Haji Jabir- Fuga dalla Piccola Roma - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 Haji Jabir

 Fuga dalla piccola Roma

 Prefazione e traduzione di Gassid Mohammed

 Edizioni L’Arcolaio, 2018

 

 

 

Il testo risulta scritto in arabo nel 2012 dallo scrittore eritreo, esule in Qatar, pubblicato in italiano nel 2018, ma solo ora ne sentiamo parlare, grazie alla presentazione, un po’ in tutta Italia,  voluta dallo sponsor Fondazione Cassa di risparmio di Forlì. Così va il mondo editoriale…

E’ sempre interessante, per quanto riguarda l’Africa, essere al corrente delle  lingue possedute e parlate dagli scrittori. Dunque il nostro è un parlante tigré ( lingua parlata e non scritta,  da non confondere con la tigrino che è una lingua scritta ), parlante e scrivente arabo, dato che è una delle lingue più usate in Eritrea ( soprattutto a Massaua dove è nato ed è vissuta la sua famiglia ). L’inglese lo parla, come si conviene a ogni giornalista che lavora per la tv Al Jazira .

La famiglia era fuggita in Arabia Saudita quando lui aveva 2 anni e in questo paese aveva compiuto tutti i suoi studi. Nel 2010, quando sembrava che le cose in Eritrea stessero migliorando, dopo 2 guerre di liberazione combattute contro l’Etiopia e numerose fasi di guerra civile tra due gruppi contrapposti di guerriglia, ha provato a ritornare nel suo paese. E’ inutile sottolineare come la sua franchezza e senso critico nei confronti del governo eritreo non l’hanno fatto permanere a lungo : questa volta non è tornato a Gedda, dove ha sempre vissuto, ma in Qatar. L’Arabia Saudita, come altri paesi del Golfo, non si mostra ospitale con gli africani, evidenziando un razzismo istituzionale nei loro confronti, dichiara in molte interviste il nostro scrittore. La ferita dell’esilio e dello sradicamento si è esacerbata ancora di  più e resta il centro della sua opera narrativa.

Il romanzo “Fuga dalla piccola Roma” è il titolo scelto per la traduzione italiana, per richiamare al lettore italiano il passato coloniale del nostro paese: per la bellezza della città e delle sue architetture Asmara veniva infatti denominata  ‘piccola Roma’, ma il titolo originale è “Marsa Fatima”, una via di un quartiere della  capitale, da dove inizia e si conclude, in modo circolare, la storia.

Il testo si compone di 5 parti, corrispondenti ai luoghi dove viaggia il protagonista alla ricerca della bella Selma, la sua amata. Marsa Fatima rappresenta la donna-patria, attraverso la descrizione delle sue stradine, botteghe, il ritmo della vita di quartiere con tutti i parenti e vicini, gli odori, gli appuntamenti con l’innamorata, i timori e le speranze per il futuro: all’ultimo appuntamento Selma manca e il protagonista cerca di capirne le ragioni. Da qui muove la storia. La ragazza la conosciamo solo attraverso il ricordo del protagonista: via via che la vicenda progredisce sempre più le apprensioni per la sorte di Selma si identificano con quelle della patria. Espressioni amorose, romantiche e appassionate, dal tono poetico e di alta retorica si riferiscono ugualmente a Selma e all’Eritrea.

Il traduttore, in una bella ed esauriente introduzione, richiama giustamente i lettori italiani alle analogie con il romanzo “Una questione privata” di Beppe Fenoglio in cui il protagonista Milton, alla ricerca della verità sull’amore della ragazza amata, contemporaneamente ci introduce alla vita dei gruppi partigiani di diversa estrazione e su quelli fascisti, addentrandosi sulle crude realtà della guerra resistenziale.

La parte più interessante in cui ci trasporta lo scrittore è il campo militare di Sawa, di cui noi sappiamo veramente poco. La leva militare obbligatoria, prolungata ad libitum per molti giovani, costretti praticamente a lavori forzati di costruzione e quant’altro, in cambio solo di vitto e alloggio, costituisce il motivo principale di fuga dall’Eritrea. I giovani subiscono un trattamento degradante e disumano, sottraendoli alla ricerca di un lavoro retribuito o tenendoli lontani dagli studi: il governo punisce duramente chi si scappa e si sottrae alla leva, usando gli argomenti che chi fugge non solo è un codardo ma è un traditore che si rifiuta di dare il suo aiuto alla patria che ha fatto la rivoluzione per loro.

Seguono nel racconto gli orrori dello stato degli Shifta, i nomadi che sequestrano le persone a scopo di lucro o trafficano in armi e esseri umani per trasportarle via verso i campi profughi del Sudan o peggio procurano, in combutta con personale israeliano, organi per i trapianti. Chi supera questo finisce nel mega campo dello Shajrab, dove una vaga e inesistente protezione dello UNHCR, vergogna di tutto l’occidente, dovrebbe aiutare i profughi: è una vera città di esuli, accampati in luoghi di fortuna, che cerca di sopravvivere alle avversità e ai soprusi, nella speranza di poter accedere all’Eldorado europeo o americano.

Tutto questo emerge dagli incontri che fa il protagonista in questi luoghi, quasi che ogni volta un Virgilio diverso gli si faccia incontro per aiutarlo a conoscere queste realtà infernali e nella ricerca di Selma.

Bellissimi i ritratti di Kidani, il ribelle del campo di Sawa, che conosciamo per la prima volta con tra le mani, significativamente,  il testo di Orwell” La fattoria degli animali”. O di Amir e Um Auab nel campo di Shajrab: nella tenda dell’anziana donna si ricrea , giornalmente per il protagonista, attraverso il rito del caffè,  con il suo aroma e le chiacchiere intorno al fornello, la patria lontana.

Per il giovane si profila anche attraverso una bionda operatrice italiana la possibilità di una partenza per l’Italia e forse la possibilità di un nuovo amore. Ma la storia, abbiamo già detto, si conclude con il ritorno a Marsa Fatima: riesce a saper qualcosa di Selma, senza riuscire a raggiungerla. Si stanno rincorrendo senza trovarsi mai. ”La mia vita ora sembrava un grosso cerchio, non mi permetteva di incontrare chi volevo, poiché andavamo nella stessa direzione ma distanti e con la stessa quantità di bisogno e nostalgia[... ] Che dolore, e la strada era così lunga! Mi sottraeva le cose invece di concedermele”.

Un libro di amore e nostalgia, di dolore e di speranza, molto poetico e nello stesso tempo duro.

Un’ultima cosa da segnalare: anche il traduttore, un iracheno di Babilonia, ha pubblicato una antologia poetica con L’Arcolaio, “La vita non è una fossa comune”, opera matura e significativa, a metà tra cultura italiana e araba, a cui vale la pena rivolgere la nostra attenzione.

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