Wole Soyinka, Africa - a cura di Habté Weldemariam

In realtà si intitolava nell'originale, “OF AFRICA”, perché, come dice lo stesso autore, non è possibile parlare di un continente così grande e complesso nella sua varietà in un breve saggio. È possibile appena sfiorare quegli argomenti che sono i più importanti al momento, anche nella stretta relazione col resto dell'umanità intorno.


 

WOLE SOYINKA, AFRICA

Bompiani, 2015

a cura di Habte Weldemariam

 

 

Potete uccidermi se questo è il vostro modo di agire, ma le vostre bombe non mi costringeranno mai a sedermi a un tavolo con voi”, aveva detto Wole Soyinka dopo le minacce di morte che gli erano arrivate da Boko Haram [1]. Proprio, dopo essere finito nel loro mirino, il premio Nobel e storico protagonista delle battaglie per la democrazia, torna a scrivere questo saggio “AFRICA”.

In realtà si intitolava nell'originale, “OF AFRICA”, perché, come dice lo stesso autore, non è possibile parlare di un continente così grande e complesso nella sua varietà in un breve saggio. È possibile appena sfiorare quegli argomenti che sono i più importanti al momento, anche nella stretta relazione col resto dell'umanità intorno.

Con un linguaggio colto e appassionato, Soyinka traccia il suo personale, affascinante ritratto dell’Africa, una riflessione sul continente, uno sguardo «oltre le parole, le menzogne e le offese». Dell’Africa, il mondo è intento raccontare solo una versione parziale della storia, dell’Africa non troviamo il tempo di stare a sentire le tante voci di un continente variegato e complesso, formato da 54 stati-nazione e da un numero ben più elevato di popoli. Molto interessanti, tra l’altro nel testo, le parti dedicate alle esplorazioni e scoperte del Continente, una difesa commovente dell'aspirazione degli esseri umani alla libertà e alla pace: “La storia ha sbagliato. Le dichiarazioni secondo cui l’Africa è stata esplorata sono avventate come le notizie della sua morte imminente. Un’indagine davvero illuminante sull’Africa deve ancora avere luogo, e non finge di accadere neanche nelle pagine di questo libro, che si limita a raccogliere qualche seme fecondo abbandonato sull’aia dell’esistenza africana nel suo complesso. Spero che da questi semi nasca una nuova stirpe di esploratori per la corsa alla necessaria età della Comprensione Universale, ispirata dall’Africa.”

“AFRICA” non è solo un saggio storico, antropologico, tradizionale, è anche un ricchissimo zibaldone di riflessioni sulla realtà storica, politica, economica, religiosa dell’Africa.

Diviso in due parti, ciascuna in quattro capitoli, Soyinka propone ai lettori punti di vista e informazioni utili sulla situazione attuale per comprendere i problemi e le possibilità dell'Africa, conoscere gli strascichi profondi delle sue tragedie e l'importanza delle sue risorse. Per parlare della geo-politica, Soynka sceglie il caso Darfur e la Repubblica del Congo [ex-Zaire] come metafora di tutti i drammi africani mai sopiti e come una fortissima lezione morale, politica e letteraria. La questione del Darfur, oltre al tema rinnovato dell’abuso della dignità umana che può verificarsi ovunque nel mondo, qui contiene tutti gli elementi nefasti del potere: il senso di egemonia, lo sdegno e il disprezzo razziale.

Sarcasticamente denuncia l'endemica disonestà e corruzione dei governi locali, inalterata nel passaggio dal regime coloniale all'indipendenza e le politiche imperialiste e colonialiste europee, all’insegna dello sfruttamento, del sopruso e soprattutto della negazione di una cultura, di una umanità, di una identità genuinamente africane.

 

L’assolutismo del potere politico.

L’Africa, scrive ancora Soyinka, è stata defraudata e spogliata in prima istanza dallo schiavismo, la Grande Diaspora, “un crimine contro l’umanità africana, paragonabile a Hiroshima e alla Shoa”.

Ma anche dai molti leader africani, capi di stato corrotti, interessati solo al potere e alla ricchezza personale. Se c’è difficoltà che l’Africa emerga alla modernità ciò è dovuto in gran parte all’alienazione dei suoi leader. Soyinka chiede loro più coraggio, più, moralità e più spirito di sacrificio: essere pronti a condividere il potere e il controllo, gestire tutte le incompatibilità culturali, politiche, economiche imposte dalla storia.

La critica al post-colonialismo e al nuovo imperialismo che già abbiamo notato nel grande scrittore kenyota, Ngugi wa Thiong'o, impegnato soprattutto sul fronte della salvaguardia delle lingue africane, la ritroviamo anche in Soyinka. Due intellettuali “vecchio stile”, cioè, molto scomodi. Infatti, tutti e due sono inesorabilmente innamorati dei rispettivi Paesi, un amore corrisposto in maniera tangibile [2]. E non ci è difficile capire perché la loro gente li ami e li consideri un punto di riferimento. Ci è più difficile comprendere come sia possibile che loro due siano ancora tanto innamorati dei paesi che hanno causato loro così tanti guai: li hanno incarcerati, messi in isolamento, condannati a morte con tanto di taglia sopra la loro testa, costretti all'esilio, per non parlare degli attacchi alla loro persona e alle loro famiglie, alla violazione di proprietà privata.

In questo saggio si percepisce chiaramente ciò che l’Autore va dicendo nei suo incontri internazionali di intellettuale cosmopolita, di voce della coscienza nazionale del mondo africano, che non ha alcun rapporto sentimentale con le nazioni, ma, crediamo piuttosto che per lui “le nazioni costituiscano il peggiore crimine contro l’umanità [3] di cui, paradossalmente, sono colpevoli, tutti gli uomini, che pure, commettendolo, vanno contro sé stessi”. Proprio questa esperienza e il suo vissuto personale fatto di carcere e di esilio per aver professato apertamente la sua idea di libertà e di pace, lo hanno portato a essere molto assoluto e denigratorio nei confronti di qualsiasi potere, di assunti fondamentali come la religione e l'esistenza delle nazioni. Infatti, dietro una sua famosa frase, “lasciate che muoiano le nazioni e che viva l’umanità” sembra nascondersi tutto il suo odio per gli assolutismi e per i confini artificiali rivendicando la voce della poesia, dell’anima.

 

L’assolutismo del potere religioso.

La seconda parte è quasi tutta dedicata alla questione dell’impatto delle “grandi religioni” e il loro confronto con le religioni tradizionali africane, in particolare con quella Orisha in Nigeria. La millenaria cultura yoruba, metafora del continente africano, sempre votata alla pace, ma alla quale l’imposizione delle due religioni non autoctone - l’Islam e il Cristianesimo - ha apportato mentalità e culture non sue[4]. E spiega tra le altre cose che la natura nichilista dell’islam fondamentalista sta distruggendo molte nazioni africane, a cominciare da Somalia, Mali e Nigeria e che il fondamentalismo islamico è “più letale della schiavitù” [5]. Si, proprio, quella schiavitù e quel colonialismo i cui effetti hanno scompaginato lo stesso tessuto sociale e trasformato la struttura dei paesi africani in un vero e proprio saccheggio.

Tornando ai poteri religiosi Soyinka va oltre quando dice che “Lo spirito dispotico del laicismo oggi si confronta con il rivale teocratico. E fra la mancanza di legge dei fondamentalisti e l’eccesso secolarista non c’è dilemma ed è una scelta importante non soltanto per il continente africano, ma per il resto del mondo. Mentre la dittatura secolare può essere affrontata a diversi livelli, la storia ci dice che le catene poste attorno alla mente sono più dure, tenaci e implacabili di quelle laiche”. La critica dell'autore si rivolge in particolare a chi ha distrutto il primigenio pensiero africano incarnato in una particolare spiritualità (lontana dall'irreggimentarsi in sette religiose), in una visione della politica e della società che dà voce alla pluralità, per esempio vedendo accanto al valore del progresso scientifico quello della medicina tradizionale con visibili riscontri positivi. Soyinka ci esorta, che "l'Africa deve riprendersi da molte cose, eventi antichi come la schiavitù o più recenti come il neocolonialismo, e lo deve prima di tutto agli africani stessi: abbiamo copiato tante cattive abitudini del mondo esterno, come il fanatismo religioso, e per questo l’Africa è diventata ricettacolo di conflitti religiosi, le società precoloniali nemmeno conoscevano le parole 'crociata' o 'jihad' [6], perché, per un africano, blasfemia era prima di tutto imporre a un altro un'opinione spirituale".

Rivolto ad ogni africano, Wole Soyinka avverte, con linguaggio poetico, i cittadini delle nazioni africane che potranno smettere di mangiare i frutti dell'Albero della Dimenticanza. L'immagine, presa a prestito da un rito schiavista dell'antica città di Ouidah nell'attuale Benin, simboleggia il processo di rimozione autoassolutoria che secondo lui ha fermato la Rinascita Africana portando i suoi popoli a ripetere errori del passato, come le sopraffazioni interne da Ruanda al Darfur. Proprio per questo il passato deve portare a nuove idee per il presente per districare questioni come l'immigrazione: "La soluzione ai flussi migratori non possono essere i muri, fermare questi movimenti significa ignorare chi e cosa li ha causati. Dimenticare la storia? Non si può”.

 

Conclusione

Allora che cos’è l’Africa per Wole Soyinka? L’Autore, nel denso contenuto di questo saggio - a parte qualche dettaglio che nella foga sfugge [7] - ci dà prima di tutto l'immagine di un’Africa che si manifesta come un continente estremo, che sembra condannato ad oscillare tra speranza e disperazione senza una possibile soluzione.  Questo significa che l’Africa sia un soggetto politico debole, da manovrare per forza di cose come volevano le cancellerie europee nel XIX secolo? L'Africa non ha potuto mai guidare il proprio destino e anche l'indipendenza degli stati africani si è rivelata una truffa a discapito dei più onesti e poveri: “dopo l'entusiasmo dell'indipendenza, i nuovi governanti africani si sono rivelati più inetti e sfruttatori persino dei vecchi padroni coloniali”.

Da dove partire, in quali termini si potrà parlare di rinascita africana? Quale solidarietà stabilire tra i paesi africani al di fuori delle influenze esterne e dei partenariati internazionali? Wole Soyinka sostiene però che la presunta debolezza dell’Africa sia la sua forza. Il continente è la “fonte non ancora sfruttata” di nuove risorse umane e intellettuali. Pulsa come un “lievito potenziale nell’esausto impasto del mondo”, proprio in virtù dei suoi resistenti valori quali il senso di responsabilità, di comunità, di appartenenza, di tolleranza religiosa, di rifiuto dell’egemonia”. Sicuramente già nel passato si sono levate voci di speranza e di azione: la visione umanista di Léopold Sédar Senghor, l’umanesimo innestato nella spiritualità africana di Desmond Tutu ecc. ... di fronte a un’Africa “inventata dalla creatività europea”, c’è stata un’opera di correzione e di ricostruzione, nella narrativa e nella poesia, tentata nell’opera di Cheik Hamidou Kane, di Mazisi Kunene, di Aimé Césaire e Derek Walcott, per citarne solo alcuni.

 

NOTA

[1].I fondamentalisti islamici che stanno insanguinando la Nigeria. Il libro esce nel momento in cui nella Nigeria di Soyinka impazza l’odium fidei. E dove è in gioco l’equilibrio fra islam e cristianesimo”. Soyinka definisce i militanti di Boko Haram “una gang di psicopatici criminali”, con una solo ideologia di morte”, dice che “per loro le scuole non devono esistere” e che “entrano in una classe, chiamano gli studenti per nome e li uccidono”.

[2]Tutti e due propongono che lo stimolo per un vero cambiamento in Africa deve partire dal basso, dai cosiddetti ignoranti. Ngugi e Soynka parlano del ruolo degli intellettuali come di un qualunque ruolo di un cittadino: se diverse sono le sue capacità di analisi e di obiettività, nel costruire una nuova società essi hanno un ruolo come tutti gli altri, perché la paura non cattura solo gli ignoranti ; e spesso questi ultimi mostrano sofisticate capacità di analisi politica e chiarezza dei propri obiettivi, senza complicare con sovrastrutture. Mentre gli intellettuali stanno a parlare e scrivere, loro sanno già dove andare. Per tutti e due, nel contesto contemporaneo, l’arte e la letteratura non hanno solo una funzione analitica, ma possono avere dei risvolti sociali diretti; è il caso del laboratorio teatrale guidato dallo stesso Soyinka coi ragazzi nei quartieri malfamati di Kingston, Jqamaica, i garrison, in cui il drammaturgo coinvolge i giovani appartenenti a gang rivali per la creazione di un unico spettacolo. Un’esperienza in cui l’arte rende possibile la maturazione di una coscienza sociale dell’individuo, annullando la violenza dell’ambiente. Soyinka, inoltre, accompagna il suo impegno di artista a quello nel network internazionale “Cities of Asylum”, che offre rifugio a scrittori perseguitati provenienti da tutto il mondo.

[3] Nel 1986 ha vinto il Premio Nobel per la letteratura per aver «plasmato il dramma dell’esistenza con un’ampia prospettiva culturale e toni di grande poeticità». In quello stesso anno viene pubblicato L’uomo è morto, il libro in cui racconta la sua esperienza in cella di isolamento tra il 1967 e il 1969 per la sua presa di posizione pacifista durante la guerra del Biafra; fu imprigionato, torturato, vessato.

[4] Come in questo saggio, Soynka ritorna spesso nelle sue opere, soprattutto in quelle teatrali, con le vicende delle innumerevoli divinità del pantheon locale, gli Orisha, nelle loro diverse declinazioni, che oggi, all’Africa, restituirebbero la sua specificità culturale, la sua ricchezza di tutti i valori culturali, religiosi, endogeni.

[5] Qui Soyinka, riconosce che le “agenzie di reclutamento” del fanatismo sono la povertà, la mancanza di giustizia e soprattutto la privazione della dignità.

[6] Lo scenario è complicato, è un misto tossico di fondamentalismo religioso, arroganza politica e sete incontrollata di risorse petrolifere. Alcuni politici corrotti e senza scrupoli hanno imparato a manipolare l’estremismo religioso. Non dobbiamo poi dimenticare che la storia coloniale gettò i semi della distruzione futura, poiché gli inglesi, preparandosi a lasciare il paese, non solo falsificarono le prime elezioni democratiche ma anche il censimento, passando il potere deliberatamente a una sezione della popolazione che era feudale per storia e per orientamento, mettendole in testa la convinzione di essere protetta da Dio e di potere dunque rimanere perpetuamente al potere. È questa la risacca che circola sotto la superficie solo all’apparenza placida dei compromessi politici. I finanziatori di Boko Haram non si sono fatti scrupoli a coinvolgere organizzazioni terroristiche internazionali come Al Qaeda, mandando i loro fanti ad addestrarsi, per poi scatenarli contro la nazione intera.

[7] Per esempio, è difficile che Ulisse potesse “piantare la bandiera ateniese” da qualche parte – semmai la bandiera di Itaca. Come è un peccato che Soyinka accomuni Hegel e Hume a un pensatore di ben più bassa levatura come il teorico del razzismo Gobineau. E non fu Michael Faraday a “studiare la natura dell’elettricità grazie a un aquilone e a un ricettore”, bensì Benjamin Franklin. E non riusciamo a capire quando dice, “… ad un certo punto gli africani hanno abbandonato i loro dei ed hanno abbracciato gli dei dell'occidente. E quando si dice dei, non significa, necessariamente, qualcosa di religioso, ma la divinizzazione di un determinato credo. (…) un esempio clamoroso di questo lo si è avuto in quello che è successo in Etiopia, quando si è tentato di imporre un credo nazista, che nulla aveva a che fare con quella cultura". Punto di vista discutibile ma che è giusto esprimere, e non guasta certo il valore di questo libro.

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