Youssef Fadel
Ogni volta che prendo il volo
Francesco Brioschi editore, 2019
traduzione di Cristina Dozio
Youssef Fadel, romanziere e drammaturgo marocchino, ha conosciuto le carceri riservate dal re Hassan II ai suoi oppositori politici nei duri anni dal 1960 ai primi del ‘90, non a caso qualificati come gli anni di piombo del Marocco. In carcere, uccisi o sepolti vivi in prigioni sconosciute non finirono solo gli oppositori che attentarono, fallendo per ben due volte, alla vita del re, ma anche militanti di partiti d’opposizione, di sindacati, artisti, studenti e quanti cercarono di combattere il regime oppressivo e autoritario di Hassan II.
Infatti “Ogni volta che prendo il volo” contiene questa dedica ai martiri di tutte quelle prigioni segrete: “a chi è ancora vivo e a quanti sono morti”; i marocchini appresero solo molto più tardi, soprattutto con l’avvento al trono del figlio di Hassan II, degli orrori avvenuti nelle prigioni del deserto.
Il testo non è a sfondo autobiografico come, per esempio, quello di Tahar Ben Jelloun “La punizione”o una ricostruzione storica come “Una prigione nel deserto” di Ahmed Marzouki.
Il romanzo si fa notare per un tono costantemente onirico e lirico, espresso in un linguaggio ridondante, a volte talmente pieno di parole che il lettore si perde, come i personaggi si perdono dietro ai ricordi condensati spesso in immagini visive allusive piuttosto che in particolari realistici.
E’ un libro a più voci, in cui ciascun personaggio sa solo quello che vede o che sente senza accedere mai ad un quadro d’insieme che chiarisca le azioni o i pensieri di tutti. Romanzo corale che tuttavia ruota intorno ad una straordinaria storia d’amore: quella di Zina e dell’aviatore Aziz, scomparso la notte delle sue nozze, presumibilmente per aver partecipato al raid aereo che avrebbe dovuto uccidere il re nel suo viaggio di ritorno in Marocco.
Zina lo cerca insistentemente per più di 18 anni, ogni volta che una traccia possibile potesse condurla se non a lui , almeno alla verità su quanto era successo.
Scorrono sotto gli occhi del lettore i tristi quadri della vita di Zina e di sua sorella Khatima, emblematici di una condizione femminile subalterna che diventa ancora più problematica se accoppiata alla povertà. Khatima si prostituisce per poter garantire alla sorellina Zina una possibilità di istruirsi e di poter mangiare tutti i giorni. Alla fine ha la fortuna insperata di ereditare da un’anziana proprietaria, sola e dimenticata dal parentado, la conduzione di un bar ad Arzou, un paese di montagna alle porte del Medio Atlante, vicino alla base aeronautica di Khenitra.
Anche di Aziz, che conosciamo all’inizio del romanzo di stanza alla base, apprendiamo la drammatica storia della sua infanzia ed adolescenza fino all’incontro con un prete cattolico (singolare personaggio alla ricerca di un senso religioso estremo) che lo porta nel suo collegio, dove riceve un'istruzione e la possibilità di raggiungere il suo sogno di volare.
Ma seguiamo anche le vite di Bengasi e Baba Ali, i carcerieri di Aziz, aguzzini e strumenti nelle mani del potere, becchini di circa 400 morti, rinchiusi in una prigione sotterranea ricavata nelle cucine di una vecchia e peraltro turistica casbah di Telaouet, dove si erge il palazzo del pascià El Glaoui . Presi però da rimorsi e incubi, cercano di sottrarsi alla punizione divina sognando i mezzi per un riscatto che non arriva mai.
Tanti sono ancora i personaggi che affiancano i protagonisti principali in un andirivieni temporale e spaziale difficile da seguire, il cui cambio avviene anche a distanza di poche righe, generando qualche faticosa rilettura da parte del lettore, che non molla però la presa : riuscirà la bella Zina a ricongiungersi con l’amato marito?
Aziz è nervoso la sera delle nozze, quando comincia a dire che deve tornare alla base, anche se è in congedo matrimoniale. Deve fare, per gratitudine, qualcosa per il suo comandante che lo ha aiutato nella carriera, comportandosi come il padre che gli è mancato.
Ma non tornerà quella sera, né le sere seguenti degli anni a venire. Inutili per Zina, le rimostranze e richieste di informazioni a commissariati di polizia e ministeri. Una colpevole e impietosa burocrazia le nega ogni speranza di sapere.
A incuriosire il lettore, offrendo uno spunto thriller, è un misterioso biglietto recapitato da un estraneo nel bar che Zina ormai gestisce con la sorella. Comincia una specie di caccia al tesoro, in cui gli sconosciuti che Zina incontra nella sua ricerca diventano via via metafora della sua condizione perenne tra sconforto e speranza.
C’è una mescolanza di luci ed ombre che attenuano la crudezza di certe rappresentazioni, in modo particolare nelle descrizioni del personaggio di Aziz, le cui azioni, pensieri e propositi sono sempre allucinati e metaforici. Parla con gli unici esseri viventi che trova nel suo ambiente di prigionia, alcuni malefici come topi e scorpioni, altri più positivi come uccelli e presunte farfalle e anche una certa cagnetta randagia accolta dai carcerieri nei locali del vecchio palazzo, che si infila nella sua cella dal varco - tra la fine della porta e il pavimento - che serve per passare quel po’ di cibo concessogli. Non vede esseri umani per circa venti anni e la cagnetta svolge anche un ruolo chiave per la sua sopravvivenza, nel momento di una grave malattia da cui viene colto; così grave da far pensare ai suoi aguzzini che ormai l’ultimo prigioniero presente nei sotterranei sia morto. Le notizie il lettore le apprende perché l’autore dà voce anche alla cagna, protagonista di alcuni capitoli: il pensiero dell’animale esprime tutto il suo pessimismo sulla presunta intelligenza e bontà degli uomini.
Quando il buio della prigione si squarcia e, compromesso nel fisico, mente ed animo, Aziz esce, la luce inonda le ultime pagine. Non riveliamo il finale, diciamo che si apre alla speranza e alla gioia che si leggono nelle facce dei protagonisti.