Amets Arzallus Antia - Ibrahima Balde
Fratellino
Feltrinelli, 2021
traduzione di Roberta Gozzi
Crediamo di sapere tutto sui migranti: li vediamo arrivare sfiniti su quei barconi, approdare a centri di accoglienza-pollaio, alludiamo alle incredibili sofferenze che hanno sopportato. Ma in realtà cosa abbiano veramente vissuto, quanto lungo sia stato il percorso che li ha portati all’imbarco per l’Europa, quali miserie o oppressioni abbiano lasciato in patria, a quali affetti abbiano rinunciato: di tutto questo non sappiamo nulla ed è quello che ci consente di continuare più o meno tranquillamente il nostro pasto mentre li vediamo in un tg ore pasti.
Questo testo, in un linguaggio semplice e crudo, ma a suo modo poetico, ci mostra i pezzi mancanti della narrazione migrante. Ci parla non solo dei fatti ma delle emozioni.
Tanti sono i libri che ci dicono dell’addio alle famiglie, della traversata nel deserto, della crudeltà della guardia costiera libica, delle torture dei campi e dei trafficanti: ma in questo testo la mancanza di speranza del protagonista che ha ormai perso quel fratello minore, alla cui ricerca era partito, lo porta ad esprimersi nei particolari, esponendo quasi con naturalezza naif la realtà delle sofferenze e dei soprusi.
Certamente si è creato un topos letterario diverso dalle narrazioni autobiografiche dei migranti anni ‘80-’90: in quelle si insisteva sulla mancanza di accoglienza nei paesi di arrivo, sulle difficoltà burocratiche per giungere ad un permesso di soggiorno, per trovare lavoro o un alloggio. Ci davano notizie di “noi” e della nostra xenofobia o peggio razzismo.
Ora le narrazioni ci aprono uno squarcio su ciò che non vogliamo sapere, sull’aldilà del mare mediterraneo, sui mercanti di carne umana, sulle situazioni che inducono a partire, sulla povertà dei paesi del Sahel, sulle migrazioni interne che spesso precedono di anni quella verso l’Europa, sulla mancanza di libertà e speranza. Non riflettere su questo ci fa blaterare con faccia tosta e ipocrisia di sicurezza, di regolamentazioni, respingimenti e “non possiamo accogliere tutti”. L’Italia come l’Europa intera : si continua ad aiutare i libici per riportare indietro i migranti o a pagare la Turchia perché li trattenga nei suoi confini.
Ibrahima Balde non voleva partire per l’Europa: abituato sin da bambino a lavorare con il padre, ha cominciato da ragazzino a girare per vari paesi africani alla ricerca di un lavoro. Forse non capiamo a sufficienza la motivazione che sicuramente sarebbe parsa chiara ai nostri bisnonni, nonni, padri migranti: quando un capofamiglia viene a mancare (come il padre del narratore) è il figlio più grande che si deve fare carico di mantenere la famiglia, far studiare i più piccoli, alleviare le fatiche della madre rimasta sola, anche se è soltanto un bambino di 10-13 anni. Allora parte dalla Guinea Conakry e va in Liberia, Mali, Algeria, Marocco, Libia, tornando più volte nei paesi già attraversati, servendosi di un po’ di francese e di un po’ di arabo, del susi, lingua prevalente in Guinea e del pulaar, l’idioma dei fula, cui lui appartiene.
Il suo chiodo fisso: trovare il suo minan, il fratellino che aveva aiutato a proseguire gli studi per dare un po’ di chance alla famiglia e che, attirato dalle sirene dell’eldorado europeo, è scomparso senza salutare nessuno, neanche la madre.
Eccolo, suo malgrado, sulle rotte dei migranti, esibendo l’unica foto di Alhassane con i suoi tratti infantili, che si fa detective per scoprire chi gli può fornire indicazioni. Nel fare questo scopre di attraversare l’inferno, rabbrividendo all’idea che Alhassane sia passato per quegli aguzzini, per quei posti sordidi di violenza e degrado, fino a capire che suo fratello “a fait naufrage” davanti alla Libia, in una imbarcazione che può contenere 250 persone e ne imbarca 900-1000.
In questa ricerca ci vengono descritte le modalità in cui si attraversano i confini, si percorrono i deserti in camion e a piedi, come si contattano i passeur, come si diventa letteralmente schiavi di trafficanti che però, dietro esoso compenso, ti vendono un “programma”, cioè un imbarco per l’Italia o la Spagna. E se non paghi a loro o ai poliziotti libici collusi, sono botte e torture e assisti a cose innominabili fatte a donne e uomini.
In alcuni posti è permesso lavorare per trovare i soldi per il “programma” o ti comprano per lavori faticosi retribuiti quel che serve per risparmiare il denaro sufficiente per l’imbarco, se non hai parenti che pagano per te.
E’ descritta non solo la “cattiveria” dell’occidente, ma anche quella di gente comune che, in Africa, si approfitta dei bisogni altrui per il proprio tornaconto o quella dei gruppi criminali che prosperano su questa nuova schiavitù, che rinnova i fasti della tratta coloniale.
Il testo è corredato di due cartine dell’Africa, fatte a mano: nella prima l’Africa è una tavola vuota, dove c’è disegnato solo il villaggio natio della Guinea. Nella seconda, posta in fondo alla narrazione, ci sono tutte le tappe percorse da Ibrahima e anche il percorso nel Sahara si riempie di città, sconosciuti villaggi, indicazioni di prigioni e campi profughi, tra il nord del Mali, l’Algeria e la Libia. La traversata da solo nel deserto è allucinante: i suoi arti, piedi e gambe, non si riavranno più dallo sforzo subito.
E anche la sua psiche scivolerà in un territorio che avrebbe potuto essere di non ritorno a causa della estenuante ricerca del fratello. A volte, però, trova aiuti inaspettati che gli permettono di sopravvivere: ormai non può più tornare indietro, come dice al telefono alla madre e alle sorelline restate al villaggio; aveva sperato che gli studi di Alhassane avrebbero potuto cambiare la sorte della famiglia, ma adesso toccava a lui, l’unico uomo della famiglia rimasto.
Il racconto termina con la nave di salvataggio marittimo spagnolo che raccoglie la gente del barcone su cui ha viaggiato Ibrahima: un pianto liberatorio accoglie il suo ingresso in Europa. Il giovane si volta per vedere da dove è venuto.
Il merito dell’incanto di questa storia non è solo delle caratteristiche personali di Ibrahima, che oggi vive in un albergo della Croce Rossa a Madrid e fa il meccanico ( che peraltro era stato il suo sogno fin da bambino) ma anche del poeta e giornalista basco Amets Arzallus Antia, operatore presso una associazione che si occupa di migranti, che l’ha raccolta e riportata .
“Questo libro è stato scritto a voce da Ibrahima Balde e a mano da Amets Arzallus Antia” recita una dicitura posta prima della narrazione, che si svolge come una sorta di confessione -dialogo : il poeta ne rispetta le reticenze, le pause, gli improvvisi vuoti di memoria, le commozioni e le lacrime, i silenzi, le riflessioni, senza intromettersi, restituendoci una realtà culturale diversa che non parte dai nostri presupposti e arriva a conclusioni per noi inaspettate.
Regaliamo questo libro a chi non ne vuole sapere per restare chiuso in un’indifferenza che finirà per soffocarci...