Igiaba Scego - Cassandra a Mogadiscio - recensione a cura di Rosella Clavari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Igiaba Scego

Cassandra a Mogadiscio

Bompiani, 2023

 

Siamo in un territorio biografico di memorie difficili da portare e da raccontare ma qui Igiaba Scego, poliedrica intellettuale, supera se stessa, dopo vari approcci a questi temi trattati con i suoi romanzi, attraversando con la pelle, il cuore, gli affetti familiari, la storia della sua terra d’origine, la Somalia e in parallelo anche dell’Italia.

Fa sorridere quando si considera l’unica romana della sua famiglia, non solo per il tenace attaccamento alla capitale italiana ma anche perché le vicissitudini della sua famiglia hanno consentito solo a lei di nascere e rimanere qui affacciandosi sporadicamente in quell’ampio spazio vitale somalo, uno spazio in cui credeva di rimanere, di essere raggiunta dai suoi quando si trovava lì in vacanza da piccola ...ma le cose sono andate diversamente.

La storia viene raccontata a sua nipote Soraya ( figlia del fratello), testimone e anello di congiunzione della tradizione orale che così fortemente impregna il racconto della zia. Durante le video-chiamate con la nipote, è presente anche la mamma della narratrice, cioè la nonna di Soraya, così il ponte che si stabilisce fra le tre donne diventa più solido e finalmente la nonna, per solito molto schiva e riservata, racconta molto di più del suo passato e della storia della Somalia, soprattutto nel periodo coloniale italiano.

Tra le tante cose interessanti narrate, notiamo che ci sono molte incongruenze e contraddizioni nel sistema coloniale italiano che fornisce una basilare istruzione ma non crea possibilità di autonomia alla popolazione somala; elemento negativo che viene amplificato soprattutto durante la sua amministrazione fiduciaria (1950-1960); i genitori della protagonista si rendono conto che pur parlando italiano e amando l’Italia non saranno mai considerati tali e dovranno subire anche la perdita della loro terra con la guerra civile degli anni ‘90 : scomparirà la vecchia Mogadiscio con i suoi odori, i suoi profumi, i suoi colori, le sue abitazioni, scomparirà anche l’archivio dove verrà cancellata la memoria storica del paese. Ora ciascuno avrà il compito di scrivere e ricordare, di diventare un archivio personale viaggiante.

La famiglia, afferma Igiaba, è una parola complicata per noi….Solo l’amore riesce a tenere tutti uniti i componenti di questa famiglia dove il padre ha messo al mondo 12 figli, quasi tutti cresciuti in Somalia dalla zia Halima ( le zie, che figure importanti..) dall’infanzia fino alla giovinezza e in parte tornati in Italia quando Igiaba non era più in grado di riconoscerli. Ma di amarli sì, con tutti i loro sogni da realizzare, alcuni purtroppo infranti da una morte prematura. “Famiglia” è anche quella parola scritta fuori dalle porte del quartiere Shangani a Mogadiscio, per proteggere chi vi abitava dentro. I soldati, gli avventurieri che volevano entrare nelle case per depredare e violare le donne lì dentro, venivano bloccati da quella parola scritta fuori, in italiano.

Impariamo i nomi che spesso pronuncia l’autrice: hooyo, mamma e ayeyo, nonna, nel suo dialogo con entrambe, lei la edo, la zia della situazione. Non bisogna essere madre per amare con quella cura e quella forma di protezione tipica delle zie.

La parola dominante però, che definisce il clima generale del racconto è Jirro. Che cos’è? È la malattia dell’anima di chi ha perduto, casa, patria, familiari. Di chi ha conosciuto la guerra civile, le violenze, le privazioni, Affiora all’improvviso anche in situazioni di benessere, oppure dove non c’è più da temere il male, come un dolore sordo. E allora, occorre una catena per curarci da questa malattia, afferma l’autrice. Una catena di solidarietà, di memoria bella. Lei ha sofferto sul suo corpo, con la bulimia, questa malattia dell’anima e ricorda quando la mamma durante la guerra civile del 1990 scomparve per due anni. Tutto intorno a lei, rimasta in Italia con il padre, continuava a ruotare nell’indifferenza, persino lei non si rendeva conto della guerra civile e non ne parlava con nessuno. Ma il Jirro purtroppo è destinato a farti compagnia a lungo, non è la saudade brasiliana, è molto più forte.

Commovente il ritratto della mamma che, non per sua colpa. ha perso dimestichezza con la lettura e la scrittura. Lei era una pastora nomade, cammelliera. Una donna non priva di saperi “conosce le erbe che curano, sa mungere le capre e sa come sussurrare dolci ninnenanne all’orecchio dei dromedari. Sa vedere dal cielo i segni del tempo. Sente l’odore della pioggia. Sa accendere un fuoco. E cucirsi le stoffe. Sa combinare le parole in versi poetici che lacerano l’anima”. La vera poeta di casa è lei Il padre, dal suo canto, ha dovuto abbandonare il sogno di fare l’astronomo e si è dedicato all’attività di diplomatico e traduttore. Molto incline ad apprendere le lingue straniere come il padre che era stato interprete dei padroni della Somalia, gli italiani. Una triste parentesi che il padre non amava ricordare.

La accomunava al padre l’amore per la letteratura e per il cinema. Numerose citazioni riguardano i film visti insieme a lui tra cui le stupende evasioni con il magico ballerino Gene Kelly, contrapposto all’aristocratico Fred Astaire.

Il racconto familiare ha tante pieghe, risvolti, aneddoti familiari come un racconto da seguire piano piano e di cui non è possibile riassumere i contorni. La passione e la necessità di verità lo animano, catturandoci e invitandoci a riflettere sugli errori della storia, sui conflitti inammissibili. Alla fine del romanzo, Igiaba evoca Cassandra, figura mitica di profetessa inascoltata a causa di una punizione divina, per non aver ceduto alle voglie di Apollo. Fu proprio lei a predire la distruzione di Troia, una città che non c’è più, di cui sono rimaste solo macerie - proprio come Mogadiscio - afferma con dolore l’autrice. E aggiunge, rivolgendosi non solo alla nipote ma attraverso di lei a tutti i posteri del mondo: “la storia può toglierci la casa, ma non la voce; può accecare i nostri occhi, ma mai, mai la nostra memoria”

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