Sembène Ousmane - Niiwam - recensione a cura di Rosella Clavari

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Niiwam

AIEP ed, 2023

traduzione dal francese di Silvia Carli

 La prima uscita di questo testo, in francese, risale al 1987 per Présence Africaine ma con piacere vediamo uscire per la collana Melting Pot- Aiep la versione italiana di quello che possiamo considerare un classico della letteratura africana. L’autore, Sembène Ousmane è un grande padre della letteratura e del cinema africano e fa bene al cuore rileggerlo oggi.

Ci accorgiamo di come certe scene di desolazione, di povertà ma anche di profondi sentimenti di pietà e di amore avvolgano il suo tessuto narrativo; la natura partecipe agli stati d’animo dei personaggi che incontriamo o l’estraneità della gente al dolore del singolo. Queste sono le prime impressioni a caldo ed è impossibile non sentire la vicinanza, soprattutto dopo la lettura del primo racconto Niiwam, che dà il titolo al libro (il secondo racconto è Taaw) ai nostri racconti di Verga o di Pirandello partecipando alla vita dei cosiddetti “vinti”, degli oppressi, con la stessa cura dei dettagli.

I romanzi di Ousmane vedono la luce nel 1956, nel frattempo si confronta con le culture dei paesi dove viaggia (in Cina, Urss, Vietnam del Nord); in Unione Sovietica si forma come cineasta e si dedica alla regia negli anni ‘60 considerando il cinema una maniera di avvicinare di più il suo pubblico africano, in alta percentuale ancora privo di istruzione scolastica. I temi che affronta, sia nei romanzi che nei film, sono la cultura tradizionale africana, il colonialismo nella sua affermazione e nel suo crollo, lo smarrimento di identità dei cittadini africani nella società a partire dagli anni ‘60.

Il libro dunque contiene due racconti, il primo più breve che dà il titolo al testo è Niiwam , il secondo Taaw. Nel primo un padre che stringe a sé il figlioletto morto e fa un lungo viaggio per dargli una degna sepoltura, secondo i dettami della religione musulmana; nel secondo un bimbo che ancora non ha visto la luce, appena concepito dall’amore di due giovani, il cui il padre è Taaw, ragazzo ribelle alla violenza paterna.

Nel primo racconto fin dall’inizio l’autore dipinge la scena con efficacia: “Dritto come un borasso, Thierno teneva il corpo del figlio come fosse un panno ben stirato”.  Thierno, un povero uomo proveniente dal villaggio, è arrivato all’ospedale dove gli viene riconsegnato il corpicino del figlio morto per una forma acuta di varicella. Dovrà fare un lungo viaggio per portarlo al cimitero ma non ha un soldo. Riesce a impietosire persino il più povero dei venditori, uno stracciaiolo che staziona fuori dall’ospedale per raccogliere i vestiti dei morti che una volta lavati è possibile vendere. Proprio questo vecchietto, nonostante il suo attaccamento ai soldi, darà a Thierno i soldi del biglietto per l’autobus che lo porterà al cimitero. Ma portare un morto dentro un mezzo pubblico è uno scandalo e un segno di sventura per la sua gente, per cui Thierno con il cuore in tumulto stringe a sé quel fagottino cercando di non dare nell’occhio; dentro, le persone che si muovono nell’autobus sono rumorose, come l’autista, il bigliettaio, un borseggiatore con i suoi complici, alcune donne che si avvicendano sedendosi accanto a lui, e all’esterno, nelle soste del bus, i venditori del mercato che bussano ai vetri. Tutto contrasta con il silenzio e la paura di Thierno. E’ una vera “via crucis” quella che lo attende. Per fortuna accanto a lui viaggia anche un marabutto in preghiera, rispettato e onorato dal pubblico dell’autobus ; proprio lui farà l’ultimo pezzo di strada a piedi insieme a Thierno verso il cimitero di Yoff : nell’autobus hanno scoperto che lui porta con sé il cadavere del bambino così viene invitato malamente ad uscire, senza nessuna pietà per il suo stato d’animo. Tutti i personaggi sono ben caratterizzati e riflettono le contraddizioni e le differenze tra uno strato sociale e l’altro. Il saggio marabutto esprime il legame con la tradizione rimanendo esterno a quel mondo caotico, così come Thierno è estraneo al mondo urbano.

Taaw è un racconto più articolato che riflette i cambiamenti avvenuti all’interno della società africana dopo il colonialismo ma anche contro i pregiudizi religiosi della comunità religiosa dove si predica bene e si razzola male.

Il padre di Taaw , Baye Dabo è un lavoratore frustrato, pensava di essere “un padre protetto” date le numerose mogli e la numerosa prole ma le nuove leggi gli impongono di andare in pensione prima del tempo, lasciando il posto di lavoro ai giovani. Così sfoga la sua delusione e rabbia sui figli, picchiandoli di frequente, e sulla moglie trascurandola nei suoi doveri coniugali che assolve solo con la seconda.

Anche questo racconto, come Niiwam si svolge nell’arco di ventiquattr’ore ma ci sono dei flashback che ricordano l’infanzia di Taaw con gli studi andati a male, per una incuria paterna e per i maltrattamenti di una zia che invece di ospitarlo lo porta alla denutrizione. Taaw da grande si ribella e reagisce alla violenza del padre contro la madre Yaye Dabo, la vera protagonista del racconto, picchiandolo a sua volta. Dopo il carcere, torna a casa e deve trovarsi un lavoro ma sembra che si debba pagare per essere ingaggiati dal portuale Tonton Gaston. Attraverso il ragazzo vediamo vari ambienti della società senegalese tratteggiati: la casa dei genitori e il vicinato, soprattutto quello femminile; il porto con i suoi datori di lavoro corrotti ; la casa degli zii benestanti: la gioventù urbana africana attorno a Taaw.

Il ragazzo in un primo momento si comporterà male nei confronti della ragazza che aspetta il suo bambino, negando di esserne il padre, poi rinsavirà grazie anche a quell’unico schiaffo ricevuto dalla madre… Eccola la madre Yaye Dabo a risanare la situazione. La sua e quella del figlio. La descrive Ousmane “onesta, limpida, sottomessa e ubbidiente di natura, era sopita in lei una volontà senza limiti”. Questa volontà si risveglia nel momento in cui il marito dichiara di ripudiarla se il figlio non uscirà di casa portando con sé la ragazza che ha reso incinta, a sua volta cacciata dalla sua famiglia. La donna risponde “Sono io che ti ripudio” e lo spinge gettandolo a terra. Le donne del vicinato ammutoliscono di fronte alla rivolta di Yaye Dabo. Inoltre la donna dichiara che non si può considerare un marito chi non adempie i suoi doveri coniugali e maltratta i figli incurante della loro vita. Dicendo così lo scavalca, mentre lui è a terra, con un gesto che la società wolof condanna soprattutto se compiuto da una donna, e lo invita a uscire per sempre da casa. Alcune voci si levano dal coro delle vicine intimandole di smettere per non essere condannata dalla società ma una si leva dicendo “Io sto con te Yaye Dabo, sono gli uomini a dettare le leggi del matrimonio, e sono anche i primi a violarle”.

La donna, con un’ultima trasgressione verso il suo mondo, invita la giovane coppia a rifugiarsi sotto il suo tetto; quel bambino nascerà e forse avrà un futuro migliore del loro. Il cambiamento è intervenuto in nome della giustizia, della verità, della pace, perché Yaye Dabo “si rifiutava di guardare il mondo attraverso gli occhi degli altri”. Anche per l’autore vale questa espressione, lui non ha voluto entrare nel movimento della Negritude per esempio, perché era troppo riduttivo rispetto alla sua idea di libera espressione e comunicazione. Concludiamo con le parole convincenti di Valeria Sperti che ha curato l’introduzione e in questi racconti rileva “la composizione di una ‘Commedia africana’ che non cerca di seguire, ma nemmeno di rinnegare, i modelli occidentali o africani ma di oltrepassarli per proporre un’opera attuale, visionaria, ma anche universale e atemporale”.

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