Francesco Jovine - Scritti africani - recensione a cura di Rosella Clavari

Francesco Jovine

Scritti africani

a cura di Alberto Sana

Cosmo Iannone Editore , 2023

 

 

 

Vediamo spesso impegnato il lavoro dell’editoria (soprattutto nel versante della storia e letteratura africana) sui sentieri della ricerca, riscoprendo testi scritti molti anni addietro da autori a volte dimenticati.

È il caso di Francesco Jovine per cui la Cosmo Iannone si propone la riedizione delle opere principali tra cui questo testo, scritto da lui quando era direttore didattico delle scuole italiane in Tunisia e in Egitto tra il 1937 e il 1940.

Nato in Molise nel 1902 e morto prematuramente a Roma nel 1950, Jovine proviene da una famiglia di contadini ma grazie al dono di una biblioteca nella casa paterna, si appassiona subito alla letteratura ed uscirà da quel mondo arcaico da lui sempre amato per laurearsi a Roma nella facoltà di Magistero e divenire in seguito, più appassionato, per la verità, alla scrittura di romanzi e al giornalismo che all’insegnamento, direttore didattico. In letteratura si schierò a favore del realismo, trattando con ironia sia la retorica dannunziana che il cerebralismo di Pirandello, nella linea dei grandi romanzieri realisti di fine ‘800 come Verga. Si avvicina al marxismo ed è insofferente del regime fascista finché nel 1937 non decide di allontanarsi dall’Italia con la moglie, recandosi appunto in Africa.

È necessaria questa premessa biografica per capire la disposizione d’animo di Jovine recandosi prima a Tunisi (1937-38) e poi a Il Cairo (1939-40) ; un breve periodo poiché nel 1940 farà ritorno in patria e dopo il 1943 aderirà alla Resistenza antifascista.

Nelle terre d’Africa scopre delle consonanze con la terra delle sue origini, il Molise. Elemento fondante della sua narrativa è stato proprio il profondo amore per quella terra di gente umile e povera, per il mondo contadino con cui aveva vissuto a stretto contatto per tutta l’infanzia. E scopre anche un lato interessante dell’Italia, quello degli emigrati in Africa, delle persone povere provenienti dal sud Italia che si sono imposti con il loro lavoro e le loro tradizioni in quella terra apparentemente ostile.

A proposito dei lavoratori italiani residenti in Egitto, Jovine nota che, numerosi negli anni ‘30, vengono pian piano privati del lavoro, dato che i capitali delle imprese erano in prevalenza anglo-francesi. Interessante è la descrizione che fa di un impresario pugliese, in Egitto da quarantacinque anni “e vi era arrivato come scalpellino, con i soli strumenti di lavoro e poche lire” . Quando era arrivato, erano secoli che nessuno sapeva più tagliare il granito rosso delle cave (dove sono usciti gli obelischi) e lui poté insegnarlo a tutti arrivando ad avere alle sue dipendenze ben cinquecento scalpellini italiani. Poi però aveva deciso di tornare in Puglia.

Un discorso a parte meritano i padri e le suore missionarie. In Egitto, sottolinea Jovine, ci sono missionari di tutti i paesi e di tutte le religioni ma in luoghi e situazioni abbastanza confortevoli, mentre dove c’è tutto da fare, “dove occorre energia e abnegazione, ci sono le Missioni italiane”.

Le riflessioni dell’autore vertono anche sulle due presenze considerate sacre in Egitto: il Nilo e il sole. Afferma che il Nilo, di cui tanto hanno studiato le fonti, per il fellah arriva dal cielo; il sole che rende tutto accecante e immobile, mette in rilievo la diversità tra egiziani ed europei ; i primi in veste di mercanti si muovono assecondando la frenesia e l’inquietudine dei secondi e propongono mercanzia di ogni genere pedinando i clienti incessantemente. Jovine non manca di umorismo e ironia nel tratteggiare questi bozzetti di vita quotidiana e nell’osservare l’immobilità degli egiziani e la nostra frenesia. Ma anche nel cogliere la verità dei luoghi: sia nella moderna via Jules Ferry di giorno gremita di gente , la sera deserta e tetra, una via messa su da gente “che ha costruito le case senza intenzione di fermarcisi” con “l’assenza di ogni programma estetico” avendo speso del denaro per fare altro denaro; sia nelle campagne silenziose abitate dalla povertà e da famiglie dove vige la poligamia mentre tra i ricchi non esiste più.

Il testo è corredato anche da due racconti molto intensi: Il terzo figlio (un bambino nato da una stupro durante la guerra, e un contadino che ritorna in Italia dopo la prigionia africana, lo ritrova, amara sorpresa, accanto alla moglie e ai suoi due figli) e il drammatico racconto di un omicidio in Notte alla Daira Bartley .

Dobbiamo constatare che questo testo, riproposto alla nostra attenzione, offre molti stimoli di lettura: per esempio parlando del collega letterato Enrico Pea, amico di Giuseppe Ungaretti, ci rammenta che questi in Alessandria di Egitto fondò nella propria soffitta la “Baracca rossa”, un luogo di ritrovo di intellettuali e anarchici di molte nazioni. Oppure la riflessione sul “caso” che domina tutta la vita degli egiziani “un popolo che attende che la fortuna, il felice avverarsi di qualche eccezionale congiuntura, li liberi dalla miseria e dalla servitù”, ci fa capire come l’autore privilegi, anche per altre notazioni di costume, un punto di vista sociologico e antropologico. E inoltre, avendo conosciuto lo stile di un racconto portato avanti con arguzia e profondità, ci spinge a rileggere i libri scritti da Jovine (riproposti dalla Cosmo Iannone) tra cui Le terre del Sacramento, premiato dopo la morte dell’autore, ma tutti meritevoli di considerazione.

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