Matteo Petracci
Partigiani d’Oltremare
dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana
Pacini editore, ristampa 2020
In molti siamo stati colti di sorpresa dalla puntata di Rai Storia, trasmissione culturale condotta da Paolo Mieli, del giorno 24 aprile: veniva presentata la banda partigiana Mario, guidata dall’istriano Mario Depangher, in azione nel maceratese nei pressi del Monte Vicino, in cui furono attivamente presenti una quindicina circa di africani somali, eritrei ed etiopi. La puntata era articolata essenzialmente sulla ricostruzione storica di Matteo Petracci, offerta proprio da questo testo.Il libro, molto atteso, dopo alcune vicissitudini di distribuzione era ricomparso nel settembre 2020, ma è stato con le celebrazioni del 25 aprile del 2021 che ha avuto finalmente risonanza.
Di altri africani o italoafricani già era nota la presenza nella storia della resistenza: citiamo tra tutti la figura di Giorgio Marincola, figlio di un militare italiano e di una somala, caduto nel ‘45 in val di Fiemme e medaglia d’oro della resistenza italiana, la cui storia viene ricostruita in “Razza partigiana” del 2008. Erano emerse poche altre scarne notizie, tutte relegate ad una conoscenza locale, come Italo Caracul un ragazzino undicenne, orfanello libico, detto il Tripolino, al seguito di militari italiani che rientravano dalla ex-colonia ormai perduta, operante in una delle brigate Garibaldi o Alessandro Sinigaglia, figlio di un ebreo italiano e di una afroamericana, una specie di insulto vivente al fascismo militante: nero ebreo comunista... che era anche il titolo del testo che gli aveva dedicato Mauro Valeri nel 2010.
Ma quale è la particolarità del testo di Petracci? L’aver ricostruito la partecipazione non di singoli ma di un gruppo di africani, presenti sul territorio italiano a causa della Mostra delle terre italiane d’oltremare di Napoli del 1940, che decidono di uscire dalla subalternità e degrado in cui li aveva relegati il governo fascista, per darsi una possibilità di riscatto, un passaggio dall’essere oggetto di storia, osservato dalla rete di uno zoo, all’esserne soggetto consapevole.
Nel maggio 1940 circa 60 africani, etiopi, eritrei, somali furono prelevati e condotti a Napoli in una sorta di villaggio costruito alla Mostra d’oltremare che doveva mostrare a tutti la potenza coloniale civilizzatrice dell’Italia nei confronti del Corno d’Africa e delle altre colonie. L’intento propagandistico doveva servire anche per gli africani, per convincerli che resistere agli italiani era inutile e dannoso: i padiglioni mostravano la tecnologia raggiunta dall’Italia, di cui avrebbero potuto beneficiare i nativi stessi se avessero smesso di remare contro. Non a caso tra gli africani presenti molti erano di rango elevato, trattati molto meglio degli altri quanto ad ospitalità, perché era su di loro che si contava per convincere quelli rimasti a casa delle meraviglie che avevano visto. Il resto del gruppo era formato prevalentemente da artigiani e contadini, molti con al seguito mogli e figli, che avevano il compito di collaborare alla manutenzione del villaggio “tipico” di capanne di fango e paglia, separati dai visitatori da una rete alta circa 2 metri.
Le leggi razziali erano già in atto e si doveva evitare qualsiasi mescolanza. Praticamente era uno zoo umano, con tanto di piante dell’Africa orientale trasportate via mare e trapiantate, animali esotici e capre e galline che servivano da pasto per gli indigeni, che vivevano la loro vita esposti agli sguardi di tutti. L’idea non era certo nuova, già Londra, Parigi, Berlino l’avevano fatto, ma il sogno durò poco: ormai anche l’Italia stava per entrare in guerra.
Il gruppo era sorvegliato da una cinquantina di ascari che entrarono nel Pai (Polizia Africa Italiana) sotto il comando di due italiani. Scoppiata la guerra, impossibilitato il ritorno via Suez, la preoccupazione del rientro in patria degli africani era l’ultimo dei pensieri del governo di Mussolini...Furono lasciati a marcire quasi 3 anni in un villaggio finto, costruito per durare qualche mese e che invece dovette affrontare inverni freddi, pioggia, mancanza di riscaldamento e cibo: le strutture non durature si degradavano facilmente e le rimostranze di quegli uomini avevano come risultato solo risposte negative e razziste: di che si lamentavano quei pigri, insaziabili, rissosi negri che erano pure pagati, oltretutto ingrati per essere stati trasportati nell’Eden (di cui non avevano peraltro visto nulla) .
Si decide, nel 1943, di trasferirli a Treia nelle Marche, a Villa Spada, già prigione d’internamento femminile, con al seguito sempre gli ascari, dove ebbero però una maggiore possibilità di contatto con gli italiani.
Cosa indusse un gruppo di loro a prendere la via della montagna? L’occasione fu la venuta della banda di Mario, dopo l’8 settembre, a caccia di cibo e munizioni: alcuni decisero di scappare con loro e affrontare la vita durissima dei partigiani, compreso qualche ascaro. In fondo lì avevano un tetto da cui nessuno poteva cacciarli, non temevano di essere internati perché non erano ebrei e potevano aspettare la fine della guerra per tornare a casa. Il miraggio della libertà? Un pizzico di avventura? Il sogno possibile di un mondo diverso? La riprova che intendevano fare sul serio è il fatto che ritornarono con la banda e rivelarono loro dove erano le armi e le munizioni, che erano il principale assillo dei partigiani. Altri africani si aggiunsero ai primi che erano fuggiti. Dopo ragionevoli sospetti furono accettati dal comandante Mario Depangher, un combattente internazionalista che aggiunse degli africani al già variopinto gruppo formato da italiani, croati, serbi, britannici, ebrei: una babele linguistica, etnica e religiosa. Anche se è ragionevole pensare che tutti parlassero almeno un po’ l’italiano. Vi si trovavano anche due donne etiopi, sciarmutte le chiamavano gli italiani, scelte per il sollazzo dei maschi africani, costrette alla prostituzione con l’inganno, come viene spiegato nel libro. Per molti africani fu una scuola di ideologie libertarie e di giustizia sociale. Fu una grande sfida per tutti superare un po’ per volta incomprensioni, pregiudizi reciproci e razzismi in nome di un ideale superiore, una prefigurazione di quella libertà per la quale tutti combattevano.
Naturalmente il grosso degli ospiti di Villa Spada non si mosse di lì, soprattutto le famiglie con bambini, ma ormai condividevano con gli altri italiani la paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti e delle restrizioni alimentari.
Non tutti restarono stabilmente nella banda di Mario, alcuni transitarono, per motivi che non sappiamo precisamente, in altri gruppi marchigiani, ma restando sempre in contatto e qualche volta ritornando dal Depangher.
Molti furono uccisi ed ebbero tombe individuali come Abbabulgù Abbamagal, etiope detto Carlo, nel cimitero di San Severino Marche, altri ebbero lapidi commemorative, altri ancora nelle fosse comuni. Qualcuno tornò in Africa come il somalo Aden Sciré e fece carriera in patria nelle istituzioni pubbliche, prima della dittatura di Siad Barre, o l’etiope Addis Aga, divenuto nel suo paese un eroe nazionale.
Il bello del libro? Ha un inizio da detective story: tre fotografie con i nomi scritti sul retro, riprodotte nel testo, indagini a tappeto, durate anni, negli archivi Anpi, interviste con testimoni oculari, alla ricerca di riscontri, lettura di lettere e memoriali, di documenti ufficiali e spacci ministeriali, a cui solo da relativamente poco si ha accesso. Una indagine ricca e solidamente fondata, condotta da uno storico meticoloso. Ma il fascino sta nel capire che per lo scrittore la storia di ieri è collegata al razzismo di oggi: ricordiamo che Macerata, la città dove vive Petracci, nel 2018 è stata teatro di un raid a sfondo razzista da parte di Luca Traini, simpatizzante di estrema destra, che da una macchina sparò, ferendo sei africani a passeggio nel centro. Lo spirito del libro e dello storico si percepisce nelle interviste in cui spiega come lui, amante della montagna, parli di questi argomenti storici ai partecipanti di trekking organizzati per ricercare e visitare i luoghi dei partigiani del maceratese, non solo per non dimenticare, ma per aprirci all’oggi, a cosa significa oggi la presenza dei “diversi” da noi.
L’autore è riuscito ad intrattenere rapporti con figli e nipoti di alcuni protagonisti di cui si parla, proprio per continuare a coniugare la storia di ieri con quella di oggi, promettendo altre indagini e racconti.
Un libro di storia che si legge come un romanzo.