Stéphanie Coste
Lo scafista
La nave di Teseo,2022
Traduzione di Cettina Caliò
Ha vinto numerosi premi in Francia, questa nuova scrittrice per il suo primo romanzo breve Lo scafista, tradotto subito da La nave di Teseo, crediamo per l’urgente attualità rappresentata dai funesti viaggi nel Mediterraneo.
L’autrice, vissuta tra Senegal e Djibuti fino alla sua adolescenza, a causa del lavoro di suo padre, si è sempre mostrata interessata a quanto accadeva nello stato confinante dell’Eritrea e forse per questo il protagonista della storia è proprio un eritreo, divenuto trafficante di esseri umani, potentissimo e temuto in tutta la costa libica. Del resto ricordare le vicende di guerra di Eritrea ed Etiopia e le ultime dei governi dittatoriali che si sono succeduti in Africa orientale è meritorio, dal momento che si parla molto poco da noi di questi paesi.
La trama si ambienta a Zuara nel 2015, zona d’imbarco per Lampedusa, data probabilmente non scelta a caso, perché è stato un annus horribilis per le stragi in mare. E’ stato chiesto a Stéphanie Coste se avesse mai intervistato un trafficante in carne ed ossa per documentarsi e costruire la sua fiction, ma ha risposto che solo i grandi reporter o i media famosi ottengono di poterlo fare: lei si è documentata su numerose testimonianze di migranti, operatori delle o.n.g, reportage e video di numerose organizzazioni internazionali.
Il suo è un romanzo scioccante proprio perché parte dal punto di vista di un trafficante e lo dispiega al lettore senza giudizio alcuno, nella sua nuda crudezza. Seyoum, l’eritreo protagonista, ha trent’anni e ha fondato la sua ricchezza sulla speranza di poveri esseri umani in cerca di salvezza, trasformandola, in dieci anni, in denaro e potere. ”Ho fatto della speranza l’anima del mio commercio. Fino a quando ci saranno disperati, sulla mia spiaggia arriveranno galline dalle uova d’oro”.
Il suo cinismo ributtante si estrinseca non solo sui migranti, ma sui suoi collaboratori e sottoposti, sulle forze dell’ordine di ogni stato attraversato dai fuggiaschi per raggiungere la Libia che occorre ‘ungere’ e foraggiare, su ogni autorità che bisogna corrompere e con cui condividere i proventi del traffico. Non crede a niente e non si fida di nessuno, al minimo sospetto che si voglia fregarlo o estrometterlo dagli affari più lucrosi, mette mano alla sua pistola per risolvere una gelosia di mestiere o un’ invidia di chi non ha raggiunto le stesse vette. Regna tramite corruzione e terrore.
Tuttavia qualcosa lo tormenta e lo spinge ad autodistruggersi con alcol, khat e sesso. Ha una bella casa ma vive in un capanno disastrato sul litorale, per meglio dirigere i suoi affari: costringere i sopravvissuti della traversata del Sahara, ammucchiati in lamiere di ferro sotto il sole, a trovare in ogni modo i soldi per imbarcarsi, affamandoli, assetandoli o picchiandoli, incurante di donne allo stremo con in braccio i figli o di uomini che sono stati già torturati e derubati dai predoni somali; contrattare i prezzi delle imbarcazioni sgangherate e prive di ogni sicurezza su cui verranno imbarcati i migranti; cercare tra coloro che devono partire lo scafista di turno volente o nolente; ricevere in quel tugurio il suo banchiere per investire i proventi, o affaristi con cui condividere sotterfugi e imbrogli di ogni genere.
La vicenda si svolge durante i quattro giorni che precedono l’ultimo imbarco della stagione: evidentemente ancora, nel 2015, si rispettava la stagionalità dei viaggi, evitando l’inverno, cosa che negli ultimi anni è venuta a decadere, dato che gli arrivi nel sud Italia continuano con qualsiasi tempo. Del resto l’importante per Seyoum è che la gente paghi, poi se sopravvivono o annegano non è affar suo. Il destino però tira un brutto scherzo a Seyoum. Tra le donne in attesa della partenza scorge il suo primo e unico amore, in compagnia del marito e di un bimbo piccolino: questo innesta un’ondata di ricordi ed emozioni che si accavallano portandolo quasi alla pazzia. Anche lui è stato un migrante che voleva partire per l’eldorado europeo, in fuga da un’Eritrea, nelle mani di un despota sanguinario che rinchiude per anni nelle caserme i giovani, ai quali impedisce di studiare o lavorare, sottoponendoli a violenze e all’azzeramento delle loro volontà.
Seyoum era cresciuto in una famiglia colta, con un padre giornalista di opposizione, ucciso dal regime, il resto dei parenti scomparsi nel nulla. La decisione di fuggire insieme a Madhia, la ragazza di cui è innamorato da quando erano piccoli, e la scomparsa di questa all’appuntamento che li doveva portare nel deserto lo fa precipitare in una angoscia da cui non si risolleverà più. Solo seppellendo in fondo al suo cuore tutto il passato e proteggendosi dalla pietà verso il genere umano con una cattiveria, priva di qualsiasi scrupolo morale, è riuscito a sopravvivere. Non ci viene detto cosa esattamente succeda in lui che lo porti alla decisione di farsi scafista dell’ultima imbarcazione in cui partirà Madhia: ci può essere redenzione per un uomo colpevole sotto ogni profilo? La scrittrice ci ha fatto entrare nella sua testa ma non nella sua coscienza.
Compie, prima di partire, un’azione favorevole verso il giovane Ibrahim, un giovane che Seyoum ha raccolto, tra i migranti, ragazzino, facendone il suo servo, distribuendogli un po’ di benessere in cambio di una fedeltà assoluta. Solo Ibrahim poteva assistere il suo padrone in preda alla droga e all’alcol, ripulirlo dal vomito e rivestirlo civilmente o calmarlo nelle sue elucubrazioni deliranti. Il banchiere del trafficante ha ricevuto l’incarico di renderlo proprietario di molti suoi beni: del resto Ibrahim, un senza famiglia, ha vissuto Seyoum come un padre, affezionandosi e sopportandolo di fronte ai soprusi.
Nel romanzo le figure di Madhia e Ibrahim sono l’unica luce in un testo buio: in qualche modo hanno creato una crepa nella corazza coriacea di cui si era dotato il protagonista. Nel viaggio succedono cose terribili, compresa una violenza nei confronti di alcuni uomini e di sé stesso, tentata da Seyoum, in preda ad una allucinazione durante una tempesta notturna. Fino ad arrivare, all’alba, in vista delle coste dell’isola siciliana. La storia finisce qui, anche se contiene un epilogo, che non sveliamo, che rende ancora più tragici i contorni della vicenda.
Un linguaggio che non lascia scampo, quello della nostra autrice: vien voglia di abbandonarne la lettura per l’insopportabilità di alcune espressioni. Non che ci siano descrizioni particolareggiate di violenze, ma è il tono con cui si esprimono i personaggi che sono come degli schiaffi al lettore. E ce li meritiamo noi europei: capaci di offenderci per i cinismi dei malvagi, senza pensare che esercitiamo la stessa indifferenza morale quando diciamo ”aiutiamoli a casa loro” o “non possiamo aiutare anche i migranti economici o climatici” o quando ascoltiamo le sirene di chi vuole colpevolizzare chi salva la gente in mare.