Edna O'Brien
Ragazza
Einaudi, 2020
traduzione di Giovanna Granato
L'autrice del testo non è di origine africana, è una grande scrittrice irlandese di impegno civile che esplorando l'universo femminile, nel corso della sua lunga attività, si è fatta portavoce in particolar modo dei problemi delle donne. In questo caso parla, ispirandosi a vicende reali accadute nella regione nordorientale della Nigeria, di un gruppo di ragazze che sono state rapite e tenute in ostaggio per mesi dai miliziani di Boko Haram; lì subiscono violenze di ogni genere, molte rimangono incinte tra cui la giovane protagonista del romanzo, portavoce di questo strazio umano: Maryam che con la sua piccola Babby scappa nella foresta ed è è l'unica forse che riesce a salvarsi. Infatti molte situazioni rimangono ignote e sotto minaccia di morte alle famiglie delle giovani sequestrate che ne chiedono il rientro a casa.
Il libro, dedicato alle madri e alle figlie della Nigeria Nordorientale, si svolge come voce narrante in prima persona di Maryam, oppure del gruppo che marcia verso la propria infelice sorte. Di ciascuna viene svolta la personale vicenda attraverso il racconto che fanno a Maryam. Lei, la portavoce del racconto davanti a sé stessa e davanti a coloro che incontrerà dopo la fuga, ansiosi di avere un resoconto ( lo psicologo,la famiglia d'origine, i giornalisti, il presidente) conserva una lucidità, nonostante il trauma subito, associata a una componente visionaria tipicamente africana. Difficile a volte è distinguere l'orrore vero da quello sognato o percepito dalla ragazza durante lo svolgersi delle vicende narrate. Poi una frase all'improvviso ti stringe il cuore:“ Saprò mai il linguaggio dell'amore? Saprò mai di nuovo cos'è un focolare?
Tra le sue amiche e compagne di scuola ci sono le ragazze vendute ai nababbi arabi. Orpah è una di loro e finge, come le altre del gruppo di prescelte, di non vedere Mariam al suo passaggio. Facile plagiare delle ragazze nella prima adolescenza, rendendole incapaci di pregare nella loro vecchia lingua, bombardandole con le loro preghiere, i loro proclami, la loro ideologia, il loro odio, la loro presunta santità. L'unico ragazzo con cui scambia una breve amicizia è John-John che nonostante sia sfuggito alle grinfie dei jihadisti, una notte viene inseguito da due di loro e caricato su una moto. Ora si trova lì prigioniero come lei.
Buki, diminutivo di Bukola “benedizione di Dio”è l'amica del cuore; il suo racconto è agghiacciante: una sera sono arrivati nel suo villaggio, hanno messo da una parte i ragazzi, dall'altra le ragazze, in mezzo dentro una fossa gli anziani tra cui suo padre che tentava di riscattare la figlia col denaro. Vengono sepolti vivi nella fossa e i giovani portati via dai soldati.
La setta rastrellava i villaggi reclutando ragazzi che avevano l'età per combattere e tra questi c'è Mahmoud al quale con una breve cerimonia verrà assegnata in sposa propria Maryam, ma sarà solo una breve parentesi, giusto il tempo per la ragazza di rimanere incinta di Babby, nome che le darà lei; il padre, ferito gravemente a una gamba durante un'incursione armata in un villaggio, perderà l'uso della ragione a causa delle nefandezze commesse e che gli hanno comandato di eseguire.
Maryam con la bambina riuscirà, durante un bombardamento nel campo dov'è prigioniera, a fuggire con la figlioletta e con Buki. Fuggono nella foresta di notte e durante una sosta Buki va in giro a cercare tra le piante e le radici qualcosa da mangiare per loro. Torna agonizzante per il morso di un serpente e così Maryam perderà anche l'amica che diventerà il suo angelo guida nel percorso finale del suo calvario apparendole e consolandola.
Il ritorno a casa di Maryam presenta un prolungamento della sua sofferenza perché nessuno nella sua terra è stato esentato dal male: il padre che non si era rassegnato alla scomparsa della figlia, è morto di crepacuore così come l'amato fratello che è stato assassinato. La madre impazzita di dolore la ritiene quasi responsabile di queste morti perché la ragazza andava a scuola, voleva studiare e lì l'avevano rapita.
Senza contare il doppio ostracismo subito da Maryam prima nella violenza subita dai suoi sequestratori, poi dalle cugine e zie che rifiutano sia la bambina che lei, definendola con disprezzo una “sposa della foresta”.
La via crucis della giovane sembra non finire mai: dopo il campo, la fuga, la presunta salvezza e l'approdo a casa dove le tolgono la figlia con la sua passiva accettazione, dopo lo psicologo incaricato “di riportarla in sé”, arriva anche la visita al presidente, accompagnata dalla madre. Davanti a tante madri lì presenti tra cui alcune forse attendevano il ritorno di una figlia, Maryam si sente bloccata: come dire che alcune ragazze erano morte di parto, altre nei vari bombardamenti, altre in campi sperduti e alcune, fatto sconcertante avevano scelto di restare al campo, “almeno lì avevano un pasto al giorno”? Mentre guarda il presidente infervorarsi e proclamare al pubblico un combattimento senza tregua contro il nemico fino all'annientamento, Maryam rimane assorta e pensa: “Lei lì non c'è stato. Non può sapere che cosa ci hanno fatto. Lei vive di potere e noi di impotenza”
Il finale profondamente lirico e sospeso alla speranza sembra una risposta alla tristezza della giovane che osservava il paesaggio durante la sua prigionia: “La notte rimango sveglia a guardare il cielo, un'enorme distesa di cielo viola, una terra meravigliosa che è diventata luogo di dolore. Tante di quelle ragazze morte. Il mesto mormorio degli alberi.” Quando finalmente trova lavoro come insegnante e una casa per vivere con la piccola Babby, Maryam va a dormire serena : “Tutte le stelle si erano ritirate e il cielo era oro, una cupola d'oro da parte a parte, di un lucore così splendente da dare l'impressione che il mondo fosse sull'orlo di una nuova creazione”[...] in quell'istante di autentica speranza e felicità, mi parve che quei raggi si riversassero nelle dimensioni più cupe del Paese stesso”.
Non indugeremo nella cruda descrizione delle numerose efferatezze perpetuate ai danni delle donne e delle famiglie che hanno subito la loro perdita. Ma bisogna leggerle perché sono una testimonianza importante della sofferenza di un popolo e della possibilità di uscirne.
Lo stesso impegno sociale dimostrato dalla O'Brien, in tal senso è stato manifestato da un gruppo di registi italiani del collettivo “Hic sunt leones” autori di un docu-film “African Dreamers- Five true stories” presentato nell'autunno di quest'anno 2020, la cui visione è stata limitata dall'emergenza covid nelle sale italiane ma che ci auguriamo abbia la più ampia diffusione.
Girato nell'arco di tre anni, dal Kenya alla Costa d'Avorio, dalla Tanzania alla Repubblica Democratica del Congo racconta la storia, durante il passaggio dell'adolescenza, di cinque ragazze africane. Cinque giovani donne in cerca di riscatto dalla loro vita misera nelle baroccopoli, vicino alle discariche, facili prede degli uomini perché senza una casa, costrette a vivere per strada. C' è anche quella che pur vivendo in casa e senza grandi privazioni, vuole studiare e viene contrastata dal padre-padrone Masai. Vediamo al lavoro operatori sociali sia africani del luogo che europei, e organizzazioni o enti religiosi che cercano di togliere le giovani donne dalla strada, offrendo loro un alloggio, lo studio e anche un lavoro che le porti a realizzare i loro desideri.
Anche la scrittrice O'Brien ha impiegato tre anni per scrivere il libro in esame che è frutto di una ricerca e di uno studio accurato . Crudo e tenero al contempo è il ritratto di una parte di società, campione di molti paesi dell'Africa in cui si subiscono oppressioni e violenze, - non solo tra le ragazze, si pensi alla piaga dei bambini soldato prestati a una guerra feroce e sanguinaria - che l'autrice con grande coraggio e passione, come ha spesso dimostrato durante la sua vita di donna e di artista, sente il dovere di testimoniare.