Elena Rausa - Le invisibili - recensione a cura di Rosella Clavari

Elena Rausa

Le invisibili

Neri Pozza, 2024

 

Le invisibili di cui si parla nel romanzo in questione, sono le tante figure femminili apparentemente vinte, sottomesse, segnate dalla sofferenza, ma in realtà simbolo più evidente della resilienza per la loro capacità di amare e dare senza risparmiarsi.

Tutto ciò sullo sfondo di una lunga storia di colonialismo italiano in Etiopia ed Eritrea con tutto il rimosso che implica di fronte ai crimini di guerra purtroppo compiuti dal regio esercito italiano. In fondo al testo, vengono ricordati i momenti salienti di questa guerra coloniale contro l’Etiopia: dal Trattato di Uccialli del 1889 all’inizio della guerra d’Etiopia il 3 ottobre 1935; si data da questo momento l’uso delle armi chimiche, triste preludio al massacro di Addis Abeba (19 febbraio 1937) dove in seguito all’attentato contro il vicerè Rodolfo Graziani, la feroce rappresaglia dell’esercito italiano porterà all’uccisione di migliaia di persone (si calcola fino a seimila); nel maggio del 1937 la strage di Debra Libanos porterà alla morte di oltre duemila persone tra monaci, diaconi e pellegrini e ancora l’uso delle armi chimiche nella strage di Gaia Zerat (aprile del 1939) resa ancora più atroce per le vittime intrappolate nella Grotta; infine nel gennaio del 1941, sotto l’attacco degli inglesi e il ritorno del negus tra gli etiopi, l’Italia perde definitivamente l’Etiopia; è stata una breve dominazione tra il 1935 e il 1941 mentre in Eritrea il periodo è stato più lungo (a partire dal 1890). L ’AOI (Africa orientale italiana), proclamata nel 1936 da Mussolini come unione dell’Impero di Etiopia, con la colonia Eritrea e la Somalia, decade nel 1941 e chiude questo triste capitolo storico, bagnato di tanto sangue.

Nel romanzo, nel leggere le vite di chi è rimasto in Africa e di chi è partito, ci si accorge di una intima consonanza, di una partecipazione emotiva che avvicina le parti avverse di questo conflitto storico e questa impressione è suffragata da una testimonianza dell’autrice 1): il suo bisnonno partì per l’Africa orientale e dei due figli avuti dalla moglie italiana, uno rientrò in Italia, l’altro si sposò con una donna eritrea per cui l’autrice ha oggi sei cugini di sangue italo-eritreo.

L’ autrice ha rivelato che la sua intenzione principale con questo romanzo è stata quella di stabilire un nesso tra alcune date e la loro coincidenza: il 3 ottobre 1935 come inizio della guerra in Etiopia e il 3 ottobre 2013 data del naufragio di molti abitanti delle ex colonie italiane (trecentosessantotto circa), nel nostro mare; etiopi ed eritrei e tra di loro c’erano molti figli di italiani. Questa coincidenza ci induce a riflettere su quella storia fatta di crimini e di violazioni e a desiderare una maggiore consapevolezza per ricomporre un rapporto fatto di rancori sopiti.

La trama riguarda la vita di tre generazioni a partire da Vittorio Gargano per proseguire con il figlio Arturo e anziché proseguire con il figlio Paolo si avvale della presenza di un ragazzo, Tobia che per un percorso riabilitativo della sua condotta viene messo al fianco di Arturo, ipovedente. Tobia diventa il testimone dei racconti di Arturo, il più fragile e il più traumatizzato di tutti e tra i due si stabilisce un legame di amicizia che va al di là dei legami di sangue. Il tutto inizia con una violenza, quella subita dalla giovane eritrea Ekelé, da parte di un soldato italiano. Il figlio nato da uno stupro, verrà cresciuto da Vittorio come il suo Arturo, avuto dalla moglie italiana Nicoletta.

Dovrà dichiararlo come suo anche perché lo stupratore è stato ucciso da lui, ma nessuno lo sa e sarà solo suo figlio Arturo depositario di tale segreto. Le due madri, solidali nell’accettazione di questa situazione stabiliscono un legame di amicizia. Agata invece è la madre di Tobia, rimasta sola a crescerlo.

Il percorso narrativo (al lettore il gusto di scoprire l’intreccio delle varie storie) implica l’uso di vari registri: da quello poetico a quello metaforico (c’è il non vedere del vecchio padre di Ekelé guarito dalla cecità e la cecità corticale di Arturo che vede nella sua casa Lilit, fantasma o donna reale da lui incontrata?) a quello storico e di indagine psicologica. Difficile ricomporre il tutto in una asciuttezza di stile a livelli sempre alti, ma vale la pena riportare qui una parte del capitolo primo che è di una bellezza sconvolgente. Siamo di fronte alla violenza appena subita da Ekelé da parte di Elvio Zanetti, truce soldato italiano e commilitone di Vittorio, che a sua volta lo sopprime, accecato dalla rabbia:

La sequenza girerà ininterrottamente negli anni a venire, potrà scordarla, ma solo nel modo in cui un acufene si mimetizza agli altri suoni e poi torna a disturbare il sonno la sera. La furia di quei minuti arriverà ogni notte a terrorizzare i suoi sogni. Allora si dirà d’essere arrivato a quel gesto come alla fine di un’onda lunghissima che, orrore dopo orrore, aveva investito anche lui per non essere stato abbastanza veloce a scappare. Mentre il cranio di Elvio Zanetti si rompeva come una noce di cocco sotto i colpi pesanti e spargeva ovunque la sua polpa densa, Vittorio aveva scoperto di essere lui stesso quell’onda. “Perché sei voluto partire?” Di nuovo la voce di sua madre, più triste, più lontana. Sasso,carta, forbice. Perdeva una mano che non avrebbe mai voluto giocare. Il sasso ebbe la meglio sulla materia fragile di un corpo vivo. Allora anche il vento si fermò, il fiume tacque e fu silenzio vero. Ekelé, statua di pietra, aveva smesso di tremare.

Abbiamo voluto riportare per intero questa sequenza perché in essa si condensa il senso di colpa e di responsabilità, la violenza inspiegabile a partire da un individuo per estendersi a un esercito, la vittima innocente, il ricordo della voce materna e di un gioco d’infanzia divenuto gesto mortale.

I capitoli sono intitolati ai quattro elementi naturali terra, fuoco, acqua,aria, elementi ancestrali per parlare di un eterno presente anziché di un passato rimosso rispetto al presente e al futuro.

Il discorso sulle responsabilità degli italiani, di chi aveva amici etiopi o eritrei e aveva saputo degli orrori di una guerra così spietata, non è facile da dirimere. Richiama proprio il discorso sul rimosso e sulla responsabilità delle colpe collettive come nel recente film “La zona di interesse” dove si fa vedere la tranquilla vita della famiglia di un gerarca nazista che gestisce il campo di concentramento confinante con casa sua .

Vorrei concludere con alcune affermazioni dell’autrice riportate nell’intervista succitata. Elena Rausa parla con grande equilibrio della necessità di un rovesciamento di prospettiva; non c’è stato un Processo di Norimberga sui crimini fascisti compiuti in terra d’Africa; dall’altra parte Selassié diceva di non torcere un capello agli italiani rimasti lì, intendendo rilanciare l’Africa attraverso buone relazioni internazionali. Resta tuttavia un discorso di traumi, separazioni, amicizie e amori interrotti. Quello che interessa alla scrittrice è una giustizia riparativa, una riparazione come scelta di libertà, “una scelta per la propria stirpe di una prospettiva generativa che decide di non stringere legami di odio” .

Al di là delle coppie oppositive bianco/nero, noi/loro, il discorso identitario si costruisce con le relazioni di amicizia. Oggi la distanza e la prossimità contemporaneamente ci permettono di conoscerci, portando avanti un dialogo ininterrotto alla ricerca di una verità riparatrice. Ricordandoci chegli altri sono le persone che incontriamo e anche un pezzetto di noi”.

 

 1) intervista di Chiara Palumbo, 2024, youtube

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