Luca Ongaro - Un'altra storia - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 Luca Ongaro

 Un’altra storia

 Società editrice milanese, SEM 2022

Un altro giallo ucronico per parlare di colonialismo di ieri e di razzismo di oggi.

L’autore, agronomo informatico cooperante internazionale, ci introduce, attraverso le prime pagine ambientate nella piana di Adua, ad una fantasia interessante e abbastanza plausibile: se la battaglia di Adua non fosse stata una sconfitta per il nostro paese, la storia italiana sarebbe stata la stessa?

Forse non ci sarebbe stata la rinuncia alla corsa coloniale che creò una umiliazione nazionale di fronte alle altre potenze europee, soprattutto Francia e Inghilterra; forse, mantenendo il prestigio di potenza sia pure di serie B, nei giochi politici dei primi decenni del ‘900 avrebbe potuto ottenere Trento e Trieste con trattati e conservare la neutralità nella rovinosa guerra del ’15-18, causa del grave malcontento sociale e dei rigurgiti di nazionalismo che gettarono l’Italia nelle braccia di Mussolini. Non ci sarebbe stato il fascismo…

Diciamo che queste sono più o meno le coordinate storiche a cui lo scrittore ci chiede di aderire, con le implicazioni di un Matteotti, tutt’altro che assassinato, in grado di dirigere il paese secondo canoni socialisti di maggiore equità e tolleranza per parecchi anni, compresa una gestione più o meno umanitaria delle colonie di Libia, Somalia ed Eritrea. Dalle pagine di Adua, in cui combatté, salvandosi, il nonno del protagonista, commissario Francesco Campani, la storia riprende nel 1956, proprio in Eritrea, a Wukro, vicino Macallé , nella Eritrea del sud. Ma i tempi hanno cominciato a cambiare: governi conservatori si sono sostituiti ai socialisti, capitanati da Pella e Fanfani, con ministro delle Colonie (udite, udite…) Benito Mussolini, settantenne imbolsito e malandato che sarà protagonista di una delle scene più esilaranti del romanzo, durante una sua visita nella colonia.

Naturalmente il commissario Campani è in contrasto sempre con i suoi superiori, polizia e rappresentanti istituzionali del governo, come vuole rigorosamente la tradizione, ben sviluppata a partire dal Montalbano di Camilleri. Campani, orfano dei genitori, cresciuto dal nonno proprio a Wukro (che qui aveva creato un buon albergo) tranne che per una breve parentesi di università a Firenze, era sempre stato in Africa: parla tigrino, si sente eritreo e non sopporta la sufficienza e il malcelato disprezzo con cui questori, procuratori e maggiorenti locali parlano degli africani. Ha amici eritrei carissimi, il suo fidato collaboratore Araya, uno dei pochi poliziotti eritrei ad avere un titolo adeguato, è trattato con rispetto e affetto: solo con lui si confida circa le eventuali conseguenze di questi atteggiamenti sconsiderati che non fanno altro che allargare le fila di un ribellismo più che logico. I diritti acquisiti negli anni precedenti, gestiti dai socialisti, stanno scomparendo a causa di decisioni discriminanti nelle scuole e nei luoghi di lavoro. La popolazione non è mai stata paritaria con gli italiani, ma ora il divario si è fortemente accentuato. Del resto, tutta l’Africa comincia ad essere in ebollizione e sta chiedendo indipendenza e libertà.

In un primo tempo ci viene da storcere il naso di fronte ai discorsi del commissario, forse lo vorremmo più rivoluzionario: ma ricordatevi che l’autore ci mette nella testa di un onesto funzionario dello stato e vedremo, nel corso della vicenda, che a modo suo, saprà fare giustizia. E il giallo dov’è?

Entra nella storia con un archeologo che si presenta in commissariato portando una scatola contenente un teschio, del cui mistero gli esperti della missione non riescono a venire a capo; è stato trovato in un luogo sacro antico, senza essere così antico e provvisto di un foro, apparentemente causato da un’arma da fuoco moderna ma con caratteristiche incongrue. La vicenda diventa un vero e proprio cold case, dato che il commissario accerta che si tratta di una persona scomparsa circa 30 anni prima, a cui non è stato dato nessun rilievo dalle autorità, probabilmente un caso di insabbiamento voluto da qualche italiano ricco e potente, quando ancora in Eritrea non vigevano leggi per governarla e il territorio era una sorta di far west in cui ognuno faceva quello che voleva.

Ad aiutare Campani ed Araya entrano in scena religiosi cattolici, copti e protestanti che riescono, attraverso minuziosi diari e una amministrazione delle missioni molto precisa, a identificare la persona. Ma l’aiuto più prezioso viene da una giovane e bella studiosa di terreni, acqua e vegetazione, di aspetto sano, data l’abitudine di lavorare all’aperto, e di indole indipendente e anticonformista: attraverso la sua esperienza il Campani capirà come il mistero ruoti intorno ad un villaggio e alle acque scomparse che vi fluivano, e si innamorerà perdutamente di lei, peraltro audacemente contraccambiato.

Di fronte alle resistenze all’indagine delle autorità costituite, sempre più e soltanto preoccupate di sedare movimenti di rivolta, nell’imminenza dell’arrivo di Mussolini, il buon commissario, instancabile con la mitica Campagnola militare, ma anche in estenuanti camminate, prendendosi ferie e pagando di tasca sua, riesce a venire a capo del caso. Le indagini sono un pretesto, per noi lettori, per assaporare paesaggi sconfinati, montagne, chiese rupestri e tante piccole trattorie, in cui gustare cucina tipica eritrea e ottime lasagne italiane, finendo i pasti con l’immancabile buna, il caffè locale, anche se, confessa il poliziotto, l’espresso non teme confronti.

In una intervista lo scrittore afferma che le uniche cose vere del romanzo sono due: la Fiorentina, il cui campionato reale del ’56 è seguito con ansia da tifoso dal commissario (ma è anche la passione dell’autore) e la descrizione dei luoghi, dato che vi ha soggiornato a lungo e ha conosciuto bene la cultura artistica religiosa. Anzi sarà proprio un’immagine vista in una chiesa a fargli risolvere il caso: ovviamente questo particolare è inventato.

Il romanzo scorre piacevolmente e siamo con il commissario contro i possidenti, gli industriali e i grossi commercianti, il cui conservatorismo becero è difeso con cura dalle autorità. Siamo con gli eritrei in sciopero che si presentano al palco nella piazza in cui parla Mussolini, irritato dal caldo bestiale e dal sole cocente senza difesa di un cappello, tormentato dalla diarrea, a causa del cibo speziato e piccante, stanco e quasi fuori di testa, quando comincia a vomitare espressioni razziste e classiste, abbandonando l’aria da ministro, trascendendo in una scena che risulta macabramente comica.

E’ proprio un’altra storia…

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