Shugri Said Salh
L’ultima nomade
Mar dei sargassi edizione, 2022
Traduzione di Elisabetta Crisafulli
Una distinta infermiera somala, emigrata come profuga prima in Canada e poi negli Stati Uniti, a quasi 50 anni si decide a dare forma ai ricordi della sua infanzia, della fuga dalla sua terra e dell’approdo in Nord America.
Ma non è la storia del viaggio disperato dell’esiliato come potrebbe sembrare, il centro di questa narrazione, bensì l’infanzia trascorsa tra i nomadi in compagnia della sua ayeeyo, la nonna pastora e poetessa. Ha un disperato bisogno di consegnare, non solo ai suoi figli, ma anche quanti la leggeranno, la bellezza della sua cultura: perché lei è l’ultima nomade della sua famiglia in senso stretto e ha paura che la gente si ricordi della Somalia solo per gli orrori delle guerre civili, delle mutilazioni genitali o della sottomissione delle donne. Ritiene che sia giusto dare un’immagine meno semplificata della società somala, anche se non si trattiene dal criticarne gli aspetti più lesivi soprattutto nei confronti delle donne.
Non siamo di fronte a letteratura di fiction, ma ad un memoir particolareggiato e sentito, scorrevole da leggere, in cui protagonista è una ragazzina che cresce sullo sfondo di una Somalia che cambia tra mille contraddizioni, e si forma nella testa una mentalità, fondata sulle tradizioni ma anche volta ad un futuro di cambiamento. Le vicende coprono gli anni dall’epoca di Siad Barre ai nostri giorni.
La prima grande contraddizione è all’interno stesso della sua famiglia: la nonna, madre di sua mamma, alta e forte, fa un lavoro da uomini, occupandosi di cammelli e non solo di capre e pecore, tradizionale attività delle donne nomadi, insieme alla cura, trasporto e riedificazione della aqal, la tradizionale capanna nomade.
La sua ayeeyo era considerata una grande poetessa, dalla lingua lirica ma anche affilata e tagliente per castigare i maschi che non si comportavano bene. La madre di Shugri, questo il nome della nostra protagonista, era nomade e analfabeta, ma con un senso spiccato degli affari, cosa che le permise di mettere su un piccolo commercio in autonomia, quando, giovane sposa, andò a vivere in città. Il padre, super tradizionale e molto religioso (avrà svariate mogli e in tutto 23 figli) scappò via dal deserto per andare a istruirsi in città, imparando l’inglese, divenendo maestro di somalo e arabo, nonché di scuola coranica: nonostante si comportasse come un padre padrone manesco (come tutti gli altri capofamiglia) volle a tutti i costi che le femmine del suo gruppo frequentassero la scuola come i maschi.
Solo a Shugri, a 4-5 anni toccò di intraprendere la vita da nomade nei deserti e nelle steppe della Somalia occidentale insieme al clan della nonna, perché questa era rimasta sola, essendo morti o andati via tutti i membri della sua famiglia: una bambina doveva crescere con lei e aiutarla. Non crediate che l’autrice abbia parole di biasimo per questo: dalla lontana America guarda con gli occhi della nostalgia a quella vita semplice, dura ma affascinante. Impara dalla nonna le tecniche di sopravvivenza in un ambiente ostile, la bellezza della notte stellata, il tepore degli agnellini che si avvicinano alle madri in cerca di latte, la gioia della stagione delle piogge, il coraggio ma anche la consapevolezza di fronte ai pericoli, i doveri cui è tenuta una donna, la sicurezza che procura un clan in armonia quando ognuno gioca il proprio ruolo per il benessere di tutti. Sono memorabili le immagini della bambina costretta a scappare dopo aver aizzato dei facoceri o la faticosa salita sui cumuli dei termitai, la fatica e la gioia per essersi fatta ubbidire da un cammello bizzoso,
Ma le cose che ricorda con più piacere sono i racconti sotto le stelle, davanti al fuoco: narrazioni e poesie, recitate a turno da uomini e da donne. Le leggende del clan, le gesta eroiche dei suoi membri: il clan e le genealogie sono al centro di tutto. Per i bambini è una vera e propria scuola.
L’autrice vuole che guardiamo alla Somalia contestualizzando ciò che accade o vi è accaduto, anche quando si tratta di elementi che lei stessa ha ripudiato per le sue figlie e per tutte le donne somale, come nel caso delle mutilazioni genitali.
Lei ricorda l’orrore ma anche la gioia e la fierezza di questo rito di passaggio che la rendeva pura e sposabile: era un segno di disaffezione familiare non circoncidere una ragazza, significava non avere a cuore il suo avvenire e quello della famiglia che ne veniva disonorata. Per un popolo che si fonda sui clan e sotto clan, le alleanze tramite matrimoni sono importantissime, altrimenti è guerra. Certo che le tradizioni possono mutare, avverte Shugri Said Salh, ma il maschilismo del patriarcato è duro a morire, anche se si emigra: anzi nell’esilio certe famiglie rinforzano le tradizioni e la sottomissione femminile per paura di perdere l’identità. Si rammarica inoltre dell’avanzare degli integralismi religiosi che hanno distrutto una modalità di vivere la fede senza estremismi e con grande tolleranza, in uso soprattutto tra i nomadi.
Per questo, pur avendo descritto con precisione medica le fasi della mutilazione genitale e le conseguenze che provoca, impressionandoci senz’altro, non vuole parlare solo di questo o dei traumi della guerra, di cui era stato vittima un suo amato fratello. Vuole raccontarci anche delle cose normali che avvenivano: a dispetto del padre e delle madri e di tutto il parentado i giovani e le ragazze s’innamoravano, si frequentavano di nascosto, si baciavano e si toccavano, anche se con l’ansia di incontrare qualcuno che potesse fare da spia, perché in tal caso per le femmine erano botte e umiliazioni.
Dopo lo scoppio della guerra civile, prima con le rivolte contro Siad Barre, poi con i combattimenti dei clan per prendere il potere, e dopo una parentesi in un campo profughi del Kenya, raggiunto grazie al coraggio di una delle sorelle, ecco la giovane Shugri arrivare in Canada e affrontare difficoltà di vita che ci fanno sorridere, ma che rappresentano un cruccio per lei che aveva affrontato iene e facoceri, vento e aridità implacabili: la meccanizzazione della vita quotidiana, i vari dispositivi che incontra, per lei incomprensibili, per esempio nei mezzi di trasporto o il terrore delle scale mobili. Senza considerare il bianco della neve e il gelo, la sorpresa di rapporti liberi tra genitori e figli, tra ragazzi e ragazze la colpiscono; s’innamora più volte, sperimenta la perdita, finché non incontra un giovane profugo etiope con cui metterà su famiglia.
Fortunatamente il padre, a suo tempo, l’aveva richiamata in città per andare a scuola dove apprendere anche l’inglese, chiudendo la sua parentesi nomade e così in Canada è in grado facilmente di riprendere gli studi che la porteranno alla sua professione di infermiera: anche questo aveva imparato da sua nonna, una guaritrice che curava con erbe trovate lungo i suoi cammini di pastora.
La narrazione non sempre scorre veloce, a volte s’impantana in descrizioni troppo lunghe, soprattutto in quelle della vita a Mogadiscio, immersa nei problemi della vita quotidiana in tempo di guerra. C’è anche la sensazione di volere esprimere giudizi che restano comunque un po’ ingenui, proprio perché sono quelli di una persona comune e non esprimono un punto di vista politico.
E’ cambiata la vita di Shugri in America. Come madre, pur accompagnando i figli a tutte quelle attività cui sono dediti i bambini e i ragazzini occidentali, non ha mai rinunciato a narrare le storie, le leggende della sua gente e ha cantato loro le ninnenanne che avevano cullato lei piccolina. Certamente di fronte ai mutamenti della sua vita ha saputo reagire bene proprio perché la vita nomade le ha insegnato la resilienza, il non abbattersi mai, ricominciare da capo con quello che si ha a disposizione e sperare nel domani. E tanta, tanta pazienza. Non può più sedersi intorno ad un fuoco a parlare, a scambiarsi opinioni, a dirimere liti sotto le stelle, ma riunisce gli amici intorno ad una bella tavola per tirare fuori preoccupazioni e problemi e trovare soluzioni, proprio come avrebbe fatto sua nonna.
Ogni tanto, quando la nostalgia bussa alla porta, ora che abita in una parte della California bella e pulita dal punto di vista ambientale, depone il camice da infermiera e con una sua vecchia amica somala, ritrovata dopo tanti anni, anche lei profuga, s’incammina verso i boschi e i sentieri di montagna, a contatto con la natura, respirando a pieni polmoni quella libertà che un tempo l’aveva incantata.