Esperance Hakuzwimana Ripanti
E POI BASTA
Manifesto di una donna nera italiana
People Storie, 2020
La perentorietà del titolo, il riassunto della sua vita in tre parole: donna, nera, italiana, la tipologia del suo scritto, un manifesto, ce la dice lunga su che cosa ci si debba aspettare da questa autrice e da questo testo. Manca un dato che aggiungiamo subito, la sua età, 28 anni: un elemento, l'età, su cui Espérance insiste molto, perché ci spiega tutte le sue fasi e trasformazioni e anche in quali tempi è stata costretta a crescere.
Il suo libro non è facile da definire: un po' diario, un po' saggio, a tratti contenitore di appunti e notizie di cronaca, autobiografia e fiction con la presenza di un epistolario con un amore lontano, partito da tempo per non si sa dove e per fare che cosa, misterioso e onnipresente nelle scelte della giovane scrittrice e le cui lettere di risposta arrivano censurate. La scrittura suscita commozione e contemporaneamente, a tratti, anche rigetto, per la durezza del linguaggio usato, per la adamantina sicurezza da giovane ribelle, ma incanta per la forza delle idee e delle convinzioni perseguite con tenacia.
Il fatto fondante della sua vita è stato il trasferimento, nel 1994, in Italia dal Rwanda all'età di circa tre anni e mezzo, insieme ad una quarantina di orfani e bambini abbandonati di un hospice estremamente in pericolo a causa della guerra civile nel paese, dato che ospitava sia hutu che tutsi. Dell'operazione è protagonista un'associazione bresciana, composta di volontari , molti dei quali poi si trasformano in genitori adottivi. L'impresa meritoria viene valutata dall'autrice per quello che era: fatta da gente generosa e solidale, ma spesso, rifletterà più tardi, assolutamente impreparata ad affrontare un'adozione internazionale, senza idea di come avrebbe dovuto aiutare questi bambini, senza un reale cambio di mentalità che avrebbe potuto suggerire come approcciare la realtà dei contesti in cui li inserivano. Per esempio, lei viene portata dai suoi genitori a vivere in un paese del bresciano in cui è l'unica persona nera nel circondario . Questo non vuol dire che le sia mancato l'affetto, ma sicuramente è venuto meno l'aiuto adeguato di cui aveva bisogno. Non aiuta il buonismo, non basta rassicurare il bambino che "siamo tutti uguali", "che a me il colore della tua pelle non importa" per fugare dubbi minacciosi, rabbie e risentimenti.
In realtà, nella sua infanzia, lei si percepisce bianca come gli altri e solo più tardi capirà di essere di un altro colore: questo non toglie la curiosità malsana dei compaesani nei suoi confronti o il razzismo implicito e involontario di certe frasi o atteggiamenti del suo parentado. L'infanzia se la ricorda felice e spensierata come quella di un bambino ben nutrito, educato, portato in vacanza, amato da genitori, zii e cugini.
Però, però ... Qualcosa le resta attaccato e comincia ad emergere durante la scolarizzazione, in cui cerca di far dimenticare a maestri e professori, ai compagni e alle amiche del cuore la sua origine, rifugiandosi in una umbratilità e trasparenza: non si espone mai, non alza la mano, anche se sa la risposta, non prende iniziative, se non di "caciara" e scherzi verbali, invenzioni linguistiche, poesiole e filastrocche con cui descrive e allieta i compagni, tanto che nelle sue note la si descrive di comportamento esuberante. Un buon giullare inoffensivo.
Le frasi e i comportamenti altrui cominciano a infastidirla e a ferirla, ma ancora non sa perché esattamente, non sa come reagire, oscillando tra rabbie improvvise e muti ritiri in se stessa. Che capelli strani, posso toccarli? E' la domanda più frequente che le capita: compagni di scuola, vecchiette al supermercato, signore alla fermata dell'autobus. Di dove sei? E' la richiesta più deprimente per una che innocentemente rispondeva dando l'indirizzo di casa di un paese bresciano. Si, ma da dove vieni veramente? Domanda che segnalava immediatamente e in modo proditorio la distanza, un 'non sei dei nostri'. Più grande risponderà provocatoriamente: sono italiana e bresciana, non si sente dal mio accento lombardo?
Come ha fatto a resistere a questi assalti di non accettazione ce lo dice, quando descrive due personaggi che l'hanno aiutata: un pupazzo di nome Bubu, acquistato da Ikea, nero come lei e una entità immaginaria che lei nomina come Anna.
Bubu le offre qualcuno in cui riconoscersi, in cui identificarsi, dato che i confronti tra la pelle bianca e i capelli biondi e lisci che incontrava facevano a pugni con lo specchio in cui vedeva riflessa impietosamente la sua immagine diversa. A Bubu, nel corso degli anni confiderà le sue amarezze o le sue gioie, finché un brutto giorno - ma lei è già grande- sarà perso in un trasloco per sbaglio, quasi preannunciando la fine degli atteggiamenti in cui si era rinchiusa fin dalla sua infanzia.
Espérance ha sempre saputo di essere adottata, questo non toglie che vivesse con un buco iniziale dell'incipit della sua storia personale che diventa più grave nel momento che scopre che i suoi genitori non sono morti al momento della nascita, che lei una madre l'ha avuta portata via dall'Hiv, che un padre dolorosamente l'ha portata in un orfanotrofio quando aveva un anno, al momento di unirsi con un'altra donna, e che è forse vivo da qualche parte.
La forza di resistere dissimulando, portando pazienza, una specie di luce di emergenza che si accendeva per frenarla, per sopportare l'Africa che aveva dentro e sulla sua pelle, che le provocava uno spaesamento che non riusciva a spiegarsi: questo veniva da Anna .
Anna che l'ha aiutata a vivere, più o meno come gli altri bambini e ragazzi italiani, ma l'ha anche imprigionata nella sua voglia di cercare di capire come stessero veramente le cose e di rendersi conto di quanto fosse giusto ribellarsi. Così Anna ad un certo punto scompare. Espérance si sente persa, ma anche finalmente libera.
Ma un terzo elemento è stato importante per crescere: i libri e le biblioteche. Scoprire altri mondi, altre possibilità di risposte, coltivare la fantasia è stato il suo serbatoio di idee e sogni; più tardi, attraverso le letture da adulta, comprendere quanto ha contato il fascismo e il colonialismo italiano nella mentalità dell'italiano medio, agendo in modo subdolo e ipocrita, conoscere le storie e le parole delle scrittrici e attiviste afroamericane e delle donne italiane afrodiscendenti ( scrittrici e non) come lei, le ha spalancato un mondo impensabile, fino a quel momento.
Dopo un periodo, coincidente con gli ultimi anni delle superiori e in parte con l'università, in cui si è rinchiusa come i suoi coetanei in musica, sesso e web, vacanze e prime esperienze amorose importanti, escursioni in natura e solenni ubriacature di birra, arriva la doccia bollente della rivolta. Contro i genitori adottivi, in particolar modo la madre, contro la tv e i giornali, contro la gente, che la etichettava, al solo vederla, ora come badante-colf, ora come l'ultima rifugiata appena raccolta da qualche barcone in cerca di come sbarcare il lunario, ora impossibilitata ad essere definita come qualsiasi universitaria italiana ( ma come parli bene l'italiano! vai all'università?!! Come hai fatto con i soldi?) ora come possibile prostituta, naturalmente nigeriana, o come eventuale ballerina o cantante ( sappiamo quanto ritmo avete nel sangue...).
C'è un paragrafo dal titolo "Antirazzista wannabe "che leggiamo con i brividi, perché in ogni esempio possiamo scorgere qualche nostro atteggiamento, frase inopportuna detta con leggerezza o pensiero nascosto in cui riconoscerci, chi più chi meno. Quel nanorazzismo di cui parla il filosofo Mbembe,di cui neanche ce ne accorgiamo, non avendo la stessa sensibilità di chi ne è oggetto. Esagerazione? Suscettibilità esasperata? Così molti amici di Epérance etichettano la sua rabbia, sminuendone la giusta carica eversiva. Un vero inferno per Espérance alla ricerca del suo posto nel mondo.
Comincia un passaggio da una città all'altra, un continuo cambio di case che non sente mai sue, con coinquilini, a cui però non osa sottolineare mai i sottintesi vagamente o scopertamente razzisti di certe frasi, un passaggio di facoltà universitaria più o meno giustificato, la improvvisa frequentazione della Scuola di scrittura Holden di Torino, un susseguirsi di lavori precari e malpagati, sempre eternamente innamorata e sempre sola.
Ma da questa sarabanda a 26 anni decide di uscire. Quello che aveva sempre scritto in raccontini e pagine di diario ora è decisa a viverlo: la scintilla è la conoscenza tramite web di altre donne nella sua stessa situazione. “Allora non sono sola”...e la frase riecheggia un avvenimento basilare della sua infanzia. Nessuno si era mai spiegata la sua fissazione di andare al supermercato Conad di via Corsica a Flero, il suo paese. Là , un giorno, che aveva avuto per lei il sapore del miracolo, aveva visto, per la prima volta, un uomo nero come lei, che l'aveva salutata con un "ciao, sorella", a cui non aveva saputo rispondere per la sorpresa. Era tornata tante volte al market nella speranza d'incontrarlo e di parlargli, per riconoscersi finalmente.
Dalla conoscenza di queste donne, dal racconto delle loro vite ed esperienze, prende coraggio e diventa un'attivista di movimento, di associazioni, di radio che vogliano accogliere la sua voce libera, di instancabile creatrice di progetti.
Il passo è breve per arrivare ad un ruolo pubblico, a cui in realtà non voleva arrivare. Non voglio fare l'attivista, reca nel titolo un capitolo del suo libro, voglio fare la scrittrice ( per cui si è preparata da molto tempo). Cioè non vorrebbe essere costretta a farlo se gli ultimi anni di politica insensata e sciagurata, il susseguirsi di eventi drammatici, e non solo riguardanti migranti e stranieri, il ridursi della democrazia e dei diritti di tutti, un ruolo dei media sempre più inchiodati sul tema della paura e della perdita identitaria occidentale, non l'avessero, quasi a forza gettata nell'agone, per non sentire solo la paura di essere aggredita come donna e come nera e cancellata nella sua pretesa di essere apprezzata per quello che è, che fa o sogna di fare e non da dove viene . Una normale ragazza italiana nera...
Ma ormai siamo in guerra, dice, e si deve scendere a combattere con le armi che abbiamo a disposizione, con una voce resa più forte dal fatto di essere oramai in tanti e di essere stati inascoltati per molto tempo. Li nomina uno per uno i suoi compagni, i vivi e i morti, ricordando i nomi e le fattezze, a lungo nascosti dai numeri delle statistiche. Se non hai nome, faccia e voce è facile dimenticarti o distruggerti.
C'è un'immagine molto bella con cui presenta questa nuova lotta: zaino in spalle, salire su un autobus su cui vanno e vengono molti giovani, sconosciuti ma ad un tempo intimi e complici; la fine del viaggio sconosciuta, la destinazione anche, ma in lei la interiore sicurezza che è la cosa giusta da fare. Just do it, come esortava negli anni '80 Spike Lee.