L’Africa non è nera
Paola Pastacaldi
Mursia, 2015
Ancora una volta presentiamo un romanzo italiano ambientato in una terra del Corno d’Africa : l’ultimo testo apparso era stato “Albergo Italia” di Carlo Lucarelli del 2014. Della scrittrice Paola Pastacaldi ci eravamo occupati, nel 2008, in un approfondimento, poi edito sul nostro sito, dedicato allo sguardo degli italiani sul Corno d’Africa, che qui potete consultare.
L’autrice trevigiana, giornalista e scrittrice, insegue una sua pista molto particolare, disegnando romanzi che sono ad un tempo saga famigliare e ambientazione storica collettiva, perché è all’interno del suo contesto individuale che trova le storie da raccontare.
Infatti il primo romanzo “Khadija” cercava di ricostruire l’avventurosa vita,in Etiopia ad Harar, del nonno paterno, diplomatico livornese, alle prese con un’Africa orientale prima dell’epoca mussoliniana, che aveva sposato una bellissima donna oromo da cui era nato il padre dell’autrice.
In “ L’Africa non è nera” tratteggia l’emigrazione ad Asmara, nel ’36, del nonno materno, la cui figlia avrebbe sposato il mulatto nato dalla relazione di cui sopra.
Non a caso abbiamo utilizzato il termine ‘emigrazione’: la scrittrice sa benissimo quanti italiani e come vennero a colonizzare l’Eritrea, conosce in modo approfondito il contesto fascista e razzista, ma è evidente che intende seguire la vita di un italiano,suo nonno edile di Treviso, che lascia la sua terra, come altri, pensando principalmente di raggiungere quel benessere che non aveva avuto in patria.
Molti italiani dal nord est d’Italia avevano scelto le Americhe, altri, seguendo la sirena di Mussolini, avevano creduto, chi più chi meno, alla ‘civilizzazione’ dell’Eritrea e alle possibilità di guadagno che si aprivano per coloro che avessero accettato di lavorare duro.
La Pastacaldi sa che avventurarsi in un contesto simile è attraversare un terreno minato, suscettibile di una quantità di critiche: il fatto è che si tratta, ci sembra, di una persona che non accetta le censure. Lo sappiamo che la colonizzazione è stata , per molto tempo, oggetto di rimozione da parte dell’opinione pubblica e degli storici. Ma oggi questo tappo è saltato ed è giusto recuperare memorie che andrebbero perse se non se ne continuasse a parlare. Si tratta di seguire le vite delle persone, non solo ricostruire fatti di guerra o politica in senso stretto. Infatti, seguendo il suo blog, si ha idea di quanta ricerca e documentazione, in svariati archivi locali e nazionali, ci sia sotto la trama del suo romanzo: questa, del resto, è anche la tendenza di molti studiosi di storia e letteratura post-coloniale in Italia e altrove.
Sono state pubblicate anche memorie e diari che cercano di aprire uno spiraglio sul quotidiano ‘coloniale’; i romanzi italiani hanno avuto spesso ambientazioni militari o del bel mondo coloniale o,nel caso di scrittrici di origine africana come la Ali Farah, la Ghermandi o la Dell’Oro, contesti di nativi.
Qui, nel presente romanzo, siamo tra i lavoratori italiani:sterratori e operai stradali, piccoli imprenditori agricoli e commerciali, autisti di camion, muratori e artigiani. Il protagonista arriva in Eritrea nel ’36. Sulla nave, immersa in canti patriottici di militari e fascisti esagitati, già si capisce il ruolo di Francesco: sta in disparte, da una parte crede agli slogan sulla grande impresa civilizzatrice italiana, dall’altra non si sente coinvolto negli estremismi parolai e nerboruti dei fanatici.
In tutta la vicenda ci sarà, nel protagonista, una lenta crescita se non di coscienza, almeno di dubbio sull’operato di Mussolini e sull’ideologia coloniale . In tutti i personaggi del testo, uomini e donne, l’autrice fa trapelare quel misto di paternalismo e disprezzo, fascinazione e repulsione che caratterizza i rapporti con i nativi. La modalità sarà l’analisi del desiderio sessuale di fronte a qualcosa di esotico e pauroso insieme,del problema dei figli meticci rispetto all’identità, delle leggi razziali, applicate in Africa ancor prima che nei confronti degli ebrei.
La vicenda prende piede con l’arrivo ad Asmara di Francesco che, andato per costruire strade come faceva in Italia, si trova ben presto a commercializzare acqua buona da distribuire agli italiani della colonia, dove non c’era un efficiente rete di erogazione idrica. Prima con carretti poi con camion Fiat, fa strada velocemente il nostro protagonista: ma condivide con autisti e operai, italiani ed eritrei, una vita dura e sobria e uno stile cameratesco, scevro da superomismi o volontà di dominio, prima di arrivare alla villetta dei suoi sogni.
Lontani da casa e rosi dalla nostalgia di una vita famigliare, il tema principale delle loro conversazioni resta il sesso: andare o no con le ‘sciarmutte’, fare o no figli meticci, trasgredire o no le recenti leggi che intervengono a regolare un iniziale accettazione del ‘madamato’, cioè di convivenza con donne nere e passaggio di cittadinanza italiana ai figli.
La vicenda si protrae fino al ’53, alla fine del protettorato amministrativo inglese che, dal ’41 avevano preso il posto degli Italiani durante le sconfitte subite nella seconda guerra mondiale . Francesco, come molti altri italiani che avevano lì tutti i loro averi e attività, non lascia Asmara se non quando la situazione si fa pericolosa a causa dei guerriglieri che cominciano una lunga guerra per la loro indipendenza dall’Etiopia, a cui erano stati accorpati dai trattati di pace del ’52.
Ma nel frattempo il romanzo ci fa scorrere le immagini della vita della capitale, soprattutto quando vi arriva la figlia di Francesco che si innamora del bellissimo mulatto, figlio di un italiano e di una donna ‘galla’, come si diceva allora, che poi sposerà . Abbiamo detto ‘scorrere le immagini’ perché sembra di vedere un documentario particolareggiato di tutte le costruzioni private e pubbliche, delle strade e delle piazze che avevano reso Asmara simile ad una città italiana.
Del resto anche la storia architettonica di questa città era caduta nel ‘rimosso’: se ne occupavano solo pochissimi addetti ai lavori, soprattutto stranieri. Del grande lavoro di ricerca degli architetti italiani non circolava nulla da noi : eppure lì, lontano dalle strettoie e limitazioni della madrepatria, avevano dato l’avvio ad una grande sperimentazione di modernismo, ancora oggi giudicata tra le più interessanti in terra d’Africa. Un misto di art déco e razionalismo mescolato con il monumentalismo neoclassico e barocco, ma anche con un ardito futurismo.
Tutto questo ci fa immaginare la Pastacaldi, affascinata da questa città che solo la estrema povertà ha fatto in modo che si conservasse senza distruzioni o cambiamenti radicali, tanto che si sono avviate le pratiche di dichiarazione di monumento Unesco, con lo strascico di polemiche che si possono intuire. E’ in questo scenario, i suoi eleganti caffè, i teatri,i cinema, i club, che si svolge la storia d’amore di Pietro, il bel meticcio e Lidia, la figlia di Francesco, andata a raggiungere il padre, stanca della monotonia della quieta vita provinciale di un paesino veneto del trevigiano.
Ma non sarà un matrimonio felice: Lidia non capisce le contraddizioni identitarie di Pietro, sente confusamente la resistenza all’occidentalizzazione della suocera, ha paura di quello che prova ma non riesce a fare un salto consapevole, resta in quel superficiale mix erotico di fascinazione e avversione che la farà fuggire in Italia. Pietro, educato in un collegio italiano per meticci, confuso com’è , non l’aiuta e quando fa la scelta di stare definitivamente dalla parte degli eritrei è perché ha bisogno di una appartenenza chiara e senza ambiguità e sfoga su di lei tutte le contraddizioni con cui ha vissuto. L’Africa tornerà nera, sentenzia Pietro e questo ci rimanda al titolo del libro, sicuramente provocatorio, tratto dagli articoli di Curzio Malaparte, nel ’39 reporter in Etiopia ed Eritrea per conto del Corriere della sera e recentemente riediti per intero, volti a testimoniare la costruzione di un grande impero bianco in una misera terra nera; cammin facendo il giornalista abbandona l’originario piano di lavoro e viene attratto, attraverso l’occhio acuto e straordinario di cui era dotato, da ciò che incontra e vede, uomini e cose, militari e nativi, orrori di guerra e pretese di grandezza.
Ma il nostro Francesco non è un intellettuale, intuisce che il suo successo e quello di altri italiani è nato su una terra non legittimamente sua, che si sono commessi soprusi , discriminazioni e stragi ,coperti da una propaganda martellante e retoricamente patriottarda, ma lui, tornato in Veneto è dominato dalla nostalgia non del paesaggio, non dei facili guadagni o delle donne, ma dal “gusto forte e tormentoso della vita conquistata giorno per giorno in una terra dove non c’era nulla, arida, dura, picchiata dal sole e dalle piogge.” Una terra dove, chi vi era andato, aveva dovuto dare fondo ad una grande creatività per originare risorse e attività degne di un paese moderno contando su poco: una specie di anticipazione del clima del boom economico degli anni’50-60. Non riesce ad elaborare compiutamente quanto è successo, anche perché intorno domina, appunto il ‘rimosso coloniale’.
Un giorno, camminando in auto su una polverosa collina veneta abbandonata, che gli ricorda la natura eritrea, scende e contempla, cercando un po’ di pace.”L’Africa e tutto il suo bagaglio di sogni, sudore, rimpianti e spirito di conquista non fu che una landa deserta, la vita che vi aveva vissuta e le conquiste che aveva fatto si pietrificarono in un ricordo stantio, inutile”.
Questa volta l’autrice usa un linguaggio meno rutilante e immaginifico del precedente romanzo, utilizzando modalità più cronachistiche e divulgative, rivelando doti di giornalismo investigativo per dare voce a quei suoi genitori che non avevano saputo o potuto rispondere alle domande della figlia incuriosita dalle storie di famiglia di un passato lasciato sempre tra il misterioso e l’indicibile.
Un’altra storia di “italiani, brava gente”? Forse, ma senza retorica e con una gran voglia di restituire uno spessore storico a tutto tondo a vicende che si sono volute dimenticare in fretta e male.