Antonello Mangano - La Spoon River dei braccianti - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

Antonello Mangano

La Spoon River dei braccianti

Meltemi/Atlantide, 2023

 

Molto efficace, da parte di questo giornalista d’ inchieste, l’idea di premettere ai discorsi socio-politici le brevi scarne notizie dei migranti morti nei grandi campi di raccolta o nei ghetti abitativi seguite da una sorta di sceneggiatura dei fatti che hanno portato alle tragiche conseguenze.

Per chi ha una certa età, l’antologia di Edgar Lee Masters ha significato la possibilità di guardare all’America dei miti e del cinema in modo diverso e molto più realistico, con quei morti che presentavano il retro della medaglia della ‘felicità’ americana. Così il richiamo a Spoon River offre un modo per dare voce a chi non ce l’ha o non ce l’ha più: a quelli che non fanno storia ma solo qualche trafiletto di giornale, a quelli che hanno una piccola vita intessuta di difficoltà, un retroterra tragico o un destino a cui si è deciso di opporsi. Almeno questo serve tardivamente a dar loro un nome, una storia, a farli uscire dalla massa indistinta di diseredati: certamente meglio delle morti anonime in fondo al mar mediterraneo. Le loro salme possono, sia pure con difficoltà, essere rimpatriate e piante dalle famiglie o, se ciò non fosse possibile, essere deposte nei cimiteri dei luoghi dove hanno vissuto in Italia. Come Becky Moses, una ragazza nigeriana vittima di tratta, bruciata viva nel ghetto di Rosarno durante uno dei tanti incendi, fortuiti o dolosi che siano, tornata da morta a Riace, dove aveva conosciuto l’unico periodo di pace della sua vita.

Rosarno, San Ferdinando, Villa Literno, sono i ghetti più noti per essere balzati alla cronaca non politica, ma nera…Infatti molte delle morti di fatica o di violenza o di roghi sono spesso riportate come casi di pura fatalità o esiti di scontri di bande rivali: destino iniquo o criminalità. Gli assalti razzisti o per ‘mettere a posto’ quelli che si ribellano alle angherie sono spesso riportate come “ragazzate finite male”.

L’autore non mette in scena solo i migranti, ma anche i caporali, locali o etnici che siano, i padroni delle terre, i loro figli che magari hanno studiato altrove e non capiscono più cosa vogliono i loro padri piccoli produttori, gli intermediatori che gestiscono i mezzi che trasportano i migranti dai ghetti dove vivono alle campagne dove lavorano.

Così sentiamo, in una specie di “fuori onda”, i discorsi dei vari Don Ciccillo, Don Saro, Don Catello ecc. e i loro scagnozzi, che fanno il lavoro sporco quando serve. Come se non fosse passato tempo dai Borboni, si lamentano di tasse, dello stato vessatore, della difesa della “roba” di verghiana memoria.

Certamente oggi i Don Saro devono combattere con le multinazionali, con la grande produzione, coi padroni delle sementi, con i proprietari della logistica e via dicendo, sempre con il timore di esserne sconfitti e soppiantati, ma reagendo con una logica conservatrice, classista e razzista, spesso mafiosa, scaricando sui braccianti, e non solo stranieri, la diminuzione dei loro guadagni, sfruttandoli con paghe miserevoli. Sono pochi quelli che intravedono una possibilità di superare il mero sfruttamento, anche perché le leggi dello stato, le disposizioni in materia di immigrazione, a tutt’oggi, continuano a produrre manodopera a buon mercato e al nero.

Non si pensi, ci ricorda l’autore, che la situazione riguardi solo il meridione: ci sono casi di sfruttamento feroce anche in Piemonte, nel Veneto, nel Lazio tanto per citarne qualcuno. Lo stesso scaricabarile continuo tra i procacciatori di manodopera e i padroni di fronte all’assunzione di responsabilità quando succedono morti sul lavoro per caldo e fatica incessante. Senza contare che spesso i migranti muoiono in incidenti stradali sulle strade di campagna, perché trasportati ammassati in tanti furgoni scassati, anche se hanno dovuto pagare uno sproposito per il passaggio…Spesso i corpi vengono spostati altrove dai luoghi dove avvengono le morti per depistare eventuali indagini delle forze dell’ordine.

L’autore ci riporta anche i rari momenti di spensieratezza di questi uomini e donne nei ghetti, al ritorno ai loro giacigli di fortuna. Ovunque si sente musica, anche dal vivo, si possono trovare piatti pronti di cibi tradizionali africani, bar in cui bere per dimenticare la fatica e continuare a parlare dei sogni di una vita migliore, della famiglia lontana, di andare in Francia o in Belgio, lontano dalla bolgia infernale in cui sono costretti a vivere.

Ma non sono solo gli italiani i ‘cattivi’ di queste storie: i migranti che sono avanzati di posizione, adeguandosi alle circostanze e che hanno tirato su qualche soldo, diventano gli aguzzini dei propri connazionali, ricreando rivalità tra arabi e africani, come nel caso del tunisino detto “Berlusconi” o del capo ghanese detto “Gullit”. Non ci fanno una bella figura neanche poliziotti e avvocati: quelli che hanno dubbi o vogliono andare più a fondo di tante situazioni che accadono nei campi o nei ghetti, sono dei menagramo che vengono messi a tacere dagli altri i quali se non proprio compromessi coi poteri locali, almeno per “quieto vivere” lasciano perdere, affrettandosi ad archiviare verità che non scontentino nessuno.

C’è sempre la scappatoia di mettere in carcere ogni tanto un caporale, italiano o straniero che sia, per far vedere che ci si muove per risolvere le questioni. Come per gli scafisti dei barconi: mandare a processo gli scafisti non scalfisce il potere di quelli che li manovrano… 

Così i Jerry Masslo, i Soumaila Sacko, i Mamadou Sare, i Mohamed Abdullah e tutti gli altri, per la maggior parte africani, anche se ci sono rumeni e pakistani, diventano i poveri eroi di una guerra infinita. Cosa che riguarda anche degli italiani, come il caso della bracciante pugliese Paola Clemente, lasciata morire dopo un malore al cuore.

Il testo, emotivamente coinvolgente, si conclude in modo pragmatico con una serie di sensate proposte dal titolo “Che fare? Risposte politiche al grave sfruttamento”. E’ inoltre corredato dalle fonti su cui ha lavorato l’autore per le vite dei protagonisti delle storie.

Ma qualcosa sta cambiando anche tra i migranti che lavorano in agricoltura, sempre più si stanno organizzando per far valere i loro diritti, che poi sono i diritti di tutti in uno stato che si dichiara civile e progredito.

 

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