Federico Faloppa
Sbiancare un Etiope - La costruzione di un immaginario razzista
Utet, 2022
Nell’attuale momento storico stanno avanzando movimenti xenofobi e in Italia così come in vari paesi europei si denunciano sempre più spesso episodi di razzismo. Diversi studiosi, anche con competenze diverse, provano a vagliare da una parte i concetti di alterità, identità e differenza, dall’altra i processi di discriminazione ed esclusione, per comprendere le relazioni sociali dell’Altro, dello straniero.
A misurare quanto profonde siano le nostre convinzioni sulle differenze biologiche e culturali e come se ne debba parlare, alcuni scelgono la prospettiva della genetica per decostruire le presunte basi scientifiche del razzismo; altri usano un approccio antropologico per comprendere certe nuove declinazioni di carattere culturale; in particolare, psicologi e giuristi usano lo sguardo socio-giuridico per comprendere come le insidie del razzismo si celino anche nelle istituzioni «democratiche».
Con gli strumenti della linguistica e della filologia ma con il piglio dello studioso della cultura di stampo francofortese, Federico Faloppa, compie un'analisi linguistica utile a capire gli elementi discriminatori che mettiamo in atto, spesso inconsciamente: la storia del topos biblico-letterario ‘Sbiancare un Etiope’, presente già nelle favole di Esòpo, e la ricezione storico-culturale del portato tematico-semantico della bellezza femminile legata alla pelle bianca in epoca contemporanea, che rivela le origini antiche della pratica dello sbiancamento chimico della pelle nelle popolazioni africane o di origine africana.
Si tratta di un topos retorico e stilistico che ha attraversato lingue e culture, non solo europee, spesso con la sostituzione dell’ultima parola con moro o nero; d’altra parte dal VII-VI a.C. la forma plurale di Aith í ops – Aith í opes – diventò in greco il nome collettivo dei popoli che vivevano a sud del Sahara. L’espressione ha il significato di ‘fare uno sforzo inutile’ o di ‘tentare un’impresa impossibile’. Si tratta di fonti greche, latine (le Naturales Quaestiones di Seneca, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio) e bibliche (si pensi solo alla fama del re Salomone e della regina di Saba).
In questo straordinario saggio, l’Autore, raccoglie frammenti e ricostruisce vicende muovendosi tra proverbi popolari, fiabe antiche e commedie secentesche, affreschi medievali e dipinti rinascimentali, vignette satiriche e manifesti pubblicitari, pamphlet politici e romanzi autobiografici. Si scopre così che la favola attribuita a Esòpo del servo (nero) lavato e sfregato dal proprio padrone, trova nei libri per bambini di epoca moderna risvolti moraleggianti e pedagogici sull'immutabilità della natura e dell'ordine sociale, o che il battesimo dell'etiope raccontato negli Atti degli Apostoli diventa motivo iconografico privilegiato nell'Olanda post-Riforma protestante (con una connotazione razzista che diventerà nel tempo un emblema schiavista); di seguito troveremo questo emblema nella poesia burlesca; nella propaganda fascista, nella pubblicità di saponi a partire da fine ‘800 fino ad arrivare a Calimero, il pulcino nero sbiancato da un detersivo che ha segnato l'immaginario italiano del secondo dopoguerra, suggerendo ipotesi che potranno interessare tanto gli storici del linguaggio, quanto gli studiosi e gli appassionati di tematiche interculturali.
Innanzitutto l’espressione Sbiancare un Etiope o lavare la testa al moro, già in uso presso gli antichi greci, è un modo per affermare l’inutilità di un’azione, l’impossibilità di un certo stato di cose, oppure la presenza di un affare poco pulito, elogiato con un’indegna lode.
Dunque lo stereotipo Sbiancare un Etiope, ha radici molto solide, e, soprattutto, muta, si adatta, cambia forma in senso linguistico e culturale. Si inizia con la disamina del proverbio, ma poi quel concetto di sbiancamento passa attraverso il teatro, la religione, la letteratura in genere, la letteratura alchemica in particolare, e infine la pubblicità. Come si spiega questa metamorfosi?
Il topos Sbiancare un Etiope è uno dei temi di lunga durata, è un motivo che classicamente si ripresenta, a vari livelli e in vari testi, tradotto o risemantizzato, potentissimo, e quando si ripresenta non è per caso. La cosa interessante è che avendo potere allegorico e figurale così forte, uno degli sbocchi è quello visuale: vedere una persona che ne sbianca un’altra ha un forte potere comunicativo, rimane impresso.
Questa formula tipica si diffonde molto, soprattutto nella cultura e nella letteratura inglese, in cui la parola viene trasformata in ‘moor’. Ci sono molte teorie teologiche che vengono sviluppate da parte di teologi anglicani sull’impossibilità di convertire (non solo lavare). Questa espressione diventa talmente popolare che la troviamo anche nelle insegne di locali pubblici (pub): per esempio Labour in vain (faticare invano). C’è stato, e c’è ancora, il tentativo colto di interpretare tale topos attraverso la letteratura alchemica (forma di conoscenza alternativa al logos, mossa dall’ambizione prometeica di svelare i segreti della natura per trasformarla). Ma tutto ciò come è possibile?
Il nostro immaginario parte dal bianco come virtù. Nell’immaginario occidentale, chi ha la pelle scura per secoli è stato demonizzato e bollato come inferiore, persino sporco. Tuttavia il discorso in merito non è semplificabile perché a elementi della tradizione si intrecciano elementi culturali di spessore.
Questo saggio di Faloppa non è un libro facile, ma è un libro necessario. Non è facile perché da studioso del linguaggio, rigoroso nella ricerca filologica, l’autore affastella una messe ricchissima di fonti letterarie, storiche e iconografiche. Sono tante, tantissime le testimonianze che l’autore esamina, cataloga, seziona per evidenziare scarti semantici e culturali, dall’antichità greca alle pubblicità del XX secolo. Eppure, è necessario: perché alla fine di questo tortuoso e affascinante percorso ci siamo proprio noi, quale che sia il colore della nostra pelle.
Inoltre, Sbiancare un Etiope è un saggio che vanta una bibliografia variegata, scritta con un calibrato uso dell’erudizione, mai fine a sé stessa, ma funzionale alla sollevazione di una sostanziale questione: i rischi della “fissazione” di certi modi di dire, autentiche spie delle rigidità di una mentalità collettiva, non ultimo il razzismo e la discriminazione sociale.
L’autore fornisce poi il meglio delle sue competenze negli ultimi capitoli: non solo nella ricognizione sull’adynaton, cioè sulla figura retorica che è alla base del luogo comune paradossale che ha avuto fortuna nella letteratura iniziatica ed esoterica, proprio in riferimento alla purificazione dell’impuro (al nero da purificare attraverso la sbiancatura); ma anche e soprattutto nell’analisi delle vicende colonialiste della società inglese Pears’Soap, della sua strategia (anche iconografica) propagandistica connessa all’urgenza di “sbiancare” i neri, oltre che a conservare i propri privilegi sulle materie prime attraverso ingerenze politiche.
Interessante poi l’ultimo capitolo, incentrato sugli esiti della ricerca nelle scuole compiuta da Paola Tabet, riguardo al tema “Se i miei genitori fossero neri”? Qui emerge il nocciolo della questione: interrogarsi, come adulti ma anche come civiltà intera, in modo serio, quando i bambini auspicano lo sbiancamento dei neri come soluzione ai rapporti interculturali, verificando con coraggio se il passato coloniale e il presente globalizzato siano stati criticamente metabolizzati.
Insomma, c’è ancora molta strada per ripulire il linguaggio e l’immaginario da stereotipi razzisti usati in modo più o meno consapevole. Se siamo bianchi, questo testo può farci capire fino a che punto non è vero che il colore della pelle è irrilevante per noi. Se siamo neri, ci aiuta a capire meglio come, almeno in Occidente, siamo stati rappresentati e pensati. In entrambi i casi, si tratta di una riflessione incredibilmente utile per combattere il razzismo e la discriminazione.