Abu Bakr Kahal
TITANIC Africani
Atmospherelibri, 2020
traduzione dall’arabo di Barbara Benini
Nel momento in cui scrivo questa recensione, la violenza della guerra nel Corno d’Africa continua a mietere vite umane e a contribuire ancora alla catastrofe globale dei rifugiati e dei diritti umani che ha già raggiunto il suo apice di 80 milioni nel 2020 (1).
Di conseguenza, ormai da anni siamo abituati a leggere resoconti sull’andamento delle migrazioni attraverso il Mediterraneo, ad ascoltare discussioni su numeri, statistiche, indagini sul fenomeno della migrazione. Spesso ci siamo commossi guardando le immagini delle vittime delle tragedie del mare, specialmente quando si tratta di bambini, donne e ragazzi. Se queste persone compongono, agli occhi dei più, un’umanità dolente, senza volto, priva di un’identità precisa, di una collocazione esatta, scrittori e autori di alcune di queste nazioni più colpite dalla crisi umanitaria cominciano ora a far sentire la loro voce. Lo fanno attraverso testimonianze e una narrativa più incisiva, lanciando un colpo di grazia all’opinione pubblica mondiale, avvertendo della portata e dell'impatto della crisi, nonché dell'importanza di prestare attenzione.
Tra questi testimoni abbiamo Abu-Bakr Kahal, romanziere eritreo che, dopo molti anni in Libia e diversi mesi in un campo profughi in Tunisia, ci consegna Titanic Africani, un libro di testimonianza, del racconto di un “viaggio della speranza” che inizia con una corsa frenetica attraverso il deserto inseguito da bande senza scrupoli e finisce nei mari crudeli alle porte dell'Europa. La storia non si allontana mai dal mostrarci la morte e la sofferenza dei migranti senza mai sacrificare la loro umanità.
Scritto con un linguaggio poetico, facilmente leggibile, Titanic Africani conserva un tono asciutto e forse anche per questo molto incisivo. Lo stile ricorda i primi libri di Ben Okri che mescolava così bene racconti popolari africani e realismo magico. Le storie narrate diventano una voce collettiva per molti migranti e rifugiati, rivelando la tragica e disperata situazione in cui si muore per fame, si scompare senza lasciare traccia di sé, si annega in fondo al mare.
La vicenda segue le avventure del migrante eritreo Abdar attraverso il deserto fino alla Libia e poi ai punti di lancio per la traversata del Mare Mediterraneo. In questo viaggio il narratore ha la fortuna e il privilegio di viaggiare accanto all’autista del pick-up, cosa piuttosto rara. Privilegio, rispetto a tutti gli altri, che viaggiano schiacciati, come le sardine, uno sopra l’altro, sotto quel sole cocente di 50-60 gradi con poco o niente cibo e soprattutto acqua. Privilegio per osservare da vicino lo stato fisico e psicologico di colui che dovrebbe portare a termine il lungo viaggio; colui che deve prevedere l’arrivo dei predatori senza scrupoli; colui che attraversando montagne di dune, guida in quel mondo più pericoloso del pianeta in tutti i suoi aspetti. Il protagonista inoltre parla l’arabo, un vantaggio in più rispetto agli altri dell’equipaggio.
Questa prospettiva del narratore mi ricorda “Esodo. Storia del nuovo millennio” di Domenico Quirico, che si fa quasi migrante e si mischia nella tragedia delle traversate per esserne testimone, senza però esserne parte; così come Fabrizio Gatti in “Bilal”, dove il giornalista si traveste diventando un personaggio reale della propria inchiesta narrativa, restituendo ai migranti un volto e una storia.
Altra originalità del racconto è che, a differenza di molte narrazioni sul “viaggio della speranza”, i personaggi di Kahal affrontano i momenti di crisi con notevole facilità: dopo un viaggio straziante e pericoloso per la vita attraverso il Sahara, Abdar e i suoi compagni migranti attraversano il confine tunisino per chilometri a piedi, senza rivelare granché di panico, paura, sfinimento. Durante il percorso della migrazione irregolare e frenetico, Kahal non si sofferma sulle vite emotive dei suoi personaggi, il che lascia pochissimo tempo e spazio per entrare in empatia con loro. Anche per questo il tono della narrazione è così arioso e leggero che alla fine si rimane lontani dalla sofferenza del loro viaggio. La narrazione sembra, a tratti, solo graffiare la superficie degli eventi cruenti e le reazioni del migrante non sono quelle che ci aspetteremmo, non viene fornita alcuna allusione sul fatto che il loro senso di appartenenza sia messo in discussione, né si registra alcun segno di razzismo ed alienazione.
Troviamo piuttosto alcuni aspetti comici e ironici a sottolineare gli eventi; in attesa delle carrette del mare che li avrebbero portati sulle coste italiane, uno del gruppo di lingua araba prende in giro il narratore e i suoi amici per la loro inconsapevole invenzione di una nuova parola araba:
Per un attimo contemplò il gruppo di eritrei rannicchiato intorno alla TV, poi disse "Non siete voi eritrei che chiamate "Tanikatat" (2) le barche che ci porteranno al di là del Mare Mediterraneo, traducendolo in arabo, come “al-Titanik?"
"Sì, siamo noi."
“Accidenti a tutti voi! Comunque, chi ti ha dato il diritto di pluralizzarlo come Titanikaat? Sei esperto di grammatica araba in questi giorni o il grande Sibawayh (3) viaggia con te?”
“Finché sai che il settanta percento del tuo Titanikaat affonda, e solo una trentina su cento sopravvive! Quindi immagino che Titanic sia un nome appropriato. Dopotutto Tita…niiiiik ” disse con forza, enfatizzando pesantemente la seconda sillaba, che, tradotto in lingua araba vuol dire ‘…fanculo’ .
Qui Abu Bakr Kahal paragona il disastro dei rifugiati con l'affondamento nel 1912 dell'RMS Titanic, giocando su due significati di Titanic: oltre alla disintegrazione della nave ritenuta inaffondabile e alla morte di circa 1.500 passeggeri (4) allude anche all'eccessiva fiducia intorno alla carretta che non affonderà mai, incitando ottimismo e speranza nei migranti per una vita migliore che si aspettano di trovare in Europa.
Anche qui, per stemperare l’orrore lungo il viaggio, l’autore inserisce un personaggio noto alla cultura africana, un Griot africano e la sua chitarra; la sua ironia è l'arma migliore per combattere tutti i fantasmi ed incubi che affollano le menti di uomini e donne trattati in cattività, convinti di essere finiti in mano ai cannibali. Per coglierne le contraddizioni con ironia e leggerezza, il Griot (5) percepisce il contesto, narra del loro legame con la natura, vitale e irrinunciabile, la gioia di vivere, la musica, il canto, l'amore incondizionato per la patria e la famiglia lasciata…, argomenti contrapposti all'abbandono, all’umanità loro negata, a una migrazione sofferta, alla difficoltà di sentirsi pienamente esseri umani.
Ci sono viaggi infernali nel deserto, in jeep inseguite da banditi, con cibo e acqua insufficienti; un passaggio di confine simile a un thriller, durante una tempesta in Tunisia; le persone muoiono, spesso in modi raccapriccianti, e il narratore ci fornisce informazioni, storie tramandategli dai suoi vari compagni, sufficienti ciascuna di esse per fare in modo che la perdita abbia un impatto. Ma l’obiettivo finale (‘Europa, la terra promessa ) non viene mai messo in discussione; è come se tutti i migranti fossero in una sorta di ricerca, trascinati in una narrativa più ampia, quasi mitica, che pone innumerevoli prove e ostacoli sul loro cammino. Questo obiettivo finale non viene mai messo in discussione.
Nella seconda parte del libro, il percorso dell’“eroe” viene ad essere sommerso (per così dire) da tutte le altre narrazioni. Ci sono così tante storie tragiche e colorate da raccontare, che l'esperienza di Abdar perde le sue sfumature. Infatti, alla fine del romanzo, Abdar, come protagonista principale, si ritira in secondo, in terzo piano… per scomparire poi completamente. Il punto è questo: nessuna singola persona può sopportare il peso di tutte le storie particolari e personali di tragedie che la "fuga tran-sahariana dei profughi" produce ogni giorno. Tutto quello che possiamo gestire sono solo frammenti.
Un altro pregio del libro sta nel descrivere la solidarietà nel gruppo. Infatti, quel che emoziona leggendo Titanic Africani, è riscontrare quel medesimo comportamento presente in molti racconti di “viaggi della speranza”: persone in difficoltà estrema, assetate di acqua, affamate e senza un briciolo di pane che tuttavia non si strappano il cibo di mano né lo nascondono agli altri quando lo raggiungono, ma lo condividono. Ogni volta apprendo che in queste condizioni di assoluta miseria esiste quello che non c’è spesso nel mondo del benessere: solidarietà, soccorso, assistenza reciproca.
Un ultimo aspetto importante di Titanic Africani: la fuga è un’avventura complessa che non ti fa incontrare solo i disperati, ma è anche occasione di incontro tra popoli con le loro storie, usi e costumi, in sostanza con il ricco patrimonio culturale africano.
Ma purtroppo arriva il momento in cui ci si deve dividere. È il destino del viaggio di speranza. Ed è qui che le strade dei tre compagni di viaggio si separano per sempre. Abdar e Terhas verranno arrestati e rimpatriati in Libia, mentre Il Griot morirà nella traversata. Non senza lasciare l’ultima delle sue bellissime poesie, che diventa una sorta di manifesto dei Titanic africani, e un ricordo indelebile nella mente di Abdar:
Privo di amuleti
Varcai cancelli sorvegliati
strisciando come un verme
attraverso il filo spinato
Fui inghiottito da acquitrini salmastri
Circondato da cani del deserto
E fuggii
tra piante maligne
che mi strappavano i vestiti
mentre la pioggia mi sferzava
vidi le mie gambe
sprofondare in fosse di fango/che si trasformavano in torrenti
E tuttavia li attraversai
Ora, però
Voglio un amuleto
Per attraversare
Stretti di fuoco
Verso continenti di ghiaccio.
NOTE:
(1) L’ultimo rapporto ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), pubblicato lo scorso 18 giugno 2020
(2) la parola Tanika deriva dall’italiano tanica, entrata ormai a pieno titolo nelle lingue eritree per indicare l’inconsistenza; il vuoto [di idee]; inaffidabilità …
(3) Sibawayh: è stato una personalità di spicco della scienza, della grammatica, filosofo e arabista di origine persiane. Autore soprattutto della Scuola di grammatici di Basra e pionieristico autore di un fondamentale testo di linguistica araba, l'al-Kitāb, (Il libro) in una decina di volumi, che ancora costituisce un'autentica enciclopedia della grammatica e della lingua araba.
(4) Si veda il film del 1997 con protagonista un giovane Leonardo Di Caprio e Kate Winslet.
(5) Importante figura di cantastorie, giudice e depositario della storia e del sapere nel Continente africano.