Max Lobe
La trinità bantu
66thand2nd 2017
traduzione di Sandor Marazza
E’ con piacere che presentiamo, per la prima volta, uno scrittore africano originario del Camerun, ma ormai residente in Svizzera da circa una decina d’anni. E dove sta la novità, visto che la maggioranza degli autori di cui ci occupiamo non vive stabilmente nel paese di nascita?
La novità appare subito dalla prima pagina del suo romanzo: ci sono delle persone che sbuffano e sudano sotto il sole, ad una fermata di bus a Lugano, perché i mezzi di trasporto sono spesso in notevole ritardo. Avete capito bene, nell’immaginario italiano apprendere che la perfetta Svizzera sembra essere come l’Italia è un po’ uno choc!
Non basta, qualche riga più in là, c’è un’altra sorpresa: nel paese dove la disoccupazione è praticamente sotto il 3% Mwana Matatizo, il protagonista della storia, fatica a trovare un lavoro decente e adeguato alla sua preparazione, dopo essere stato licenziato su due piedi da un suo connazionale, ormai svizzero anche nell’animo per aver conquistato un passaporto elvetico. Aveva lavorato in nero come venditore porta a porta a Ginevra. Inoltre il lavoro che aveva svolto comprendeva anche una parte ‘sporca’: partecipazione ad importazione illegale di merce cosmetica, prodotta a basso costo con materiali scadenti, consistente, perlopiù in creme sbiancanti per pelli nere e liscianti per capelli, pericolosi per la salute.
Mwana, con la sua bella parlantina e una brillante laurea in comunicazione, presa in una prestigiosa università svizzera, doveva convincere altri africani ad acquistare e lo faceva talmente bene che guadagnava tanto da poter inviare denaro a sua madre, rimasta nel Bantuland, nome con cui si riferisce al suo paese. Con quello stipendio aveva anche mantenuto il suo compagno Ruedi, studente di agiata famiglia borghese, restio, per orgoglio, a chiedere denaro in famiglia, nei momenti di bisogno. Del resto, Ruedi non si adattava nemmeno a trovarsi quei piccoli lavori temporanei che servono a sbarcare il lunario, come succede agli immigrati.
Possibile nella civilissima Svizzera, così attenta alle leggi , alle regole, alle tasse?
Quando Mwana va nei centri per l’impiego, questi assomigliano terribilmente a quelli inglesi visti nei film di Ken Loach di thatcheriana memoria, con la stessa piccola gente in attese interminabili e i funzionari pieni di sussiego e qui, colmi di una opprimente gentilezza tutta elvetica. Lui guarda con occhio critico, però, anche questa gente educata e paziente che aspetta: quando qualcuno perde la testa ( e meno male, grida dentro di sé il nostro personaggio, altrettanto arrabbiato) loro non sanno come comportarsi, esprimono imbarazzo e sembrano difettare di empatia.
Finite le scorte alimentari delle rispettive famiglie, contate le ultime monetine che restano, i due mangiano con i pacchetti dono della Caritas, fino a che Mwana trova un lavoretto trimestrale in una piccola e sfigata associazione che si occupa di discriminazioni di genere e razziali, assunto, non tanto, sospetta lui, per la sua grandiosa laurea, ma per effetto della discriminazione positiva. Indimenticabile la rappresentazione della presidentessa dell’associazione e dei suoi accoliti, una donna combattiva che crede in quello che fa, lotta accanitamente per far cadere la proposta delle destre, ma porta indelebili i segni della classe borghese di provenienza...
Con questa attività lavorativa entra in campo un altro tema del testo, quello del razzismo e della xenofobia: Mwana aveva già notato, in giro per diverse città, un manifesto di tre pecore bianche in un prato rosso bianco-crociato che danno un bel calcione ad una pecora nera, con a fianco una significativa scritta sulla sicurezza. E’ da più di mezzo secolo che la Svizzera prova con dei referendum a limitare o a cacciare gli stranieri: ed è a uno di questi tentativi che si fa riferimento nel testo.
Ma anche chi si reputa un sincero democratico come il compagno del protagonista ( proveniente da una famiglia aperta e solidale che non ha avuto nulla da eccepire sulla omosessualità del figlio e sul suo matrimonio) si mette a blaterare contro i frontalieri che rubano il lavoro. Prima gli svizzeri, perbacco!
Mwana è innamorato del suo compagno, ma questo non gli impedisce di guardarlo criticamente: un borghese che non ha mai patito fame ed umiliazioni, destinato a diventare banchiere come suo padre e suo nonno e che non riesce a capire che la difesa dei diritti degli omosessuali si lega con quella dei migranti e delle donne, di tutti coloro che fanno fatica a rendersi visibili agli occhi dei ben pasciuti e tradizionalisti elvetici doc, così fieri della loro antica e patriarcale democrazia montanara.
Comunque la loro non è una storia di coppia ma di ‘troppia’, come la definisce l’autore, dato che non c’è l’esclusiva sessuale del partner ma la condivisione, da parte di entrambi, di un certo Dominique. Se si è capaci di trovare dentro di sé amore per uno, vuol dire che si può fare posto, nel cuore, anche per qualcun altro, commenta Mwana...
Non è che i suoi famigliari, la sorella Kosambela e la madre Monga Minga, escano indenni dalle sue osservazioni ironiche e taglienti, soprattutto la mamma che, riverniciata di un cristianesimo superficiale, continua a credere nelle antiche divinità bantu e nel culto degli antenati a cui chiedere aiuto in caso di necessità. Soprattutto affligge il figlio con le sue perle di saggezza tratte dalla tradizione e dalle sue esperienze di vita.
E, ahimè, il caso di bisogno si presenta, sotto forma di un grave cancro che colpisce la madre: trasportata di corsa in Svizzera, fa vivere a Mwana un periodo pieno d’angoscia . Ma, forse, è proprio la fede incrollabile della donna nella trinità bantu che riesce a sbrogliare la situazione di malattia e a far trovare un lavoro più adeguato al protagonista: in luogo delle lezioni di danza africana che gli erano state proposte, compare per miracolo un contratto ben retribuito. Possiamo escludere che artefice sia stata la triade bantu, conclude Mwana, tra un razionale scetticismo e un ‘non si sa mai’? Del resto come è possibile, si lamenta la madre, che un africano muoia di cancro, notoriamente malattia dei paesi ricchi e non di quelli poveri?
Il rapporto con la madre occupa molto spazio e fa raggiungere , quando si ventila la sua probabile morte, vette più drammatiche al racconto che invece si mantiene, quasi sempre, su una cifra stilistica di satira surreale, a tratti francamente comica, ma mai aggressiva, perché l’autore è profondamente convinto che la tolleranza e l’accettazione delle caratteristiche di ciascun individuo o gruppo siano assolutamente la base per qualsiasi convivenza civile. Gay perseguitato in patria, nero e migrante in Svizzera: Max Lobe sa bene di cosa parla. Ma sorridere con levità di problemi pesanti, questa è indiscutibilmente la chiave del suo successo.
Il linguaggio in cui si esprime reca l’eco, anche in traduzione, di quelle geniali e divertenti forzature del francese che Max Lobe aveva tanto ammirato in Ahmadou Kourouma e nello svizzero di lingua romancia Charles Ramuz , e che ama in Alain Mabanckou. Alle invenzioni linguistiche si uniscono proverbi tradizionali della cultura bantu che sono in grado, di spiegare, secondo la madre di Mwana, qualunque evento dell’esistenza umana, svizzera o africana che sia. Un ritratto a dir poco impietoso degli elvetici, ma, rappresentandoli così , pieni di difetti, in fondo li ha un po’ africanizzati...