Dunia Kamal - La settima sigaretta - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

Dunia Kamal

La settima sigaretta

Poiesis editrice, 2021

traduzione di Barbara Benini

 

Vorremmo ritornare su alcuni testi usciti tra i virus della pandemia nel 2021 ma che hanno acquisito notorietà nel 2022, quando la nostra vita ha assunto una parvenza di normalità. Uno di questi è La settima sigaretta, scritto nel 2013, premiato nel 2015 con il Sawiris (dedicato da un miliardario egiziano ai giovani autori emergenti) tradotto in italiano nel 2021.

L’autrice egiziana, oggi quarantenne, nota documentarista per produzioni audiovisive, scrive il romanzo circa due anni dopo la rivoluzione di piazza Taharir del 2011, per una sorta di bilancio sugli eventi cui aveva partecipato personalmente e sulle speranze ed illusioni che aveva suscitato nel popolo egiziano, sulla natura e provenienza di coloro che erano stati capaci di far cadere Mubarak e Tantawi con le loro manifestazioni e sacrifici. Ma non si creda ad un libello unicamente politico: dentro ci sono le emozioni ed i pensieri della gente, mescolati con la vita privata della protagonista Nadia, che ne fanno un testo originale, una sorta di educazione sentimentale, per approdare ad un approccio alla vita più realistico e meno romantico.

Il romanzo ha inizio con una riflessione sull’infanzia e la prima adolescenza: troviamo Nadia, affidata ad una nonna in una cittadina di provincia e ad un padre, un intellettuale eternamente indaffarato con letture di libri e stesure di articoli. La madre è assente per aver intrapreso un lavoro in qualche paese del Golfo, inseguendo il denaro come la maggioranza degli egiziani nel periodo di Sadat, oltre al fatto che morirà giovane, lasciando al padre, rivoluzionario della prima ora fin dagli anni ’60, l’educazione di Nadia. L’autrice ci mostra il profilo di questa ragazzina solitaria e anche un po’ scorbutica, incapace di piangere, che vive in un mondo tutto suo di fiabe, manicaretti della nonna e del padre, praticamente senza amici, fino all’incontro con Radwa, che diventerà la sua compagna di sempre, anche se poi lei se ne andrà per seguire il suo sogno di diventare chirurgo negli Usa.

Il filone rappresentato da una sorta di diario intimo adolescenziale è disseminato di citazioni musicali ( anche il titolo del libro è dovuto ad una canzone degli Abba) dal rock al pop da Umm Khaltoum ai più noti cantanti tradizionali in lingua araba.

E’ in questa parte che il lettore segue la sua educazione non tanto al sesso, quanto ad un confronto con il modello maschile, rappresentato dai tre uomini della sua vita: a vent’anni con Zeyn, un maturo poeta, cinquantenne e vedovo, poi con Ali, molto più giovane di lei, un eterno bambino che lei cerca di far diventare uomo attraverso il rapporto con una donna più grande; in questa triade anche il padre, per tutta la vita modello da seguire e centro di cauta polemica in una perenne ricerca di autonomia. Andare ad abitare in un brutto minuscolo e claustrofobico monolocale da pagare con il suo modesto stipendio rappresenterà il primo passo per distanziare la protezione paterna. Il tutto vissuto tra i locali del Cairo dove va a mangiare con il padre, le caffetterie famose o anche il paesello d’origine della famiglia: tutto si misura con il divano di casa sua, dove avvengono la maggioranza delle scene sentimentali, le elucubrazioni sulla vita, sull’amore, sui rapporti umani.

Il padre l’aveva condotta bambina a certe manifestazioni represse nel sangue e nella violenza (che lui aveva pagato con il carcere duro) e Nadia aveva introiettato chi erano i buoni e i cattivi attraverso le spiegazioni paterne. Questo non fa di lei una che si getterà facilmente nell’avventura politica e umana di piazza Taharir: solo quando il sangue di un giovane, colpito dalla polizia, macchierà i suoi abiti e il suo corpo, cadrà quel diaframma che la tratteneva dalla vita reale e si getterà a capofitto insieme a tre compagni, due ragazze e un ragazzo, il più politicizzato del gruppetto, in tutto ciò che avverrà in quei mitici giorni fino alla manifestazione imponente per occupare Maspero, il palazzo della radio-tv di stato, alla caduta di Mubarak e Tantawi.

In questo secondo filone narrativo avviene qualcosa di sorprendente: il lettore sta veramente con i protagonisti in piazza, ne segue tutte le paure e le illusioni, ma anche la vita minuta che si svolse in quei giorni. L’organizzazione per mangiare o dormire, i marciapiedi dove ascoltare musica, i luoghi dove si tenevano le assemblee: un ’68 redivivo, che emoziona chi l’ha vissuto…Probabilmente ha giocato, in questo senso la sua attività di produttrice di documentari e interviste per raccontarci non solo i momenti terribili di poliziotti e militari all’opera, dei teppisti pagati dal governo fino all’uso del lancio dei cammelli in piazza per creare panico e fuga, ma soprattutto per evidenziare le reazioni delle persone, l’emotività con cui hanno vissuto gli eventi.

La protagonista, che narra a distanza di anni gli eventi accaduti, fa una riflessione sui giovani partecipanti: la maggioranza di loro (tra cui Nadia stessa) apparteneva alla classe media, provenendo da famiglie che li hanno mandati a scuola, all’università, con esigenze medie da soddisfare con stipendi medi, tirando un po’ la cinghia magari a fine mese, ma sempre con le sigarette d’importazione e i soldi per un libro, un cinema, un cd, una serata al caffè…Questi ragazzi sapevano la reale miseria di molti egiziani? E si chiede Nadia: ma saranno questi a creare il nuovo Egitto? Aveva sempre pensato che la rivoluzione l’avrebbero fatta i poveracci e non gente che fino a ieri palpeggiava le donne sui bus, e che ora si fanno paladini, insieme alle compagne, dei diritti delle donne.

Il fallimento delle rivoluzioni arabe però, sottolinea l’autrice, non vuol dire che non si potesse provare a levarsi di dosso un’inerzia durata troppi anni, incentivata da una repressione fortissima; vuol dire che la strada è più lunga, che ci vuole più tempo per scrollarsi di dosso gli Al Sisi di turno. Nella scena finale troviamo forse la chiave con cui leggere il libro: Nadia si propone una energica e ossessiva pulizia di casa, dopo la fine della storia con il giovane Ali, confeziona un saccone con le cose restate di lui, afferra la valigia e parte per raggiungere all’estero Radwa. Pulendo casa fa pulizia delle sue romanticherie, delle illusioni, del suo attaccamento al divano e al padre idealizzato, ormai morto da tempo e con cui continua a colloquiare. E’ questo che bisogna fare per crescere? Fare pulizia dentro prima di provare a mettere le cose in discussione fuori? Forse con il tempo e un po’ di coraggio interiore l’Egitto sarà un paese bello in cui tornare.

Romanzo della disillusione, come le narrazioni uscite in Europa all’epoca della Restaurazione dopo la sbornia napoleonica, che però non rinuncia ad un po’ di speranza. Scritto benissimo, con l’ausilio della traduzione della Benini, il testo trova un suo respiro fresco e spontaneo, soffre un po’ forse dell’intersecazione non sempre limpida dei due filoni narrativi, ma ‘il pubblico è privato e il privato è pubblico’ è una formula che regge al tempo…

 

 

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