Kaha Mohamed Aden
Dalmar, La disfavola degli elefanti
2020 Edizioni Unicopli
"Dalmar, la disfavola degli elefanti"è un libro dalla trama semplice e lineare che rende la lettura fruibile ed immediata, adatta per qualsiasi età. Può avere una valenza pedagogica, perché fornisce spunti interessanti sulle dinamiche di esclusione ed inclusione che caratterizzano l’orizzonte di incontri tra le diversità con capacità di dialogo interculturale; ma per la recensione del libro mi soffermerò su un aspetto, partendo dalla nota di prefazione in cui l’Autrice presenta il contesto da cui nasce il racconto: la Somalia di inizio anni ’90 diventata “terra di nessuno” dove la violenza, contro chiunque venisse commessa, esplodeva con una ferocia repressa, inaudita. La sorpresa- ci fa capire l’autrice- è che tutti gli orrori sono avvenuti dopo la cacciata del dittatore, proprio da coloro che avevano dichiarato di volerci liberare dal dittatore, contribuendo all’implosione della Somalia e alla guerra civile che ha condotto il Paese a un processo di frammentazione in diverse entità con istituzioni politiche, amministrative e militari autonome.
La guerra civile in Somalia, che raggiunse il culmine fra il 1991 ed il 1994, ebbe all’epoca una vastissima risonanza mediatica, e non soltanto per la violenza degli scontri tra le fazioni o per l’altissimo numero di morti, ma anche e soprattutto perché il feroce conflitto deflagrato nel Corno d’Africa si trasformò in una sorta di piccolo Vietnam per le forze inviate dagli Usa, in primis, ma anche da Italia e Francia.
La drammaticità dello scontro in cui le forze internazionali si trovarono invischiate è rappresentata in un famosissimo film di Ridley Scott, del 1992, intitolato Black Hawk Down, che testimonia in modo eloquente come la “disfatta somala”, subita dalle onnipotenti truppe, sia rimasta impressa nell’immaginario collettivo[1]. Perciò, "Dalmar, la disfavola degli elefanti" è una storia d'autore, un'invenzione affidata alla forma della favola che si compone in un lieto fine, ma si tiene in equilibrio sul bordo oscuro dell'abisso ed è insidiata da ombre e minacce, mentre il suo rovescio, celato o meglio sottinteso, allude al disordine e alla guerra, perciò viene definita "disfavola".
Il racconto dunque possiede due livelli di lettura: quello più immediato, cioè di favola per bambini che ammonisce a “non credere alle favole” creando un nonsense, oppure, quello più profondo che racchiude un messaggio di aspra critica a tutti i regimi che nascono come rivoluzionari-popolari e poi degenerano in regimi totalitari, sfruttando anche la paura, il disordine e l’instabilità che seguono ad una guerra civile.
La letteratura distopica, in una contingenza storica in cui l’azione di oppressione della dittatura aveva fornito, e continuava a fornire invasivi esempi di sé, è assetata di realtà, è votata alla demistificazione come proprio fine essenziale e mai auto-censorio, e si dedica a ritrarre la corruzione, la degenerazione del potere ecc.
Kaha Aden qui riesce mirabilmente in due difficili risultati: il primo - forse perché ogni regime come ogni tragedia contiene in sé i nuclei di tutti gli altri - è di aver compilato una satira esatta non solo di uno specifico totalitarismo, ma di ogni totalitarismo e dittatura, di ogni società del controllo a venire e, in definitiva, di ogni potere politico umano. Il richiamo più immediato a tutto questo è Esopo. Alla favola usata come metafora per raccontare, con immagini, sensazioni e talvolta una morale, gli accadimenti del mondo. Adottando un modus operandi favolistico, la Aden antropomorfizza gli animali quali nomen omen e tramite essi classifica allegoricamente la convivenza in clan di animali; incarnazione emblematica delle sue ambizioni, aspettative, vizi e virtù.
Al centro della dis-favola di Kaha Aden campeggiano le figure imponenti degli elefanti. Non si tratta certo d’una scelta fatta a caso perché, nel nostro immaginario, l’elefante è il simbolo stesso della memoria.
Le ideologie e le rivoluzioni, in tutte le loro forme, sono sempre limitanti. L’opera, con il suo tono fiabesco, ci aiuta a comprendere come solo la costante difesa della memoria, della libertà, della ricerca del dialogo, della diversità, dell’integrazione può garantire da abusi e violenze.
Il libro narra le avventure di un branco di elefanti fuggiaschi da una terra tropicale minacciata da ombre di guerra, e fortunosamente approdati su un'isola sconosciuta, governata da api ed orsi, di cui dovranno superare la diffidenza. Il racconto degli elefanti e degli orsi ha le caratteristiche della favola, ma è ancorato alla tragedia somala, con accenni diretti e indiretti che permettono, a chi legge, di transitare dal fiabesco alla realtà. Come strategia narrativa, l’autrice usa l’ironia non per prendere le distanze, ma per sottolineare il conflitto tra opinioni correnti e valori diversi, invitando a porre interrogativi al passato e al presente, in un orizzonte di futura convivenza pacifica.
Lungo il drammatico cammino in cerca di rifugio, gli elefanti scopriranno la terribile realtà dei massacri, avvenuti nel passato e sepolti nel silenzio, complici gli orsi. Dal momento dell’incontro con questi esseri, il filo della narrazione è aperto con continui riferimenti che richiamano la storia della Somalia, che Kaha Aden intende riportare alla luce, disseppellendo le memorie della guerra civile che ha straziato il Paese, ma che non verrà mai dimenticato: poiché gli elefanti sono il simbolo della lunga memoria, scelti dall’Autrice, appunto, come protagonisti principali della disfavola.
Nell’isola, gli elefanti, grandi e saggi, dimostrano l'importanza della coesione sociale e la necessità della condivisione, il ruolo responsabile dell’autorità, del governo; gli orsi, che non appartengono all’ambiente africano, si riveleranno potenzialmente aggressivi e legati all'appartenenza clanica e proprio per questo debbono essere costretti a ricordare il proprio passato di violenza. Poi ci sono le api, in tregua armata con gli orsi, tenute con una rigida disciplina dalla illuminata regina Bilquis. Quanto agli animali che popolavano un tempo l'isola, sono stati sterminati, perché diversi.
È toccante e nello stesso tempo divertente nel racconto, vedere elefanti e orsi darsi a strane convivialità a base di salmone, mentre discutono accordi di buon vicinato, ed impegnarsi in scambi di cortesie e di protezione reciproca dall’inverno nevoso, stagione estranea agli elefanti africani. Simbolicamente, la Kaha chiude la sua disfavola con il piccolo Dalmar (il futuro) che si proclama felice di andare a casa, avendo ormai accettato la nuova patria, l'isola, che diventa un luogo sicuro, rifugio accogliente dei profughi sfuggiti alla guerra.
Coloro che hanno vissuto il destino dell'esilio sanno quanto sia importante “commemorare la patria perduta è raffigurarsela ricreandola”. Come fa Kaha Aden con la sua Somalia da cui è fuggita adolescente, ricordandola in questo libro.
In un pieghevole per una serata di presentazione del libro c’è scritto: “non volevo che i fatti del 1991 cadessero nell’oblio e credo sia necessario per noi somali confrontarsi con quei giorni di ‘pulizia clanica’ se vogliamo una pace duratura. Così ho deciso di scrivere una storia in cui i principali protagonisti sono degli elefanti, animali simbolo della memoria… sono fuggiti da una guerra incombente … ma quale è il prezzo della pace? Forse l’oblìo”.
Secondo me, questo libro andrebbe utilizzato a scuola per almeno un paio di motivi: innanzitutto con l'espediente della favola, il racconto introduce temi fondamentali per la crescita e la formazione delle nuove generazioni. In secondo luogo considero il racconto un ottimo modo per avvicinarsi alla letteratura 'impegnata' acquisendo consapevolezza della realtà storica raccontata sotto una forma metaforica che ne alleggerisca i contenuti. L’Autrice in questa crudele satira sembra anticipare tutto ciò che è già successo nel passato, e che in alcune parti del nostro pianeta ferito e calpestato, succede ancora e probabilmente accadrà nel futuro.
"Dalmar, la disfavola degli elefanti"" è lo specchio animalesco della società umana; osservarla in questa forma così inusuale non fa altro che suscitare ulteriori domande sulla nostra natura e sul nostro destino.
[1]La trama del film : sono gli anni di guerra civile e carestia, dell’ordinario saccheggio di raccolti e derrate alimentari nelle terre tra lo Scebeli e il Giuba, sulle quali imperversava lo scontro clanico tra i Marehan e gli Isaaq: secondo dati ufficiali dell’ONU, oltre 300.000 persone morirono di fame, mentre un milione furono i profughi.