Alain Mabanckou, Peperoncino - recensione a cura di Giulia De Martino

 
Alain Mabanckou
Peperoncino
editore 66TH A2ND, 2016
traduzione di Filippo D’Angelo
 
Si tratta dell’ultima uscita africana per il 2016, sebbene si fatichi sempre più a definire romanzi africani questi testi di autori che vivono altrove ormai da tempo, anche se con la testa e forse il cuore restano nei loro paesi d’origine. Questo comporta, per molti di loro, che spesso argomento principe dei loro soggetti sia l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza vissuti in Africa prima della loro partenza.
Se poi lo sfondo dei loro ricordi assume i contorni drammatici dello scontro in Rwanda, come per la Mukasongo di "Nostra Signora del Nilo", o i periodi delle guerre civili e dell’instaurazione di regimi dittatoriali d’ispirazione comunista, come per Ondjaki e Mabanckou, l’interesse del lettore europeo è assicurato.
E se, in più, protagonisti sono bambini o adolescenti che vivono in collegi o in famiglie insolite i risvolti sono ancora più accattivanti perché si illuminano di tratti umoristici, dato che gli eventi storici sono guardati con occhi infantili di ragazzi a cui spesso risultano incomprensibili le scelte degli adulti che stanno loro intorno e si dotano con la fantasia di spiegazioni inverosimili ma sottilmente convincenti.
Detto ciò, Mabanckou vi aggiunge il suo stile spumeggiante e dirompente, le sue personali ossessioni: la vita vissuta fino ai 20 anni a Pointe Noire, capitale economica del Congo Brazzaville, in un quartiere malfamato estremamente vivace, la follia come modo di sopravvivere a contesti inquietanti, la predilezione per personaggi borderline, picareschi, spesso dei Tom Sawyer all’africana.
“Peperoncino”, soprannome con cui viene identificato da un certo momento in poi il protagonista, è un po’ un ritorno a “Verre cassé”, a “Black bazar”, a “Le luci di Pointe noire”.
In “Domani avrò vent’anni” aveva reso omaggio a sua madre e al padre adottivo, esplorando la vita di un bambino all’interno di una famiglia piccolo borghese, alle prese con il potere ‘comunista’ e  le prospettive di un radioso quanto improbabile avvenire.
Nel presente romanzo emerge di nuovo la realtà di Pointe Noire con le sue prostitute generose e materne, i suoi traffici e la sua corruzione.
Protagonista un ragazzo alla cui nascita viene dato un nome talmente lungo e impronunciabile da essere sbrigativamente abbreviato in Mosé, con suo grande disappunto. Di padre sconosciuto e abbandonato dalla madre, conosce solo l’orfanotrofio di Loango, prima gestito dai padri cattolici, poi direttamente dallo stato, che intende così coltivare dei perfetti seguaci del regime.
Solo le attenzioni di padre Moupelo, che impegna i ragazzi in canti e balli tradizionali pigmei permettendo alla loro rabbia, tristezza e aggressività di trovare un adeguato sfogo, e le cure della materna inserviente Sabine Niangui, particolarmente affezionata al piccolo Mosé, permettono di sopravvivere alla dura vita del luogo: poi queste figure scompaiono, azzerate dal Partito congolese del lavoro, sostituite con personaggi untuosi e ambigui o votati ciecamente alla Rivoluzione.
Comincia allora la doppia vita di Mosé e del suo amico Bonaventure: da un lato adeguarsi e imparare a pappagallo le scempiaggini propinate dal direttore, ansioso di essere sempre vicino al potere, timoroso che la sua etnia possa improvvisamente cadere in disgrazia, dall’altro  prendere posto nella banda degli scellerati bulli del collegio, assicurandosi un futuro da piccolo criminale e vagheggiando di divenire una sorta di Robin Hood in terra d’Africa.
Ma il debole Bonaventure non si rivela adatto e il protagonista affronterà da solo la fuga che lo porterà al Gran Marché di Pointe Noire, tra gli errabondi della Costa selvaggia e le allegre ragazze di Madame Fiat 500, una generosa maitresse presso la quale si ricrea, in pratica, una stravagante famiglia, fino al sopravvenire di una demenza che lo porterà a commettere atti gravi, con i quali spera di riscattare tutta la sua vita e di punire coloro che l’avevano resa ancora più brutta.
Di avventura in avventura la penna di Mabanckou si fa  sarcastica verso eredità coloniali, usanze  tradizionali, stereotipi culturali congolesi e guerre etniche, illusioni sul socialismo africano e teneramente feroce sui protagonisti di questa vicenda.
Forse un po' troppo scoperta l'intenzione di essere divertente ad ogni costo, come per esempio giocando con i nomi propri molto lunghi o raddoppiati, che necessariamente ad un orecchio non abituato alla lingua locale suscitano sorrisi. In ogni modo, una lettura godibile.

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