Scholastique Mukasonga
Kibogo è salito in cielo
Utopia, 2022
Traduzione di Giuseppe G. Allegri
Ringraziamo la pressoché neonata casa editrice Utopia, che ha visto la luce proprio nel buio della pandemia, ad averci riportato una scrittrice rwandese, pubblicata circa 10 anni fa da 66thand2nd con Nostra signora del Nilo, da noi a suo tempo recensito.
La verve narrativa e l’ironia continuano ad essere la modalità con cui l’autrice affronta temi scottanti come la guerra civile in Rwanda o il colonialismo, a cui aggiunge questa volta la religione o meglio il divario tra la religione tradizionale e quella cristiana e l’ambiguo rapporto tra cristianizzazione e colonialismo.
Il testo è breve (circa 120 pagine) e scandito in quattro capitoli: il primo porta il titolo di Ruzagayura ed è dedicato alla penetrazione coloniale prima tedesca e poi belga e la comparsa delle prime missioni cattoliche. Si apre con la presentazione dei chef e sottochef, membri della comunità locale di uno sperduto villaggio tra le colline, che per denaro e potere si sottomettono ai bianchi, svolgendo presso i nativi il lavoro sporco di persecutori. Sottraggono bambini alle famiglie per mandarli a lavorare alla raccolta dei fiori di piretro durante la seconda guerra mondiale, per preservare i soldati bianchi dalle malattie delle zanzare. Obbligano gli uomini ad andare nelle miniere congolesi o a raccogliere quantità enormi di fagioli, per sfamare le truppe e i minatori, sottraendoli alla popolazione locale, che in breve tempo vede dilagare la malnutrizione e la fame. Su questo si abbatte la Ruzagayura, la carestia dovuta ad una siccità senza precedenti. Sarcastica la descrizione dell’avvicendarsi di capi e capetti che promettono tanto e non mantengono nulla.
Arriva il turno dei missionari, i padri, chiamati così anche al singolare: e giù con i sermoni sulle loro colpe di cattivi cristiani, puniti da Yezu e Maria con la mancanza di pioggia, a motivo della quale non ci sono uomini per le miniere per fabbricare armi, perché i fagioli si sono rarefatti e non c’è cibo né per i combattenti né per i lavoratori e così Hitler vincerà la guerra a causa del loro attaccamento agli imana, agli stregoni e ai sacrifici, agli amuleti che s’intravedono sotto le medagliette di Yezu e Maria. Viene decisa una solenne processione per portare la statua della madonna su una collina dove Yezu vedrà la loro buona volontà…Assolutamente esilarante questa parte che continua con la diserzione di tre arzilli vecchietti, i quali decidono di andare a consultare una sorta di strega che vive solitaria in una catapecchia: la vegliarda sostiene di essere Mukamwezi rediviva, la sposa mitica del principe Kibogo, vissuto al tempo degli ultimi re rwandesi (prima che si arrendessero al cristianesimo) scomparso durante un temporale sulla montagna, colpito da un fulmine, rapito da un turbine, assunto in cielo…
Per godere meglio di questa storia occorre introdurre Akayezu, un giovane campagnolo che riesce ad entrare in un seminario per diventare padri. Nel suo nome Aka Yezu, datogli dal padre cristianizzato, il suo destino: ma ha un grave difetto, agli occhi dei missionari, di pensare troppo con la sua testa e di confondere le idee ai suoi paesani quando si reca in vacanza al villaggio. Ha perfino ottenuto di presentarsi con la sottana bianca, anche se è ancora un seminarista in erba, perché comunque è uno studente modello, pieno di zelo.
Il fatto è che sua madre lo ha cresciuto con il racconto delle divinità tradizionali, narrandone le avventure la sera accanto al fuoco, come facevano sempre le madri e le nonne, e “le madri non mentono mai”. Così quando i paesani gli fanno il paragone tra l’assunzione di Kibogo e quella di Yezu non esclude nulla: possibile che anche il principe possa ritornare come Yezu a segnare la fine dei tempi e sottolinea anche la possibilità che possa aver salvato il Rwanda dalla Grande Carestia della seconda guerra mondiale.
Forse lui dovrà scrivere la nuova Bibbia in cui protagonisti sono i Rwandesi…Questo è troppo per i padri e in men che non si dica termina la sua avventura al seminario. Non si perde d’animo Akayezu e contornato da una schiera di pie donne continua a predicare la sua religione sincretica, con tanto di moltiplicazione dei pani e miracoli.
Passano le generazioni e accanto ai missionari compaiono gli agronomi che convincono i locali a coltivare grandi estensioni di caffè, sottraendo la terra alle coltivazioni necessarie alla sussistenza alimentare della gente. Il meccanismo sarcasticamente si ripete: i capetti locali fanno il lavoro sporco, in cambio di piccole fette di poteri e agi per le proprie famiglie.
Il culmine dell’umorismo si raggiunge con gli archeologi, antropologi, etnologi e via dicendo: pagano, con pochi denari e bottiglie di birre, anziani e ragazzetti furbi e volenterosi per farsi raccontare leggende e miti, tutti in contraddizione tra di loro, poiché ormai la cristianizzazione che si è radicata affievolisce i ricordi delle narrazioni accanto al fuoco. A quale scopo i valenti uomini dotti fanno ciò? Ricreare dei falsi luoghi di culto (sembra suggerire l’autrice ), dare per scontato riti cruenti di uomini e animali, trattandosi di popolazioni primitive…
Lo sguardo dell’autrice è disincantato ed equidistante: la presa in giro riguarda sia i colonialisti, i neo-colonialisti, i missionari e la popolazione locale. Ma la storia culturale del Rwanda sarebbe stata la stessa, libera di crescere e modificarsi seguendo i propri ritmi e senza le storture e le deviazioni imposte dal colonialismo? Non lo possiamo più sapere, per questo in quel villaggio si continua a pregare l’uno e l’altro, Kibogo e Yeezu, quando ricompaiono siccità e fulmini che preannunciano la pioggia: come Elia, Gesù, Maria, i due, assunti in cielo, potrebbero comparire entrambi per salvare ancora una volta il Rwanda…