Adua di Igiaba Scego - a cura di Rosella Clavari

Igiaba Scego

ADUA

Giunti, 2015

 

La storia di Adua apparentemente è quella di tante donne deluse dalla vita, dall'amore, emarginate dalla società ma con un grande voglia di rivalsa. Senonché Adua con la sua particolare storia attraversa, nelle memorie del nonno e del padre e nella continuità con un giovane emigrato un po' amato e un po' bistrattato, anni di vita di popoli storicamente vicini e fasi storiche delicate non solo dell'Italia ma di tutti coloro con cui ci siamo relazionati.

Infatti è un racconto che attraversa gli eventi più importanti della storia italiana nel suo rapporto con il Corno d'Africa: il colonialismo della prima e seconda fase, la prima ondata migratoria in Italia di cui Adua fa parte e l'attuale esodo dei migranti, un evento definito, data la sua consistenza numerica in tutta Europa, “epocale” .

 

Fin dall'inizio nel colloquio solitario di Adua con l'elefantino di piazza S.Maria sopra Minerva a Roma, troviamo uno degli elementi che caratterizzano lo stile dell'autrice. Un approccio ordinario, quotidiano, semplice e diretto che si sposa con il significato profondo, sotteso, dei simboli e dei segni: l'elefantino sostiene un piccolo obelisco, vestigia di un tempio egizio che lì sorgeva, impronta africana del passato che sopravvive nel presente. Dunque è una Roma materna quella che accoglie Adua, ora donna matura, ma così non è stato, quando la città era lo sfondo di persone incontrate in gioventù, che le avevano fatto credere in una carriera da star del cinema.

 

L'elefantino è lì ad ascoltarla, ha grandi orecchie per farlo, proprio come le aveva suo padre. Il padre, Zoppe, così chiamato per via di una camminata claudicante, si affaccia ogni tanto nella sua memoria soprattutto con le paternali da lei subite. Lui ha vissuto il dramma della violenza fascista sulla sua pelle e l'impossibilità di svolgere serenamente il lavoro di traduttore poiché parla oltre all'arabo cinque lingue africane e “una montagna di lingue piccole utili per la futura guerra”; non ha mai approvato le scelte della figlia ( alla quale ha cambiato il nome da Habiba, che significa amore, in Adua, a ricordo perenne della prima vittoria africana contro l'imperialismo)  e si schiera dalla parte della tradizione come il padre Hagi Safar stimato e rispettabile indovino e guaritore.

 

C'è un toccante brano del libro (p.111) dove si può riflettere sulla tristezza della guerra, su quelle linee di confine che erano prima isole di pace: il nonno di Adua andava come guaritore in un villaggio di confine tra Somalia ed Etiopia  in quella stessa terra che il padre Zoppe aveva amato; lì tra i poveri, dove si annullavano le divisioni tra somali ed etiopi, Zoppe aveva visto, durante l'attacco italiano nella guerra del 1937, le capanne di quel villaggio bruciare.

Il nonno era solito andare in quel lembo di terra che era il regno della regina di Saba, terra straniera per un somalo, perché “amava quel paese, amava quella gente”, la sua origine partiva da lì e voleva ricongiungersi all'anima dell'antica regina.

 

Vengono evocati nella storia di Zoppe e di Adua i luoghi fondamentali della loro esistenza: Magalo vicino al mare, nella sua realtà di provincia rassicurante e tranquilla , dove tutto si chiama Munar (Faro) compreso  il cinema, piacevole novità con le sue vecchie pellicole “doppiate in un italiano da vocabolario” che permetteva soprattutto alle donne di sognare almeno per un'ora; Mogadiscio ambigua e inquietante quanto Addis Abeba; Roma miraggio di successo, materna e misteriosa.

In questi luoghi affiorano personaggi legati all'infanzia di Adua, come la zia Bibi, legata ai rituali della tradizione alla stregua degli indovini e guaritori, oppure personaggi insoliti, nello scenario di guerra, come la cantante Maria Uva, incaricata di risollevare il morale delle truppe.

 

 

Il linguaggio usato nel romanzo rispecchia stili diversi di vita: più crudo e diretto da parte di Adua, a volte infarcito di frasi retoriche da fotoromanzo; più sobrio, misurato, ieratico, nel nonno e nel padre dove predomina l'elemento visionario.  L'autrice sembra voler offrire piuttosto che la storia di una saga familiare sul cui genere Nuruddin Farah trova tutta l'estensione e la lentezza della narrazione, un abbozzo di racconto funzionale a un nostro approfondimento delle verità storiche che si celano dietro le esistenze dei protagonisti, descritte negli effetti più eclatanti.

Il razzismo che si manifesta all'epoca del padre, quando lui doveva correre per strada per non essere fermato e interrogato, mentre il colto eritreo Menghistu camminava lentamente e con orgoglio per le stesse strade, è quello che colpisce anche una famiglia ebrea conosciuta da Zoppe.

Ma qui non si tratta di una focalizzazione sul razzismo omologato a varie etnie, quanto la riflessione sul potere emarginante, di esclusione e soppressione dell'altro. La guerra ha evidenziato questo potere nefasto, e non solo la guerra, anche una certa classe di arricchiti che si dedicano ad attività lucrose come il cinema e che sfruttano ignobilmente Adua trascinandola nel giro dei film porno.

 

Chi darà una parola di speranza alla fine alla nostra Adua sarà proprio il suo giovane marito- sposato per un “do ut des” pattuito tra loro: un tetto e un piatto caldo al posto di un po' di calore umano nel proprio letto . Titanic, come lo chiama in maniera spregiativa Adua , solo alla fine viene chiamato da lei col suo vero nome, quando sta per partire per lavorare in un altro paese.

Solo in quel momento Adua si accorge di aver usato verso di lui quello stesso cinismo ricevuto come immigrata, un atteggiamento, contrario alla solidarietà, che spesso si verifica all'interno della propria comunità.

 

Alla fine del romanzo, in appendice, Igiaba offre con generosità e dovizia di dettagli una bibliografia utile a un approfondimento sui temi trattati, mettendo in luce la linea scelta come persona impegnata nel campo dei diritti civili ed esperta di transculturalità.

L'essere nomade, con cui si definisce la protagonista Adua è un po' la condizione di Igiaba, in ambito letterario, in quanto sperimenta volta per volta diverse forme di racconto, e nella vita in un certo senso, dato che, come lei stessa racconta, il romanzo è stato scritto tra Roma, Venezia e New York.

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