Aurélia Michel- Il bianco e il negro.Indagine storica sull'ordine razzista - recensione a cura di Habté Weldemariam

 

 

 

 Aurélia Michel

 Il bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista

 Einaudi, 2022

 traduzione di Valeria Zini

 

 

La tratta atlantica degli schiavi ( 16°- 19° secolo), di cui furono vittime milioni di africani, è un prodotto del capitalismo mercantile e della colonizzazione europea. Per legittimare l'asservimento dei neri, il colonizzatore sviluppa la finzione del negro e la rafforza mediante altre due finzioni: la razza e la superiorità "naturale" del bianco. Da questi misfatti, dall’invenzione della razza, dall'esclusione dei neri, nasce un “mondo in bianco e nero” ancora percepibile nelle società postcoloniali.

Capire questo meccanismo, per intenderci, aiuta a comprendere quale sia la dinamica attraverso la quale si originano quelle accumulazioni originarie che hanno portato all’attuale «ricchezza delle nazioni». Di alcune, a scapito di altre. Così come della funzione istitutiva della diseguaglianza nelle relazioni sociali, a partire dal momento in cui la stanzialità è divenuta l’elemento storicamente prevalente dei gruppi sociali.

Il saggio storico di Aurélia Michel, come indica il sottotitolo «indagine storica sull’ordine razzista», spiega di fronte a cosa ci troviamo, ripercorre, attraverso quasi cinque secoli, le tappe principali che hanno portato dalla schiavitù mediterranea a quella africana e atlantica, a quel processo di colonizzazione europea nei diversi continenti. Arrivando alla fenomenologia del razzismo contemporaneo, l’autrice si propone di chiarire, raccontando e analizzando, il ruolo rilevante che la schiavitù ha ricoperto nella costruzione del mondo moderno e il peso del “razzismo”. Coinvolgendo le idee di libertà, uguaglianza, lavoro e le nostre stesse identità, smaschera la storia della schiavitù e l’ordine razziale che ancora governa il nostro mondo. In tutto, partendo da un assunto strategico: «la razza è un ordine sociale globale, il nostro ordine globale».

Da notare, nonostante il profilo accademico dell’autrice 1), che il tema è trattato in forma divulgativa e dunque la lettura è accessibile a un ampio pubblico. Inoltre, il libro ha una vocazione essenzialmente storica. Tuttavia raccoglie, passo dopo passo, indicazioni e suggestioni antropologiche.

Inventata dal Portogallo nel 15° secolo e sviluppatasi nei secoli successivi, la tratta atlantica degli schiavi mutò radicalmente la natura del traffico di esseri umani, industrializzata e razionalizzata dal nascente capitalismo, sostenuta dagli stati e dalle banche europee, fino a diventare un fattore essenziale della ricchezza e lo sviluppo dell'Occidente. il numero degli schiavi stimati in cinque secoli, considerando “quasi 35.000 spedizioni che hanno attraversato l'Atlantico” arriva a più di 12 milioni di uomini, donne e bambini africani deportati nelle Americhe, in condizioni atroci”.

Certo, scrivere e discutere di schiavitù ai giorni nostri sembra anacronistico, fuori luogo e fuori tempo. Eppure, in questi 500 anni, poco è cambiato, anzi, in un certo senso, la situazione è peggiorata, rispetto al benessere diffuso e al cosiddetto progresso civile. Potrebbero essere forse cambiati i termini; ma la sostanza rimane.

Nei giorni di tumulto a Rosarno, mi trovavo in Calabria ed ho visto la drammatica condizioni di vita degli africani braccianti che raccolgono agrumi, pomodori ed ortaggi vari. Sottopagati, sfruttati, ricompensati con una piccolissima paga, o per meglio dire, un obolo. A Rosarno, un paese sulla collina che si affaccia come un balcone naturale sul porto di Gioia Tauro, un signore del luogo che mi accompagnava nella sede del Convegno, mi disse indicando con lo sguardo la pianura circostante, “vede ste catapecchie sparpagliate… questi ragazzi vivono in condizioni disumane ... vivono peggio degli schiavi”. Riguardo all’ultima frase, il signore, intendeva usare una metafora forse, come fanno spesso i giornalisti - ma in realtà aveva detto la verità. Perché? Perché almeno lo schiavo mangiava; aveva il tetto per la notte; forse anche la famiglia. Ma i ragazzi di Rosarno no. Non hanno proprio nulla di tutto questo.

Ci chiediamo allora, che differenza c’è tra i “nuovi schiavi” e i deportati nei campi di cotone, di canna da zucchero, di banane dei secoli passati? Nessuna differenza. E non parliamo delle iniquità quotidiane globali oggi: le grandi disuguaglianze nord-sud, come le discriminazioni che rendono più difficile l'accesso alla casa o al lavoro, a seconda del colore di pelle; del suono di un nome etc.

Se la razza struttura ancora in gran parte il mondo contemporaneo, nei suoi tratti principali così come nei suoi piccoli dettagli, è perché non è solo un materiale ideologico, né l'arma dei soli razzisti. I suoi effetti sostenuti derivano da processi storici concreti, che hanno organizzato e accompagnato la nascita del capitalismo dalla fine del Medioevo.

Con questo saggio l’autrice cerca di aiutarci a capire quale sia la radice del potere in età contemporanea. Costituito, per l’appunto, non sull’eguaglianza formale bensì sulla differenza sostanziale. Che è tale quando l’accesso alle risorse è discriminato in base ad una presunta appartenenza di gruppo, contrassegnata – ed è il secondo passaggio della sua riflessione – dalla «razza», intesa come dimensione ascrittiva, di origine, quindi «naturale»: in virtù di questo costrutto, non è la concreta società delle donne e degli uomini a determinare i differenziali di opportunità e, con essi, ricchezze e povertà, bensì le relazioni di potere cristallizzate dal predominio di un gruppo sull’altro. E nonostante il tempo trascorso, lo schiavismo e il razzismo continuano a convivere con la democrazia oggi, riadattando e facendo leva sull’indifferenza, la noia, l’ignoranza. E su una violenza a bassa intensità, talvolta ilare, spensierata ma non meno crudele, che prende di mira i più deboli, gli immigrati, gli stranieri, i poveri, i senzatetto, i disabili, i diversi... Si fa finta di credere che gli atti perpetrati siano inoffensivi e si resta risentiti quando vengono riconosciuti come odio. Battute, allusioni, insinuazioni, lapsus, sottintesi, che esprimono, però, l’oscura voglia di umiliare e possono facilmente sfociare nella violenza aperta.

Le radici moderne dell’odio e del razzismo.

Ma allora come possiamo spiegare questo paradosso tra le rivoluzioni democratiche e la formalizzazione del concetto di “razza” nel 21° secolo? La questione è al centro del libro in oggetto. Ripercorrendo la storia delle parole “schiavismo”, “negro” e “razza”, viene mostrato come, almeno dal 16° secolo in qua, i “bianchi” si siano costruiti un posto speciale dal punto di vista politico, giuridico, economico o sociale. Aurélia Michel parte da una prospettiva che unisce erudizione e impegno critico in prima persona, come ha fatto Lilian Thuram, ne “Il pensiero bianco” di cui abbiamo fatto recentemente una recensione. Sulla scia degli studi sulla bianchezza, Michel e Thuram individuano la costruzione dello status di “bianchezza”, di “privilegio bianco” e i discorsi che li giustificano.

Il dominio bianco, come il dominio maschile con cui Thuram traccia un parallelo, ha la particolarità di identificarsi con uno status che è insieme superiore e universale, con uno stato di natura che si impone implicitamente. Nella sua prefazione fa riferimento, per la diffusione di una consapevolezza mondiale contro razzismo e nuovo schiavismo oggi e grazie agli impegni e studi scientifici straordinari, alla duplice condanna che ha colpito il razzismo: quella dell’etica, che a Norimberga ha pronunciato un giudizio inappellabile, e quella della scienza, che ha indicato nella «razza» nient’altro che un’invenzione. L’esito evidente di questa duplice condanna sta nella tabuizzazione della parola «razza» che, divenuta sospetta, viene sistematicamente evitata e non compare se non tra virgolette, in modo da prenderne distanza. Non è un caso che ben pochi ammettano di essere «razzisti».

Ma questo vorrebbe dire che forse il razzismo non esiste più? Che si tratta di un fenomeno del passato, definitivamente superato, di cui riaffiora talvolta qualche «rigurgito»? Purtroppo no. E le cose non stanno così. E qui si situa il nuovo indirizzo di studi nella ricerca di Aurélia Michel. La tesi di fondo è che «l’istituzione razza» subentra alla più antica «istituzione della schiavitù». Detto altrimenti: quando, alle soglie della modernità, la schiavitù entra definitivamente in crisi, un’altra forma selettiva, più subdola e perversa, si insinua e prende piede fino a divenire il criterio dell’architettura politica e dell’ordine del mondo. In tal senso, al di là della biologia, la «razza» esiste ed è quel procedimento unico che ha caratterizzato l’occidentalizzazione del mondo. Da una parte il bianco e dall’altra il «negro», termine di origine portoghese, che fonde due metafore discriminatorie, quella più antica del colore e quella della schiavitù. La parola «negro» assume un valore decisivo perché, se da un canto indica l’equivalenza tra schiavi e africani, dall’altro segna il punto di svolta, il momento in cui la «razza» subentra alla schiavitù. Così Michel può ribadire: «è perché hanno reso schiavi gli africani che gli europei sono diventati razzisti». Perciò supponiamo che le razze non esistono ma senz’altro esiste il razzismo. Per Michel il primo riscontro ha senz’altro ragione d’essere: le razze sono un costrutto ideologico. Tuttavia, se sul piano biologico e genetico si dà l’insussistenza di tale condizione, non di meno va invece compreso che ciò che viene ripetuto, nel tempo, come verità di fatto, inizia poi ad assumere una esistenza a prescindere da qualsiasi verifica di merito. Poiché non è reale ciò che effettivamente può essere verificato ma quanto, invece, sussiste sul piano delle mentalità, che si riproducono nel corso della storia. Quindi, non è la «razza» ad avere una sua oggettività bensì il discorso sulle razze, che si definisce come forma prevalente di organizzazione (e legittimazione) delle diseguaglianze strutturali. È da intendersi, quindi, la schiavitù (e razzismo) sia come elemento strategico nella costruzione dei rapporti di produzione che come strumento di riproduzione di significati e abitudini.

Innegabilmente, di questi tempi, il ricorso alla storia è essenziale. L'opera illuminante di Aurélia Michel è essenziale e, se è bene indignarsi per gli orrori del passato, non bisogna dimenticare che nel 2023 i dati sugli schiavi nel mondo sono agghiaccianti: stando agli studi dell’ILO (Organizzazione del lavoro Internazionale), secondo il rapporto Global estimates of modern slavery: Forced labour and forced marriage (“Stime globali della schiavitù moderna: Lavoro forzato e matrimonio forzato”), nel 2021 erano 50 milioni le persone che vivevano in condizioni di schiavitù moderna. Di queste persone, 28 milioni erano costrette al lavoro forzato e 22 milioni erano costrette in matrimonio forzato. Una riduzione in schiavitù che avviene in modo costante e simile a tutte le sopraffazioni che l’uomo ha usato sull’uomo.

 

 1) Aurélia Michel è docente all’Università Paris-Diderot e ricercatrice presso il Centre d’études en sciences sociales sur les mondes africains, américains et asiatiques, nonché ricercatrice presso uno dei principali centri di ricerca di scienze sociali sul continente africano, il Cessma.

 

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