Miguel Barnet - Biografia di uno schiavo fuggiasco - recensione a cura di Giulia De Martino

Miguel Barnet

Biografia di uno schiavo fuggiasco

Quodlibet Storie, 2024

traduzione di M.Piazza e G.Lapasini

revisione di Elena Zapponi

 

 

 

La recente riedizione di questo testo, uscito a Cuba nel lontano 1966, edito dall’ Accademia delle Scienze, rielaborato nella traduzione da Elena Zapponi, curatrice di questa edizione, ci offre uno spaccato culturale della Cuba degli anni '60, attraverso un articolo scritto dallo stesso Barnet nel 1988. Ci parla del legame tra i cimarron ribelli e le lotte per l'indipendenza dalla Spagna, dell'intromissione degli Stati Uniti d'America negli affari di Cuba e della rivoluzione castrista.

Soprattutto chiarisce meglio cosa ha voluto fare l'autore intervistando per anni l'ex-schiavo Esteban Montejo, ormai più che centenario, affascinato dal modo di procedere del grande antropologo messicano Ricardo Pozas che lo aveva fatto con gli indios; spiega inoltre come ha voluto costruire una inchiesta etnologica, contaminandola con il genere testimonial, conferendo, anche allo scritto un'aria da romanzo poetico. L'osservazione partecipata dello scienziato (giovanissimo all'epoca della conoscenza del cimarron, ma destinato a fare carriera) arriva quasi ad una sorta di identificazione tra i due, che ha incantato i più e fatto storcere il naso ai puristi. Giustamente in questa edizione si è abbandonato il termine autobiografia, presente in quella di Einaudi, in favore di biografia, scritta però in prima persona, nata da una collaborazione scientifica e umana ad un tempo e come tale presentata dall'autore nel 1966.

Per comprendere l'eco della rapida diffusione del libro, occorre riandare con la memoria all'innamoramento rivoluzionario per Cuba (per il Che più che per Castro) esploso durante gli anni '60-'70, quando i giovani europei partivano per aiutare economicamente la rivoluzione partecipando al taglio della canna da zucchero, unica risorsa dell'isola.

Proprio in quegli anni l'opera di Barnet ebbe un successo straordinario. Non solo attrasse giornalisti e scrittori vicini al comunismo come Italo Calvino (che fece una prefazione per l'edizione Einaudi del 1968) o come Alejo Carpentier, scrittore cubano propugnatore del realismo magico della letteratura latino-americana, ma anche intellettuali come il drammaturgo Peter Weiss, autori popolari come Graham Green, saggisti-poeti come Henzensberger che lo tradusse entusiasta in tedesco. Anzi proprio dalla sua traduzione ha tratto ispirazione il musicista tedesco H.Henze, che negli anni '70 aveva conosciuto Barnet e la musica cubana dei santeros di origine yoruba, per comporre un recital di tre musicisti e un baritono che metteva in scena la storia del cimarron Esteban Montejo.

Dunque, cosa ha di speciale questo testo?

Di autobiografie di ex-schiavi ne esistevano negli Stati Uniti già da metà '800. Schiavi divenuti liberi perché scappati al nord dal sud schiavista, come Frederik Douglass o come Solomon Northup, liberatosi attraverso processi legali ; oppure che hanno comprato la propria libertà come Harriet Ann Jacobs e Olaudah Equiano. Tutti costoro avevano avuto modo di imparare a leggere e a scrivere quando erano stati sotto padroni più umani e perciò poterono scrivere la propria storia e diventare attivisti della lotta contro la schiavitù.

Anche la cinematografia ci ha regalato immagini della vita ma soprattutto delle sofferenze e umiliazioni degli schiavi africani e della tratta atlantica. Chi non si è commosso con il serial statunitense Radici o con i film Mandingo, Amistad, Beloved, 12 anni schiavo, Harriet Tubman, etc.

Nessuno tuttavia ha rappresentato la vita nelle montagne e nei boschi, come nel testo di Barnet, parlando di schiavi fuggiaschi, i cimarron, che preferirono una dura esistenza, ai limiti della sopravvivenza, alla vergogna di essere schiavo. Il termine cimarron sembra indicasse in origine un animale domestico come il cane o il maiale, il bue o il cavallo che, scappati, diventavano selvatici. Ma è solo una delle tante ipotesi sull'origine della parola. Prendendola per buona, a scappare cominciarono dapprima gli indios originari che fuggivano dalle piantagioni o dalle miniere, prima di essere sterminati da malattie, poi gli africani, importati dagli spagnoli perché considerati più resistenti. Alcuni cimarron si raggruppavano in piccoli nuclei, altri, come il nostro Esteban Montejo, in perfetta eremitica solitudine, instaurando un rapporto magico con la natura, memori delle tradizioni culturali animiste della maggior parte degli schiavi provenienti dall'Africa occidentale.

E' proprio la solitudine in cui è stato per tanti anni a determinare il tipo umano rappresentato da Montejo: riservato ma non asociale, tratto da lui conservato anche dopo la fine della schiavitù e il ritorno al consorzio umano. Lui era un criollo, cioé nato nell'isola e non direttamente proveniente dall'Africa, non aveva conosciuto i suoi genitori, venduti altrove forse: si mostra risentito quando sente un po' di disprezzo nell'appellativo cimarron usato anche dagli altri che erano restati schiavi nei barracones (alloggi degli schiavi) mentre lui combatteva con la dura realtà del monte; quest’ultimo nome, senza altri appellativi, rende l'idea della concezione magico-sacrale attribuitagli da Montejo.

Con la libertà dalla schiavitù, abolita nel 1886, le cose in realtà non sembrano cambiare di molto: Montejo comincia a lavorare come salariato, peraltro pagato molto poco, negli zuccherifici, svolgendo diverse mansioni, oltre che a sudare, quando capitava , nelle piantagioni, a sarchiare i terreni o a tagliare la canna. I ritmi erano infernali, le punizioni frequenti, il riposo insufficiente, sempre nei barracones che diventano veri e propri villaggi, il cibo pagato nelle mense a caro prezzo.

La descrizione diventa straordinaria quando parla della vita nei barracones sia prima, che durante e dopo la schiavitù. Non dominano quelle immagini di frustate e stupri che abbondano nei film ma piuttosto la quotidianità degli uomini e delle donne, dei vecchi e dei bambini, alle prese con preparazioni di cibi, di feste, di riti religiosi tradizionali o sincretici. Una miniera di informazioni per etnologi e antropologi riguardo i legami tra la cultura e la spiritualità cubana e quella africana.

Ormai dal 1500 sono tutti cristianizzati, non proprio per loro volontà, ma dietro i santi s'intravedono gli orisha, ossia le divinità delle mitologie tradizionali dei popoli dell'Africa occidentale, in modo particolare yoruba. Le feste hanno i loro officianti organizzati e si esprimono soprattutto attraverso la danza e i piatti tradizionali innaffiati da abbondanti libagioni. Anche durante la schiavitù troviamo nei quartieri per i neri, negozietti gestiti da cinesi(!), locali di ritrovo, rivendite di prodotti di piccoli orti nati intorno alle baracche. Nei racconti di Montejo, non sembra essere troppo differente la vita nei barracones tra prima e dopo la schiavitù o prima e dopo l'indipendenza.

Descrive minuziosamente la vita dei bambini, vittime non solo dei padroni ma anche delle frustate “educative” delle madri, tuttavia in grado d'inventarsi mille giochi con gli oggetti più impensati.

Certo Barnet ha modificato e messo in cronologia le confidenze di Montejo, effettuando un vero e proprio montaggio per semplificare le ripetizioni dovute alla memoria a volte confusa del centenario o per chiarire meglio al lettore ciò di cui si sta parlando. Ma non ha censurato le opinioni del cimarron sia nei confronti delle guerre d'indipendenza, i giudizi sui vari capi, sul banditismo, sia nei confronti della piccola o grande borghesia fondiaria e mercantile che nasce tra i bianchi spagnoli o i creoli, lasciando un grande margine alla sua individualità e alle sue elucubrazioni mistico-magiche.

Tuttavia c'è qualcosa che il lettore contemporaneo non riesce facilmente a digerire: il suo machismo, tradizionale sì, ma anche rinverdito, in certo qual modo, dai moderni eroi ex-guerriglieri, i barbudos. La concezione della donna è puramente sessuale, le donne che incontra le chiama pollastre, buone solo da stendere in un prato o per starci insieme giusto per poco tempo. Si sposa solamente in tarda età per convenienza e resta comunque delle stesse opinioni di prima. Quando era nei boschi poteva profittare più raramente del sesso, ma quando ritorna in libertà, sostiene, non c'è niente di meglio che fottere e bere per fare festa...

Il libro comunque incanta per la comunione che lui mostra, durante il marronage, con gli alberi, con gli uccelli, di cui sembra percepire il linguaggio, le albe e i tramonti, la pioggia o il sole. Intravede nella natura un sentore divino, sembra che gli animali del bosco gli siano più vicini degli uomini, di cui spesso non ha una buona opinione, ma dai quali sembra contento comunque di essere tornato, anche per partecipare all'ultima rivoluzione di cui è stato testimone nella sua lunghissima vita.

La presente ristampa dimostra che il fascino del libro resiste al tempo e oggi lo possiamo leggere e capire meglio dei lettori degli anni '60, senza le fanfare dell'entusiasmo per una rivoluzione abortita per tanti motivi, non tutti, a dire il vero, dipendenti dai cubani stessi.

 

 

 

 

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