James Baldwin
Nessuno sa il mio nome
Fandango libri, 2024
Traduzione di G. Cella e V. Di Giuro
Il titolo di questo testo ci immette nella tormentata storia di una identità, quella del nero americano.
Baldwin era un nero intellettuale americano ed essendosi dichiarato gay incarnava tutte le caratteristiche che l’americano bianco amava tenere a distanza avendone in fondo soprattutto paura.
In questo saggio si parte dal singolo, dall’individuo, come affermazione della persona secondo la visione dell’umanità che ha Baldwin, e il discorso poi, che si svolge in questi saggi del 1961, (dopo la prima parte, Note di un figlio nativo, uscita nel 1956) si fa via via più complesso e articolato: investe non solo l’americano bianco del Nord e del Sud di fronte al nero, ma anche il nero di fronte agli altri neri della sua comunità o del ceto medio in ascesa che finisce per stare lontano sia dai bianchi che dai neri. Per quanto riguarda l’ambiente degli scrittori e degli intellettuali neri che emigrano a Parigi e si incontrano nei caffè, o nelle loro case o nel Congresso degli scrittori e artisti africani (19.9.1956 alla Sorbona di Parigi), escono fuori tutte le differenze sia culturali che di tradizioni e di convinzioni personali nel grande confronto tra intellettuali neri americani e africani e anche tra intellettuali africani stessi.
In un momento storico come quello attuale che spesso banalizza, semplifica o peggio ancora tradisce la verità per una caccia allo scoop che faccia notizia, una ricerca accurata e una riflessione profonda come quella di Baldwin dà veramente da pensare sul terreno che dobbiamo recuperare per soluzioni ragionevoli sia a livello sociale che politico.
Riflessioni
Partiamo da un dato biografico. James Baldwin era cresciuto ad Harlem, figlio di un pastore evangelico e lui stesso confessa che era cresciuto dentro la chiesa accanto al padre e ai fratelli; la prima uscita è all’esterno della sua comunità verso il mondo bianco; la seconda verso l’Europa, a Parigi. Più volte Baldwin sottolineò quanto fu importante questo viaggio verso l’Europa perché gli servì a riappropriarsi della sua identità di nero americano: per riconciliarsi con il suo paese doveva uscirne e poi tornarvi. Il libro in esame viene scritto in gran parte durante il suo soggiorno a Parigi, all’età di 37 anni, prima di ritornare in America. Confrontandosi con la realtà europea di Parigi, l’autore vede il diverso modo di essere accolto come scrittore, l’apertura mentale e la vita di relazione intensa che vi si svolge, tutte cose di cui aveva bisogno e che in America non aveva trovato. Nello stesso tempo affiora, nel contrasto con il luogo che lo ospita, il suo essere americano e l’opportunità di ragionare sopra questa identità.
L’analisi che l’autore svolge sul razzismo esercitato soprattutto nel Sud (Georgia) mette a nudo le efferate crudeltà e le uccisioni commesse contro i neri da parte dei bianchi ma vuole andare un po’ più a fondo per capire le ragioni più profonde di questo odio. E tra le tante ipotesi si propende verso quella che è considerata “la grande illusione” degli americani bianchi, cioè che tutti gli altri popoli devono invidiare l’America. Sono riflessioni pericolose, come afferma lui stesso, avventate ma necessarie: per l’americano bianco la vita è una faticosa ascesa verso un qualche benessere supremo e in questa ascesa un ignoto terrore si impadronisce di lui, “terrore che con i neri non ha niente a che fare”. Il problema di una mancanza di identità in America viene analizzato acutamente. A un dato punto della storia le antiche strutture del cosiddetto Nuovo Mondo vengono sommerse dalla marea europea: italiani, greci, spagnoli, irlandesi, polacchi, persiani, ebrei erranti, etc., tutti precipitarono in un immenso crogiolo senza la minima intenzione di fondersi. Il problema più importante fu allora, anziché la conquista di una identità, la conquista di una posizione sociale che non va confusa con una visione materialistica ma ciecamente idealista, l’autore la definisce ”metafisica”.
Baldwin dice che il ruolo assegnato ai neri nella vita americana dipende “dalla nostra concezione di Dio e dal mio punto di vista questa concezione non è abbastanza grande”. “Io concepisco Dio - dice l’autore - come mezzo di liberazione e non di oppressione”. Per quanto si voglia, neri e bianchi in America sono uniti per sempre e questo dovrebbe portare a un paese dove non esistono minoranze.
Tra l’altro Baldwin una volta uscito da ragazzo verso il mondo dei bianchi scopre che questi stessi provavano l’identica pena dei neri, la pena di non sapere ciò che fossero, “volevano esser qualcosa che non erano”. Incoerenti, pavidi dunque, non vogliono affrontare le cose. E rileva un autentico smarrimento e una inimitabile confusione nella gioventù americana.
Incontri speciali
E’ a Parigi che Baldwin ha occasione di incontrare grandi scrittori come Gide, come Norman Mailer, come Richard Wright, con quest’ultimo avrà un debito speciale di riconoscenza perché è stato il suo grande primo maestro per il suo mestiere di scrittore ma in un secondo momento ci sarà una brusca rottura tra loro. Il loro incontro viene descritto in maniera particolareggiata nel libro: Baldwin aveva scritto, per la rivista Zero, il saggio Il romanzo protesta comune, che Wright riteneva offensivo per la sua persona; Baldwin, che era stato il suo allievo, non aveva intenzione di offenderlo ma voleva rompere i confini imposti dalla cosiddetta letteratura di protesta cui Wright apparteneva; lui non voleva essere “semplicemente uno scrittore nero” voleva rompere i confini di queste categorie razziali. Sia con Gide che con Norman Mailer e Wright , l’autore esamina i mondi interiori di questi artisti confrontandoli con il suo. Così sarà anche quando intervisterà il regista Ingmar Bergman in Svezia (una testimonianza interessante per chi vuole saperne di più sulla psicologia del famoso regista). Le riflessioni dell’autore mettono in luce come “la persona” non venga considerata dall’americano bianco e la funzione dello scrittore è quella di rivelare la realtà a partire dal singolo individuo, dalla sua umanità. Quando si denuncia il modo inumano con cui furono trattati i neri nel Sud si vuole ricordare una cosa semplice da capire ma impossibile per gli americani, cioè che “i neri vogliono essere trattati come esseri umani”. E la sua riflessione continua (riportando alla mente di noi lettori altri crimini commessi durante il nazismo, in SudAfrica, e negli attuali conflitti bellici) quando afferma “non si può negare l’umanità altrui senza menomare anche la nostra: ci si specchia nel volto delle proprie vittime”.
Eppure anche lui, l’autore, non può negare di avere ricevuto una educazione a scuola indirizzata a disprezzare i neri africani, a vederli come selvaggi lontani mille miglia dal loro grado di civiltà; questo lo aveva formato in un modo tale che lo portava a provare odio per i bianchi e allo stesso tempo disprezzo per i neri ma per fortuna ne prende coscienza e apre la sua mente e il suo cuore verso una visione umana.
Se affiorano delle perplessità da parte di Baldwin nei confronti del suo amato maestro Richard Wright , e lo può constatare con dolore confrontandosi con i giudizi di molti che lo frequentavano e delle tante persone che si allontanarono da lui negli ultimi tempi, questo è dovuto al fatto che probabilmente Wright “si preoccupava più della propria sicurezza e del proprio benessere che della condizione nera”. “E finì col vagare nella terra di nessuno, tra il mondo nero e il mondo bianco…”.
Baldwin ha dimostrato di mettercela tutta per non tradire la sua missione di scrittore disvelatore della realtà, che è il compito di ogni scrittore poiché “noi scrittori abbiamo una responsabilità non solo verso noi stessi e il nostro tempo ma verso quelli che verranno dopo di noi”. E a tale proposito mi sembra molto appropriato il termine usato da Alfred Kazin (The Reporter) nel commentare questo saggio, definendolo una “biografia spirituale”, narrazione di cui abbiamo fornito a grandi linee lo svolgimento ma che merita una buona meditazione per ciascun capitolo.