Antonella Napoli - Il vestito azzurro - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 Antonella Napoli

 Il vestito azzurro

 Un regime dimenticato e il coraggio di una giornalista

 People, 2021

 

Non è un romanzo ma si legge come tale per la tensione infusa nella narrazione di un viaggio della giornalista Antonella Napoli in Sudan, allo scopo di documentare le rivolte che hanno portato alla caduta del dittatore islamista al- Bashir nel 2019.

Ha messo tempo l’autrice a scriverne, perché fu direttamente protagonista di un brutto episodio che avrebbe potuto finire molto male: fu fermata da agenti segreti governativi, portata ad un duro interrogatorio e malmenata. Per la grande rete di contatti di cui disponeva , quasi subito, si seppe del sequestro e i pensieri dei familiari e collaboratori, colleghi e politici corsero tutti a Giulio Regeni e a Patrick Zaky. Fortunatamente tutto si risolse ben presto, grazie al pronto intervento dell’ambasciatore italiano in Sudan e al Ministero degli Esteri.

La giornalista era a lungo stata altre volte in Sudan e aveva documentato la vicenda di Meriam ne Il mio nome è Meriam (Piemme, 2014) la donna condannata a morte dalla sharia dominante per non aver voluto rinnegare la fede cristiana e la situazione del Darfur nel 2011 in un reportage anche fotografico, divenuto in seguito una mostra. Del resto il suo curriculum di esperta di situazioni di conflitto in Africa e non solo, di collaboratrice di grandi giornali italiani, di membro di Articolo 21 e direttrice del Magazine Focus on Africa, la costringeva di continuo a viaggiare per verificare quanto stava accadendo e provare a descrivere gli sviluppi futuri di determinati eventi.

E così che si trova, unica giornalista occidentale, tra la folla della rivolta del pane e dei diritti delle donne. Ha infatti saputo documentare come, per la prima volta, le donne abbiano partecipato in massa alle manifestazioni con coraggio e determinazione, noncuranti delle tremende repressioni che avvenivano. Al-Bashir teneva sotto scacco la stampa locale, impedendo la corretta divulgazione delle notizie, classificando e sminuendo gli eventi al rango di scaramucce di quattro scalmanati. La giornalista aveva preso sede in un piccolo albergo appartato, diretto da Hassan, un uomo generoso che subì anche dei contraccolpi per averla ospitata e si serviva di un autista fidato che l’accompagnava ovunque i suoi contatti le avevano preparato incontri con chi stava guidando le sommosse. Non sempre l’autista era contento degli incarichi e cercava di convincerla ad andare altrove, temendo per la incolumità della donna. Fu proprio lui il primo a dare l’allarme per la sua scomparsa. Con la sua cinepresa o il suo cellulare Antonella, a volte, si lasciava andare a lunghe riprese dello scorrere del Nilo, degli uccelli acquatici che ne popolavano le rive o di dimore storiche di significativa bellezza. Fu la sua fortuna, perché quando fu fermata, i poliziotti a caccia di immagini compromettenti, si trovarono di fronte a sequenze da documentario turistico-ambientalista. Tutto il resto del materiale era ben al sicuro (interviste e immagini di scontri con esercito e polizia) ma lei non sapeva a che cosa esattamente sarebbe andata incontro se avessero trovato il modo di farla parlare.

La paura fu notevole e sono commoventi i colloqui telefonici, successivi alla sua liberazione, con il marito, con il papà debole di cuore e con sua figlia a cui prometteva di tornare presto. Dopo questo episodio i Fratelli Musulmani sudanesi le rivolsero eloquenti minacce e Antonella Napoli è diventata uno dei tanti giornalisti sotto scorta. Ma non tornò subito a casa: pur soffrendo per chi l’amava e che l’avrebbe voluta immediatamente al sicuro, continuò il suo viaggio che prevedeva un’indagine in alcuni campi profughi del Darfur: la passione per il suo lavoro, la voglia di non darla vinta al governo sudanese, il dovere di far conoscere la verità sull’ovest del Sudan fu più forte. In un campo resta colpita dalla personalità di una donna, Hiba, e dalla storia che le racconta; si forma un legame di solidarietà che ha per tramite un abito azzurro che dà il titolo al libro.

La situazione del Darfur non è ancora pacificata, il governo di transizione succeduto ad al-Bashir, ha sicuramente migliorato i diritti delle donne e, in generale, riportato la conciliazione tra i diversi gruppi armati. Cosa che ha indotto l’Onu a ritirare gli aiuti che per molti anni hanno sostentato i profughi, generando però in Darfur, dove si combatte ancora, fame e mancanza di istruzione, crisi sanitaria e penuria abitativa, dal momento che molti villaggi sono completamente distrutti. La questione degli stupri delle donne e delle bambine è ancora grave: Hiba è stata stuprata, ma sapendo che al campo non avrebbe trovato solidarietà per questo, ma riprovazione ed esclusione, non ha detto nulla e ha presentato il bambino nato dallo stupro come il figlio di un marito morto in uno scontro. Una rispettabile vedova, dunque, per avere diritto ad un marito vero e ad un futuro migliore. Perché la cultura e la mentalità sono rimaste le stesse e le donne sono stuprate due volte: una volta dal nemico, e una seconda volta dalla propria comunità.

Antonella Napoli, ancora una volta, vuole che il velo su tutto questo resti alzato e che il coraggio dimostrato dalle donne in Sudan non deve cadere nel vuoto e nel dimenticatoio, destino di tutti gli eventi che non riguardino direttamente noi occidentali. C’è un filo però che lega i nostri femminicidi a quegli stupri: non basta dirlo, occorre conoscere ed agire, contribuire ad un cambio di mentalità.

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