Djarah Kan
Ladri di denti
people srl, 2020
Il titolo stesso di questo romanzo, opera di una giovane italo-ghanese, fa riferimento all'esproprio di qualcosa che permette l'identificazione di un uomo. Qualcosa di morto, di irrecuperabile, perché così è stato decretato dalla società che lo circonda. Djarah Kan fa parte di quella schiera emergente di giovani scrittrici di origine africana ma italiane a tutti gli effetti; si fa strada in loro quell'urgenza di rompere il muro del razzismo, di dare voce all'inesprimibile, di creare delle vere relazioni di amicizia e di solidarietà. Nel blog Kasava Call, che ha creato con un suo amico fotografo, parla in maniera costante di Castel Volturno, città di mare con un vissuto difficile da districare, ma in cui si parla del quotidiano, non solo di scene apocalittiche.
Diarah scrive anche per numerose riviste e recentemente giunge a partecipare all' International Writing Program dell'università americana dell'Iowa. Un grande amore per l'attività sociale dunque, congiunto all'amore per la scrittura. Infatti oltre ad essere un libro scritto molto bene e con grande ammirazione per la poetica di Toni Morrison, il testo serve a far riflettere su grandi temi dell'umanità in un momento ancora più difficile di comunicazione come quello che stiamo attraversando a causa della pandemia.
Ci troviamo di fronte a sette racconti che permettono anche un esercizio di stile su diversi generi. Colpisce più di tutti il capitolo dove parla della conoscenza della propria storia. Chi vorrebbe fare il maestro di vita incitandola a ristudiare la propria storia, la storia della propria terra, del colonialismo, della diaspora, è veramente cosciente del ruolo che ha avuto la storia del suo paese nelle storie degli altri? Questa parola, “la storia degli altri” mi evoca il titolo di un film meraviglioso “Le vite degli altri”. dove un servo del potere entra in contatto ( durante il suo servizio di spionaggio) con una coppia innamorata messa sotto sorveglianza dalla Stasi. E si trasforma scoprendo il loro amore, il suo cuore si trasforma, non sarà più lo stesso, non potrà più servire il suo padrone come prima, avrà paura e sarà sconvolto dal suo cambiamento ma non potrà farne a meno. La conoscenza del bene, la possibilità data a tutti di conoscere il bene è quello che si desidera in fondo.
Ma per tornare alla giovane autrice, quando si guarda intorno, nella cittadina del sud Italia che è la sua patria, scopre atteggiamenti spaventosi di razzismo, per esempio nelle donne bianche coalizzate contro le prostitute nigeriane che lavorano sulla Domiziana e armate di mazze e bastoni decidono di dare loro la caccia per recuperare i propri mariti. La cosa più tremenda è l'associazione che fanno tra le prostitute e qualsiasi donna nera che incontrano, così la giovane protagonista si sente insultata a scuola dal compagno di classe con la parola “puttana” e lei che tristemente se lo aspettava, pensa: “erano capaci di riconoscere la differenza tra un croissant e una sfogliatella napoletana, tra un quadro di Giotto e uno di Van Gogh, ma lo stesso criterio di differenziazione era pressoché impossibile da applicare per un essere umano come me.”; perché per i compagni e le compagne di classe lei era la bestia che diventa padrona, grazie al potere seduttivo del suo corpo.
Le psicologie femminili sono molto accurate fin dal primo racconto dove troviamo un'anziana “zia” nigeriana che accoglie la ragazza protagonista del racconto quando si rifugia da lei dopo l'ennesima lite familiare. I legami di amicizia sono più forti a volte di quelli di sangue, la chiama zia ma in realtà non è sua parente. E' una donna che porta con sé le antiche credenze africane, l'antico modo di cucinare e dedicarsi agli altri, una forma di genuinità rassicurante. A lei può confidare il tormento che la assale per la perdita in mare della giovane amica Fati. L'ha vista in televisione durante il recupero dei cadaveri annegati nel Mediterraneo, scene consuete che molti guardano mentre stanno mangiando, come uno spettacolo qualsiasi, così anche nella sua famiglia.
Anche la coppia di amiche Santa e Jess, l'una bianca e l'altra nera che hanno condiviso gli stessi disagi come la droga, l'omosessualità insultata, la famiglia ostile, costituiscono un ritratto vivo e convincente di storie consimili dove il razzismo si insinua in un'amicizia che si riteneva inattaccabile.
Un risvolto agghiacciante e commovente si annida nella storia di Topo, così viene chiamato dalla gente del quartiere per via della sua bassa statura e della pelle scura; la ragazzina che lo osserva, sa che è diventato matto per non essere riuscito a regolarizzare la sua posizione giuridica in Italia. Intanto lei, non potendo fare altro che i servizi sociali ( anche loro con i loro limiti mentali) non siano riusciti a fare, chiede alla madre il vero nome di Topo e decide , una volta che gli capiti di incontrarlo, di chiamarlo per nome. Con il suo vero nome: “Chissà se si sarebbe voltato. Chissà. E chissà se avrebbe ricordato.”
Nel racconto “Il Re leone”, con molta ironia, la protagonista racconta gli approcci delle persone sul suo essere africana che disegnano un'Africa molto stereotipata e immaginaria. Ma lei, per non deluderli e soprattutto per uscire dall'invisibilità, li accontenta: sì, lei ha visto i leoni, ma non solo, anche le antilopi, e ha vissuto in una capanna dove di notte sciamani e stregoni compivano sacrifici umani! Un immagine povera e riduttiva che trascura tanti altri aspetti e storie dell'Africa. Eppure stupidamente “l'Europa ha bisogno di un'Africa così […] dove l'animo umano si liberi dalle briglie del capitalismo e dall'assenza di pulsioni”.
Nel racconto finale si ripresentano ( come nel racconto iniziale) i notiziari della tv sui barconi rovesciati e sui morti annegati in mare “i morti che ingozzavano la pancia del Mediterraneo nero”; vicende seguite distrattamente ormai, ma legate qui ai racconti d'infanzia che la madre faceva sulle persone scomparse che ritornano con altre sembianze ma riconoscibili come appartenenti a un altro mondo. Ebbene, “l'acqua tratteneva ogni cosa ma non gli spiriti degli africani morti”. Sembra il controcanto della famosa poesia di Birago Diop “I morti non sono morti”. E l'autrice aggiunge: “Gli spiriti dei morti non svaniscono con gli slogan dei ministri degli Interni. [...] Loro sussurrano. Piano. E lo faranno fino a che non realizzerete che non esiste un Dio, né un paradiso abbastanza grande per accogliere i crimini di questa Europa maledetta...”
Il libro è dedicato alla memoria della madre dell'autrice, grande attivista che ha creduto nell'immigrazione e partecipato a molte iniziative. Djarah è cresciuta accanto a lei , non è mai stata in Africa. I racconti che faceva sul re Leone erano bugie di difesa. Per questo non vuole essere considerata “l'immigrata che ce l'ha fatta”. Leggendo alcune sue interviste, rende ragione del titolo “Ladri di denti” dicendo che quando non puoi comunicare, interagire con gli altri è come se ti avessero tolto i denti, è come avere una bocca che non ti permette più di parlare. Ma il suo dolore non è solo suo, è quello di una qualsiasi povera ragazza italiana che vive in una provincia del Sud, isolata e repressa; è quella dell'immigrato abbandonato a se stesso, del transgender deriso e bullizzato. E per finire, rendiamoci conto che l'Italia non è più un paese solo per bianchi.