Abdulrazak Gurnah
Voci in fuga
La nave di Teseo, 2022
Traduzione di Alberto Cristofori
Siamo alla terza traduzione in italiano dell’autore anglo-zanzibarino della casa editrice La nave di Teseo che si è aggiudicata la pubblicazione di gran parte della produzione di questo scrittore. Notizie sull’autore le abbiamo date nelle recensioni dei precedenti Paradiso e In riva al mare, a cui rimandiamo per non ripeterci.
Il romanzo segue il filone già tracciato della Grande storia nelle piccole storie: sono qui seguite le vicende drammatiche della perdita della Deutsch Ostafrika da parte della Germania nella Prima Guerra mondiale, con incursioni nei primi del ‘900 e l’accenno al primo genocidio moderno della storia, quello degli Herero, dei Sana e Namaqua nella Namibia tedesca. La Grande Storia s’intreccia con le vite di tre personaggi, due giovani e una ragazza, travolti dall’accavallarsi degli avvenimenti coloniali e bellici, ma non annientati, come succede del resto agli altri personaggi del libro, impegnati, ciascuno a suo modo, non solo a sopravvivere, ma anche a inseguire sogni, desideri, soddisfazioni professionali, amori e affetti, cercando il proprio posto nel mondo.
Si è parlato, a proposito, dei personaggi di Gurnah di eroismo del quotidiano: tanti sono gli episodi dedicati alle chiacchiere tra amici, sorseggiando caffè o tè, ai pettegolezzi tra giovani donne, quasi sempre recluse in casa, al confezionamento dei pasti tradizionali o degli abiti, alle maniere escogitate dai mercanti ed artigiani su come approvvigionarsi in tempi di guerra o durante il passaggio della proprietà coloniale dai tedeschi agli inglesi. E’ un romanzo sulla resilienza degli africani, sulla resistenza attiva alla colonizzazione, alla guerra, alle difficoltà della povertà.
Ma se in Paradiso gli eventi bellici erano distanti, le voci su uccisioni, incendi di villaggi, sulla ferocia delle Schutztruppe ( gli askari africani arruolati volontariamente o a forza dai tedeschi) sulle punizioni esemplari cui venivano sottoposti i nativi sembravano dicerie ai personaggi impegnati ad addentrarsi nelle foreste del Congo, in Voci in fuga tali eventi balzano in primo piano perché Ilyas e Hamza, i due giovani protagonisti, sono coinvolti, anche se in modo diverso, nelle truppe degli askari.
Uno, Ilyas, rapito da un askaro e poi liberato perché troppo giovane, viene inviato presso una fattoria, dove impara il tedesco e viene mandato a scuola: conosce il lato buono della Germania, amante del lavoro e dell’istruzione. L’altro, venduto dal padre per debiti contratti per povertà estrema scappa dal padrone e arriva proprio in bocca alle Schutztruppe, ne conosce la ferrea disciplina, ottenuta con la violenza, le privazioni ed umiliazioni allo scopo di creare un reparto di guerriglia, pronto ad ogni atrocità. E sottolineiamo che in genere fu una guerra di africani contro altri africani, non solo perché assaltavano villaggi inermi di persone innocenti, ma anche perché francesi e inglesi arruolavano i colonizzati per combattere al posto loro. Sullo sfondo la povertà di molte famiglie, da cui speravano di sfuggire in cambio di un po’ di paga e considerazione da parte dei comandanti, un qualcosa di cui andare comunque fieri.
Il secondo, Hamza, dopo un duro periodo di addestramento, diventa attendente personale, un servo in pratica, di un Oberleutnant, aggressivo ma ambiguo nei suoi confronti: era stato avvertito dai suoi compagni di squadra che a certi tedeschi piacevano i maschi giovani. Il comandante tedesco si sforza di insegnargli la lingua, oscillando tra pulsione erotica e razzismo. Nonostante sia convinto, come dichiara più volte al giovane, che solo con il terrore si possa ottenere ubbidienza dai primitivi africani, gli mette in mano un libro di poesie di Schiller, che avrà un seguito nel dispiegarsi della trama.
I due giovani reagiranno diversamente al colonialismo tedesco: Hamza, colpito quasi a morte da un ufficiale tedesco, sarà affidato alle cure di una clinica missionaria e si allontanerà dal clima ideologico totalizzante del colonialismo, Ilyas resterà convinto della bontà della Germania e sarà, in seguito, intrappolato anche dal fascino del nazismo e nelle ultime pagine sapremo il suo destino. Il punto di incrocio tra i due avviene in una anonima cittadina costiera, dove entrambi, in tempi diversi, approdano, tramite il personaggio del contabile Khalifa, un afro-indiano che finirà per accogliere la piccola sorella di Ilyas, Afiya. Era stato proprio questo personaggio ad aprire il romanzo, facendo credere al lettore che Khalifa dovesse essere il protagonista. Solo dopo la saga di Ilyas, attraverso l’amore di Hamza e Afiya il testo si concentra sulla vita passata e presente dei due giovani, aprendosi alla luce e alla speranza e regalando ai lettori finalmente una direzione alla narrazione.
Come si vede il romanzo è policentrico, anche se questo all’inizio disorienta un po’ il lettore, ma serve all’autore anche per dischiuderci un paio di elementi che sono una costante dei suoi romanzi. Uno è il gusto per la narrazione delle vite degli sradicati, di chi è costretto a partire per povertà e/o mancanza di libertà, di chi si deve abituare ad altre lingue, altre culture e costumi, trovando in ciò un senso di sfida che sorregge nei momenti bui di scoraggiamento; oppure per le donne la possibilità di ritagliarsi un proprio spazio, pur nelle ristrettezze della libertà personale, combattendo contro pregiudizi, che vogliono le donne sottomesse e ignoranti, come è il caso di Afiya. Del resto è il riflesso dell’esperienza stessa di Gurnah.
Il secondo elemento è la voglia di rappresentare il globalismo culturale ed economico rappresentato dall’Africa orientale, ponte tra l’oriente yemenita, indiano e persiano, il mondo arabo e quello occidentale, precedente alla globalizzazione attuale. Protagonisti di questa fase sono stati i mercanti africani, arabi, indiani e mediorientali: non a caso a spingerlo a ciò è proprio l’origine dell’autore, collocata a Zanzibar, il prototipo di questo melting pot economico-culturale, interrotto bruscamente proprio dalla rapacità del colonialismo che ha sostituito ogni forma di economia locale.
Ma ancora un altro dato caratterizza questo romanzo: far emergere la durezza dell’impero coloniale tedesco, di cui si è sempre parlato poco, forse perché rispetto agli altri è terminato con la Prima Guerra mondiale e forse perché se la Germania ha fatto autocritica per il massacro degli Herero, ha poi passato un po’ sotto silenzio quelli avvenuti in Africa orientale. Questo spiega la fine un po’ affrettata del romanzo, collocata negli anni ’60, per aprire uno squarcio su quegli africani che si arruolarono, scegliendo anche di affiancare il nazismo o che comunque vollero restare a vivere in Germania; testimonianze se ne trovano negli archivi, cui l’autore ha fatto ricorso.
Ciò non vuol dire che la rappresentazione dei tedeschi è tutta volta al negativo: la capacità dell’autore di descrivere a tutto tondo il carattere dei suoi personaggi ci rende con pochi aggettivi ed espressioni quasi neutre, per esempio, il tormento e il malinconico struggimento di un personaggio quale l’Oberleutnant di Hamza che spiazza un po’ il lettore. Anche altre figure di tedeschi presenti nel testo recano questa impronta, che li rende umani al di là delle loro azioni riprovevoli. L’equidistanza dell’autore coglie il meglio e il peggio degli europei e degli africani…
Su tutto domina l’abbandono del lettore al racconto che quasi ipnotizza nel suo altalenare tra spazio e tempo, un ritmo che salva il romanzo anche nei momenti meno riusciti, grazie alla magia del linguaggio usato.