Djaili Amadou Amal
Cuore del Sahel
Solferino, 2022
traduzione di Giovanni Zucca
Per le notizie riguardanti l’autrice camerunense rimandiamo alla nostra recensione del precedente romanzo Le impazienti, edito sempre dalla Solferino nel 2021, perché illuminano meglio la comprensione del testo, dal momento che le zone descritte e le esperienze narrate hanno riguardato la scrittrice nella realtà della sua vita.
Se nel precedente romanzo il focus era sulle donne e sulla vita delle classi privilegiate di Marouan, sui costumi poligamici e sulle tradizioni religiose e culturali dei Fulani, etnia di religione musulmana, prevalente nel nord est del Camerun, qui l’attenzione si sposta sulle domestiche o per meglio dire le servette che servono in queste case agiate. L’autrice allarga il discorso sulla condizione femminile del suo paese, introducendo altri elementi: le differenze di classe, con il divario tra zone cittadine e zone di campagna/montagna, cui si aggiungono le diversità linguistiche ed etnico-religiose.
Il nordest del Camerun fu invaso da etnie fulani, praticanti la pastorizia nomade e il commercio, nel XIX sec. fondando un emirato islamico, praticando la schiavitù e arricchendosi coi traffici di merci: le popolazioni locali furono sempre più costrette a retrocedere nelle zone di campagna più remote e fra le montagne. I villaggi erano stati toccati dalle conversioni al cristianesimo, anche se le usanze e i riti tradizionali non vennero mai rinnegati.
Queste zone, in cui imperversa da tempo una siccità costante, che ha quasi fatto scomparire l’agricoltura dei piccoli campi di sussistenza alimentare provocando fame e malattie, sono oggi attraversate dalle bande dei Boko Aram, che utilizzano il nordest del Camerun per i loro traffici di armi e le incursioni verso la Nigeria, il Ciad, il Niger e il Mali, portando terrore e distruzione nei villaggi e recentemente anche nelle città. Cominciano ad apparire nei romanzi africani tematiche legate ai cambiamenti climatici che colpiscono ancora più duramente laddove sono già presenti condizioni di povertà.
Ecco il motivo della partenza di numerose ragazze e uomini da questi villaggi alla vicina Marouan per lavorare nelle case, nei negozi, negli uffici, nei mercati, nelle officine dei ricchi fulani: manodopera pagata a bassissimo prezzo, con orari massacranti, trattata con disprezzo e arroganza, diremmo con un evidente razzismo, anche quando si convertono all’islam per guadagnarsi il pane.
Questa è la storia di Faydé, partita tra le lacrime, osteggiata dalla madre che non vede di buon occhio l’ingresso della figlia in una di quelle case sontuose, a servire tra mille umiliazioni e pericoli. il bisogno però piega questa famiglia, soprattutto da quando il padre è stato rapito durante una sortita dei BokoAram in cerca di proseliti-manodopera e di lui non si è saputo più nulla. Chi se non la ragazza potrà sfamare i piccoli fratelli e sorelle? Ma la madre ha i suoi buoni motivi di temere per il destino della figlia: anche lei è andata a servizio a suo tempo in una di quelle case, costretta a subire uno stupro all’interno della famiglia, era tornata al villaggio incinta, anche se questo non le aveva impedito un matrimonio con un brav’uomo che aveva allevato Faydé come una propria figlia, alla quale non avevano mai detto nulla della sua origine.
Le intenzioni sociali del romanzo non sono sciorinate come in un documentario o in un reportage giornalistico, ma inserite in una trama, oseremmo dire classica da romanzo di formazione, con tanto di storia d’amore contrastato e in qualche modo un happy end alla fine delle traversie.
I personaggi della famiglia in cui lavora Faydé sono osservati e descritti in modo tale da farne emergere il razzismo e il classismo, ma mai senza un qualcosa che possa far presagire un possibile cambiamento. La giovane Faydé comprende che anche tutte le donne della casa, bambine, giovani, anziane sono prigioniere che non possono uscire dai confini preposti, scivolando in un parassitismo sociale e morale.
Le giovani domestiche che ruotano con le loro piccole vite di sopravvivenza in queste dimore formano una comunità, in cui emergono non solo le sofferenze e le umiliazioni, le violenze, ma anche insopprimibili allegrie adolescenziali e voglia di vivere per acchiappare quel po’ che si può onde ripagarsi dei soprusi. Magari qualche goccia d’olio o di profumo sottratta che, giorno dopo giorno, diventa una bottiglia da portare a casa, cibo avanzato ancora buonissimo per chi mangia poco, vesti buttate via che aggiustate ridiventano come nuove da sfoggiare con qualche ragazzo che ti piace… Con sorpresa, Faydé apprende che questo non è rubare.
Questi sono i consigli, le piccole astuzie che le ragazze e i maschi del villaggio che lavorano in città come autisti, tuttofare, custodi delle “concessioni” dispensano alla piccola Faydé che impara ben presto l’arte, presentandosi a casa per le feste di Natale con carne e dolciumi, giocattoli e vestiti, oltre al denaro del pur misero salario.
Mai però contraddire i padroni o rivelarne le malefatte e i vizi al di fuori della casa, perché scatta immediatamente la repressione e il licenziamento: onore e dignità, osservanza dei dettami religiosi e delle regole della casta, dei doveri imposti dai legami famigliari dei clan costituiscono il clou della vita sociale dei fulani. Ma non da un punto di vista spiritualmente autentico: l’importante è salvare ipocritamente le convenzioni, seguendo prescrizioni religiose vissute in modo rigorosamente formale ed esteriore.
Del resto l’autrice non risparmia critiche neanche alle famiglie cristiane, legate alle tradizioni campagnole, che non comprendono veramente i valori di educazione e scolarizzazione per la liberazione delle donne dalle pastoie di un patriarcato duro a morire. Musulmani o cristiani i maschi costringono le donne dentro recinti da cui, per loro, è difficile evadere senza sentirsi in colpa.
La povertà porta non solo le domestiche ma anche le studentesse (Marouan è una città universitaria) provenienti da famiglie non benestanti a prostituirsi per sbarcare il lunario: vendere il proprio corpo non viene considerato lesivo della dignità femminile se serve a procurarsi ciò che la famiglia d’origine o un salario insufficiente non possono dare. Di nuovo denuncia del classismo e femminismo si presentano insieme.
Attraverso lo scandalo della sua storia d’amore con un giovane professore, nipote della prima sposa-matriarca della famiglia in cui lavora, dopo uno scampato stupro da parte di un giovane figlio debosciato, Feydé sperimenta l’umiliazione e la rabbia dei datori di lavoro, ma anche la delusione del giovane di cui è innamorata, che comunque mette al primo posto l’onore del capofamiglia e dei legami parentali in luogo dei suoi sentimenti nei confronti della giovane e battagliera montanara.
Ma niente è senza speranza per l’autrice che sulla sua pelle ha provato il negativo della vita a Marouan: un matrimonio precoce e violento, un altro imposto per motivi di interesse economico della famiglia. Ma non ha mai rinunciato alla voglia di ricominciare e perseguire i propri irrinunciabili obiettivi culturali, di autonomia, di lavoro e di libertà, offrendo l’esempio a chi intuisce che occorre cambiare per andare avanti.
Non sveliamo il proseguo e il finale della storia, banale e convenzionale forse, ma funzionale a quel discorso sul cambiamento necessario che l’autrice auspica nella realtà e che davvero è già iniziato.