘negro’, un ghost writer, perché racconti la sua versione della verità( impresa tentata già da molti altri veri e presunti eroi).Negro nel senso dispregiativo che diamo alle espressioni popolari ‘lavorare come un negro’ ‘essere il negro di qualcuno’ ecc. Anche un arabo, utilizzato e trattato nello stesso modo in patria come all’estero è un ‘negro’. Ma questi, approfittando dell’ignoranza e dell’analfabetismo del mujaheddin, modifica il suo racconto e scrive un altro libro.
Le cose, però, andranno in un altro modo e del libro resta solo la prefazione che lui aveva preparato. Guerra generazionale? Anche…”Da noi, popolo venuto da così lontano per non andare più da nessuna parte, la regola secondo cui gli eroi non invecchiano mai ma muoiono giovani non era quasi mai rispettata. I nostri finiscono sempre con addosso un odore di muffa, rovinano la loro stessa musica e indugiano come guide inutili alle porte del passato[…]i nostri eroi hanno spesso scelto di vivere di rendita . Forse questo Paese sarebbe potuto diventare un vero Paese se quella gente fosse tutta morta l’ultimo giorno della guerra per lasciare la terra ai nuovi nati”.
L’hanno liberata l’Algeria, ma l’hanno anche cannibalizzata.
L’ultimo racconto è, a nostro parere, il più affascinante ,il più complesso e lirico: sembra, a tratti, il grido di chi nega Dio per raggiungerlo più intensamente. Ci sono aspetti contraddittori come contraddittori sono i sogni e le aspirazioni tarpate dei giovani e delle donne d’Algeria: generazioni perdute e stravolte senza più punti validi di riferimento. Ci hanno pensato i fondamentalisti a spezzare la fede ingenua e pura nel Libro, con il loro uso violento, autoritario, sessuofobico e misogino: tuttavia il testo è disseminato di citazioni coraniche e di dotti musulmani illuminati del passato.
L’autore ci descrive in modo allucinatorio la caduta da un aereo di un giovane arabo in volo per gli Usa e l’atterraggio su una isola deserta. Comincerà una vita nuova e si chiamerà Venerdì, sì proprio quello di Robinson Crosue: il racconto intreccia le somiglianze tra il testo di Daniel Defoe e il suo Robinson-Venerdì arabo. E’ un attacco deciso all’influenza negativa di un islam tradizionalista e mortuario e agli stereotipi costruiti dagli occidentali.
La ‘visione’ gli deriva anche da Ibn Tufayl, dotto islamico andaluso del XII sec. che fa nascere il protagonista del suo romanzo Havy Ibn Yaqdhan su un’isola deserta , in cui viene educato dalla natura liberamente,testo considerato un’anticipazione del Robinson di Defoe e dell’Emile di Rousseau.
”Immaginate che nonostante il vostro potere su di me, il destino con cui avete appesantito la mia libertà, nonostante la vostra immortalità di cui non sapete che fare, è la mia storia a riassumere il mondo e non la vostra e sono io che ho preso la parola per non lasciarla più e, solo sulla mia isola, viaggio ancora e sempre mentre voi, poiché siete ovunque, non potete più andare da nessuna parte.”
L’autore ricorda agli occidentali che il loro Venerdì è sopravvissuto e può essere mentalmente libero, mentre sono loro ‘il prigioniero’ ” circondato da ogni parte del mare, con la paura di incontrare i pirati, di annegare sotto folle di migranti[…] perciò alla fine sono io a vincere: arabo, negro, clandestino o ballerino reclutato per assicurare un esotismo manufatto”.
I racconti ,come nella progressione dei gironi danteschi , raggiungono il culmine qui nelle ultime pagine: è dura sentirsela dire…
Meditate,gente, meditate.