Jean Paul Habimana
Nonostante la paura-
Genocidio dei tutsi e riconciliazione in Ruanda
Terre di mezzo editore, 2021
Il testo è stato nella rosa dei finalisti al Premio diaristico Pieve Saverio Tutino 2020 ed è corredato da una presentazione del giornalista investigativo Luciano Scalettari, inviato speciale di Famiglia Cristiana soprattutto per l’Africa.
Di romanzi, film e testimonianze sull’argomento ne sono usciti parecchio dal 1994, soprattutto nel primo decennio del duemila: poi, come accade oggi, tutto viene archiviato in fretta, anche se in Ruanda ancora si cerca faticosamente di ricucire strappi e ferite e il problema è tutt’altro che risolto.
Questo testo, però, presenta una particolarità che lo fa assomigliare alle testimonianze tardive di alcuni ebrei sulla Shoa. E’ stato scritto 26 anni dopo i fatti accaduti all’autore bambino di 10 anni, al termine di un lunghissimo percorso interiore, pieno di riflessioni via via sempre più mature di carattere religioso, storico-politico e umano.
Per tanto tempo Habimana non è riuscito a rendere pubblici i terribili ricordi che hanno segnato profondamente la sua psiche e la sua vita. Ma ora, attraverso il suo lavoro di insegnante di religione nelle scuole italiane e il contatto con i ragazzi, ha capito che parlarne ha una funzione catartica per lui e una valenza educativa per i giovani: parlare e riflettere con loro lo fa volgere verso il futuro e non solo verso un passato doloroso.
Certamente hanno influito molto, nelle sue riflessioni, la sua formazione da seminarista, la promessa fatta a Dio, in un frangente in cui temeva per la propria vita, “se mi salvi, mi faccio prete”, il senso di colpa susseguito alla decisione di servire Dio da laico piuttosto che da sacerdote, le conversazioni con i suoi superiori e maestri.
Il testo inizia da una particolare giornata del 1994, il 7 aprile, in cui tutto il suo universo si capovolge: l’assalto al villaggio da parte degli Interahmwe, ( le milizie hutu incaricate di uccidere tutti i tutsi) la famiglia dispersa, le donne stuprate, gli uomini uccisi, i superstiti in salvo nella vicina parrocchia di Shangi.
Fin da subito, nonostante l’odio e il risentimento provati da bambino contro gli hutu, vicini di casa, di scuola, di parrocchia e di villaggio trasformati, ai suoi occhi inspiegabilmente, in assassini, l’autore parla delle anime buone, “i giusti” tra gli hutu , che si prodigarono per salvare dei tutsi, lui e tanti altri.
In particolare ricorda Maria Urayeneza e Silas Habiyaremye, una coppia cristiana di hutu, molto religiosa, che sottrasse lui e tanti altri tutsi alla furia cieca degli hutu in quei cento giorni di terrore.
A questo proposito rimandiamo al sito “Gariwo, la foresta dei Giusti” che si occupa di genocidi recenti e di coloro che contribuirono a salvare vite umane, pur essendo estranei ai conflitti o si trovassero dalla parte del ‘nemico’. Vi si trovano molte notizie su episodi analoghi avvenuti durante il genocidio ruandese.
In un crescendo di sofferenze e orrori assistiamo, nell’autobiografia di Habimana , ai pericoli corsi da lui bambino, la fame, la paura, i pidocchi, lo smembramento delle famiglie, la permanenza difficile ma preziosa nel campo della Croce Rossa, la visione di sofferenze e uccisioni inaudite. Ma anche partecipiamo alla sua gioia nel ritrovare la mamma e i fratelli, molti parenti e compagni di scuola: tranne il padre, di cui non fu trovato il corpo, negandogli la tomba su cui piangerlo.
Il dolore ammutolisce ma il bambino riesce a parlare, anche se con una certa reticenza, con qualche coetaneo che conosce al campo profughi, procurandosi almeno un po’ di sollievo nella condivisione delle esperienze.
Nel campo vivono coi volontari nell’attesa degli aiuti da parte dell’Onu: è noto che il suo attendismo e i bizantinismi nel decidere se quello dei tutsi fosse un genocidio o meno aiutò oggettivamente i genocidari che seguirono un piano preciso e prestabilito sino alla fine.
Ingenuamente commosso dall’arrivo delle truppe francesi, così solleciti nei confronti dei bambini, fu inorridito nell’apprendere al campo le notizie delle ragazze tutsi da loro abusate esattamente come dagli hutu.
Nella prima parte del testo troviamo lunghe liste di nomi: dei sopravvissuti, dei morti, dei feriti. Quasi un elenco ossessivo, per un dovere di memoria non solo dei numeri del genocidio ma delle persone reali, al di là delle statistiche.
Una certa tendenza alla minuziosità la rivela Habimana anche nella seconda parte del testo che descrive la rinascita sua e del paese. Troviamo riportati orari, professori, esami, nomi dei compagni nelle scuole e nei seminari da lui frequentati, quasi a materializzare il miracolo della vita che riprendeva. Così anche riporta i nomi dei giudici, anziani dei villaggi, dei primi tribunali tradizionali che funzionavano meglio della processualità di tipo occidentale nei confronti di coloro che si erano macchiati di crimini. Rivela i nomi dei negozianti che ricostruiscono la piccola rete dei commerci dentro botteghe distrutte, i nomi dei maestri che rimettono in piedi le scuole, anche se sono spesso hutu.
I nuovi governi ruandesi aboliscono immediatamente nella carta d’identità la dicitura dell’etnia di provenienza ( in precedenza il termine era razza) voluta dai belgi e mantenuta anche dopo l’indipendenza: non ci devono essere più né tutsi né hutu, solo ruandesi. Ma non è semplice dimenticare per decreto e riprendere i rapporti di un tempo: anche in seminario, dove i sacerdoti erano quasi tutti hutu , lasciarsi andare a confidenze sull’argomento con gli altri giovani non è cosa facile. I dirigenti non fanno sapere mai ai seminaristi di che etnia sia il compagno che hanno di fronte.
E tuttavia proprio in questo percorso etico-religioso cresce una consapevolezza nuova: anche i figli degli hutu, bambini come lui al momento della tragedia, sono stati delle vittime. Oggi molti hanno i padri in carcere o che non sono mai tornati dalla precipitosa fuga in Congo, dopo il ripristino della legalità in Ruanda. Molte famiglie hutu, durante il raggiungimento del confine, e anche in Congo, hanno vissuto a loro volta gli stessi stenti, privazioni e sofferenze dei tutsi.
Si apre nel suo animo una comprensione più larga degli eventi accaduti e un senso di fraternità che si fa strada fra i brutti ricordi. Capisce il senso della “riconciliazione”.
Lo studio lo aiuta anche a interpretare meglio la storia del Ruanda: come è stato possibile che un popolo con la stessa lingua e cultura, religione e tradizioni sia diventato un popolo di due “razze” inventate dai colonizzatori belgi, che hanno trasformato due classi sociali di mestieri diversi e complementari agricoltori, pastori e commercianti in due etnie separate e nemiche.
La svolta che lo conduce a lasciare la strada del sacerdozio è costituita da due elementi principali: la venuta in Italia per continuare il seminario maggiore a Reggio Calabria e il legame epistolare intermittente ma costante nel tempo con una ragazza hutu lontana, che dopo la decisione definitiva di non completare il seminario, sposerà e condurrà nel nostro paese. Certo hanno dovuto superare le incomprensioni e diffidenze delle rispettive famiglie, che poi si sono ricredute e hanno accettato il matrimonio. Habimana ha ricreato in modo personale una storia di riconciliazione, aiutato anche dal fatto che pure Marie Louise, sua moglie, figlia di un hutu compromesso con gli assassini, non sa che fine abbia fatto suo padre in Congo. Certamente la distanza dal suo paese ha contribuito a fargli vedere con maggiore obiettività la sua situazione personale e quella del Ruanda.
L’ultima parte: non è più il ricordo del bambino o del seminarista. Parla ora l’intellettuale quarantenne che è diventato e che vive in Italia a Milano, il professore interessato a divulgare la storia del suo paese. Crea, nelle ultime pagine, un piccolo manuale chiaro e scorrevole che cerchi di far capire, a chi non sa, cosa sia veramente successo in Ruanda e come si sia arrivati , a partire dalle malefatte della colonizzazione, a massacrare diecimila persone al giorno. Soprattutto vuole far riflettere su un dato preoccupante: che l’Italia non ricrei barriere e divisioni che possono rivelarsi pericolose derive...
“ Non sono riuscito a raccontare tutto- conclude- I miei occhi hanno visto certe cose che vanno oltre il linguaggio umano. Le conseguenze di quella follia sono incalcolabili. Quello che conta più di tutto è che l’esperienza amara dell’odio mi ha insegnato ad apprezzare e assaporare la forza dell’amore”.
“Ma, dopo tutto, si può veramente spiegare un genocidio?” si domanda ad un certo punto del testo. “Mi sono tormentato per anni intorno a queste domande. Non so se ho delle risposte. Di sicuro non ne ho di definitive. Ma qualche elemento lo si può cercare di circoscrivere. Forse può aiutare a capire di più. Forse può aiutare ad evitare che accadimenti del genere si ripetano, in Ruanda o altrove”.