Cherif Karamoko e Giulio Di Feo - Salvati tu che hai un sogno - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 Cherif Karamoko

 con Giulio Di Feo

 Salvati tu che hai un sogno

 Mondadori, 2021

 

Uscito in sordina nel 2021, ancora immersi nella pandemia, il libro ha acquistato risonanza anche grazie alle numerose interviste di testate giornalistiche sportive e non, all’apparizione in tv nella popolare trasmissione Verissimo e su youtube: questo perché il sogno di cui si parla nel titolo si riferisce al calcio, il sogno del pallone di tutti i ragazzini del mondo.

Solo che questo sogno è perseguito da un giovane guineano, giunto in Italia adolescente con un barcone dalla Libia, dopo un tragico naufragio. Ha quasi raggiunto il suo obiettivo, debuttando nel campionato di serie B con il Padova, proprio quando nel 2019 questa squadra è retrocessa in serie C: i dirigenti, per non disperdere il patrimonio di allenamenti e insegnamenti, lo danno in prestito all’Adria in serie D. Complicazioni burocratiche per il suo permesso di soggiorno e difficoltà nel suo tesseramento alla federazione calcistica insieme alla pandemia, hanno reso il suo cammino più lento. Ma Cherif non demorde e continua ad allenarsi senza tregua in attesa di una squadra che lo ingaggi.

Ma come si è arrivati al libro, che è un romanzo basato sulle traversie di Cherif?

Qui entra in gioco l’altro protagonista di questa storia, Giulio Di Feo, giornalista della Gazzetta dello Sport, che viene a conoscenza delle vicende di Cherif, già conosciute agli addetti ai lavori nell’ambito degli allenatori di scuole calcio e squadre del nord Italia e ne fa un articolo per il suo giornale. L’incontro tra i due segna la nascita di una amicizia e fiducia reciproca che riesce a far superare a Cherif il doloroso imbarazzo di ripercorrere episodi tragici della sua vita. Mondadori ‘fiuta’ la storia e chiede al giornalista di farne un romanzo a due.

Tutto questo preambolo per dire che non si tratta solo di una testimonianza di un migrante, ma di un testo ben scritto e scorrevole che si legge con trepidazione ed emozione. Come tutte le storie inizia con ‘c’era una volta un villaggio’ chiamato Nzérékoré nel sud della Guinea- Conakry. Ci piacerebbe raccontare della vita pacifica di un innocuo paese di campagna, ma le cose non stavano così: la guerra civile tra le diverse etnie a intervalli più o meno regolari risorgeva sempre, complicata da motivi economici, etnici e religiosi. L’unico modo per i ragazzini era distrarsi, nei momenti in cui era possibile, con palloni di gomma e stracci confezionati alla meno peggio, tra le strade polverose, lanciandosi in partite interminabili con vittorie, sconfitte e rivincite. Il villaggio, un po’ distante da Nzérékoré e situato in campagna, non possiede un campetto di gioco né tanto meno scuole calcio: queste si trovano solo nella capitale. Anche Cherif vi partecipa senza scarpini da calcio, ma scalzo o con ciabatte di plastica cinese che, una volte che si rompevano, venivano riscaldate per far fondere la gomma e riappiccicare le parti che si erano staccate.

Cherif racconta al Di Feo l’eterna lotta tra i Malenke, un tempo mercanti itineranti provenienti da ovest, convertitisi all’islam, e i Guerzè contadini e pastori perlopiù di fede cristiana. Gli scontri emergono anche al di fuori dei cambiamenti politici nella capitale, in cui si susseguono colpi di stato militari e portano periodicamente bande di giovani a scontrarsi, ad ammazzarsi, ad incendiare, a distruggere moschee e chiese.

La famiglia di Cherif , composta da padre e madre, un fratello più grande detto Mory e una sorella maggiore saggia e severa, tenta in tutti i modi di tenere fuori Mory da tutto questo, ma lui è una testa calda e si butta nella mischia: per rappresaglia viene ucciso il padre che è l’imam della piccola moschea del villaggio, durante una aggressione in casa loro. Mory è costretto a scappare, solo in seguito si saprà che ha raggiunto El-Gatrun in Libia; la madre, qualche tempo dopo, muore di ebola. Anche Cherif partirà, cercando di raggiungere il fratello che ha messo su una piccola officina meccanica che ricicla scarti e rottami. Ha solo 14-15 anni e sopravvive nella prima parte del viaggio, con i pochi soldi inviati dal fratello, dribblando (è il caso di dirlo) imbroglioni, predoni, fame e sete, rimuginando nella sua testa le partite giocate con i suoi 5-6 amici inseparabili, con i ragazzi più grandi, ammirati dalla sua capacità di correre e tirare con forza, dimostrando una incredibile energia, in cui si sbolliva la rabbia di una vita incerta e di un futuro in costante pericolo.

Sempre in testa il suo sogno: “sono Cherif e voglio fare il calciatore” è il biglietto da visita per tutti, anche per i carcerieri e torturatori che lui e suo fratello Mory incontreranno quando decideranno di raggiungere Tripoli o Bengasi per imbarcarsi per l’Europa. Apprendiamo di ingegnosi sistemi per ingannare la fame o per nascondere i soldi ai libici, cittadini o militari poco importa, i migranti sono una mucca da mungere finché hanno latte per tutti… Perfino nelle situazioni più impensate Cherif riesce a calciare qualche tiro o a ripassare le azioni che portavano la sua squadretta a vincere: si sente anche la passione del giornalista sportivo Di Feo che  le presenta con il linguaggio specifico della cronaca calcistica. Lui, tifoso dell’Avellino, auspica per l’amico proprio l’ingresso in questa squadra.

Tutto questo lo ha bene in mente suo fratello quando partono per l’Italia con un barcone da 60 persone in cui ne vengono stipate 143: nel momento del naufragio darà a suo fratello minore uno dei 5 giubbotti di salvataggio, unica dotazione del natante per più di un centinaio di persone. Mory vede suo fratello bere acqua di mare e benzina, annaspare e abbandonarsi all’inevitabile e gli dice:” Salvati tu che hai un sogno da raggiungere”. Solo una ventina di loro sarà salvata e Cherif apprenderà della morte del fratello, al suo risveglio in ospedale.

Il giovane, ormai diciassettenne, dopo gli anni trascorsi in Libia per mettere da parte un po’ di soldi per partire, da quel momento in poi mostra una capacità di resilienza formidabile: supera gli ostacoli di un malconcio centro di accoglienza vicino Reggio Calabria, impara da solo l’italiano, è aperto alla speranza e fa incontri positivi con molte persone, specie tra coloro che si occupano di migranti. Anche in Libia aveva incontrato gente che lo aveva aiutato, ma in Italia, dichiarando a tutti il suo intento di diventare calciatore riesce a conoscere persone utili per ciò che gli sta a cuore: è un ragazzo che riesce ad attivare forze positive intorno a sé che lo conducono ad un centro di accoglienza vicino Padova, dopo avere organizzato una civile dimostrazione alla prefettura di Reggio, per i diritti di tutti i migranti. E’ lì che comincia ad allenarsi sul serio e a farsi notare da esperti allenatori. Riesce anche fisicamente a superare un’asma seria dovuta al contatto, in mare, della benzina con i suoi polmoni.

Alla domanda “ma tu in che ruolo giochi?” non sa cosa rispondere se non “tutti”: le partite nelle stradine del villaggio non c’entravano nulla con le regole del calcio giocato dalle squadre organizzate. Comunque le potenzialità del suo modo di fare vengono notate e arriverà, grazie alle giovanili del Padova con un mitico allenatore che si affezionerà a lui, ad indossare, sia pure per poco, la maglia di una squadra vera di campionato.

Non è tutto rosa e fiori, gli incubi del naufragio lo perseguitano ancora, il senso di colpa nei confronti del sacrificio di suo fratello, la mancanza della sorella, unico membro della sua famiglia rimasto, lasciano dei solchi nel suo animo. Ma ha ricominciato a vivere: è riuscito a rintracciare per telefono sua sorella, anche qualcuno dei suoi vecchi amici di pallone, utilizzando il computer di cui si è impratichito, ha incontrato nuovi amici che gli vogliono bene. Lui ha fiducia e aspetta.” Se tu prendi una strada, Allah ti darà il suo aiuto” gli insegnava suo padre. La fede e il pallone lo accompagnano sempre.

Una scuola di italiano per stranieri ad Albinea, in Emilia Romagna, ha voluto dedicare il locale al fratello Mory Karamoko, a memoria di quanti sprofondano nel Mediterraneo, dopo odissee impensabili, sacrifici e soprusi.

Dietro i numeri dei naufraghi ci sono persone con le loro storie e speranze. Oggi che l’Europa intera si sta giustamente occupando dei rifugiati ucraini non deve dimenticare che anche dall’Africa (e non solo) si scappa per guerre, fame e violenze e si continua a morire in mare o di freddo e fame nei boschi della rotta balcanica.

 

 

 

 

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