Wilfried N’Sondé
Un oceano, due mari, tre continenti
66thand2nd, 2020
traduzione di Stefania Buonamassa
C’era una volta il villaggio di Boko, piccolo e idilliaco...Comincia così, in una notte di tempesta e magia, nel 1583 la vita di Nsaku Ne Vunda, in seguito divenuto prete della chiesa cattolica del regno del Congo. Ma non il Congo che ci viene subito in mente: quello della repubblica democratica del Congo o del Congo-Brazzaville. Si tratta dell’antico impero del Congo che occupava, in parte zone attraversate dal fiume Congo, e in parte l’attuale Angola: la città angolana di Mbanza Congo ne era allora la capitale. Dalla metà del XVI secolo attraverso la conversione di re Alfonso, molti bakongo si erano fatti cristiani, anche se con una grande riserva circa l’abbandono di alcune credenze tradizionali come il culto degli spiriti degli antenati.
Il giovane Nsaku Ne Vunda viene avviato al sacerdozio dai preti missionari presso i quali studia, fino a divenire parroco del suo villaggio. Sebbene da sempre molto recettivo a sogni e visioni, non poteva immaginare quale straordinario viaggio era chiamato a compiere: incontrare il papa di Roma e accreditarsi in qualità di ambasciatore straniero alla corte pontificia. Perlomeno questo è ciò che gli chiede il suo re Alvaro II, oltre a esprimere una certa preoccupazione per lo strapotere che stavano acquisendo i portoghesi con la tratta degli schiavi.
Inizia così la fiction storica che l’autore congolese dedica al misconosciuto personaggio che ha realmente compiuto questo viaggio fino ad essere accolto, ormai morente, dopo quattro anni di mare e di avventure, da papa Paolo V. Sepolto in Santa Maria Maggiore e ricordato con un busto marmoreo suscita la curiosità di quanti vi passano davanti senza sapere nulla. I contemporanei rimasero colpiti dalla sua abnegazione ed energia, ma senza per questo motivarsi attivamente contro la schiavitù, se non con inutili e ipocrite parole. Inutile sottolinearlo, il popolino che lo vide stupito percorrere in carrozza le strade di Roma, lo ricordò con il nomignolo di ‘Negrita’.
Cosa spinge lo scrittore verso questa storia? L’idea che, in una sorta di romanzo di formazione (in cui l’ingenuo prete smette di sognare e illudersi e diventa consapevole delle brutture del mondo della tratta e non solo) si possa mostrare l’origine della schiavitù degli africani, la triangolazione del commercio tra Africa, Nuovo Mondo ed Europa, la strada aperta per la colonizzazione e la cancellazione culturale del passato di questo impero e di altri popoli africani. A differenza del romanzo “Non dimenticare chi sei” della ghanese americana Yaa Gyasi, pubblicato da Garzanti nel 2017, in cui la vicenda, seguita per tre secoli, riguarda sostanzialmente la saga di una famiglia ashanti, pur toccando la storia della tratta e della schiavitù degli afroamericani in generale, il testo di Wilfried N’Sondé ha maggiori ambizioni storiche. Ricrea, infatti, davanti agli occhi del lettore, il mondo di allora con tutti gli intrecci e intrighi politici, la lotta per la supremazia delle potenze di Portogallo, Spagna, Francia, un papato completamento immerso nel lusso, incapace di fare fronte alle guerre religiose che si scatenano con la riforma protestante, arrivando ad allearsi con gli Ottomani, pur di uscire dallo strapotere dell’Inquisizione spagnola, controllata dai re di questa monarchia.
Ma non basta: Dom Antonio Manuel, questo il nome cattolico di Nsaku Ne Vunda, ci fa capire anche come la schiavitù fosse conosciuta dai Bakongo, essenzialmente relativa ai prigionieri di guerra o a uomini che incorressero nei rigori delle leggi vigenti. Pur essendo meno crudele non per questo era meno dura e offensiva nei confronti della dignità umana. Esattamente queste categorie di individui, all’inizio, venivano scambiati con merci europee e armi che aumentavano il prestigio delle varie dinastie aristocratiche, fino a che i re non riuscirono più a controllare le dimensioni enormemente ingigantite del traffico umano, gestito dagli stranieri. La cupidigia s’impossessò dei Bakongo che si fecero mercanti di uomini, arrivando a porre nei mercati anche membri della propria famiglia con cui erano in urto.
E’ attraverso lo sguardo ormai alto e distante del busto di marmo che lo ricorda a Roma che Dom Antonio Manuel parla ai lettori e ci racconta porzioni di questa infelice storia, anche attraverso le sue riflessioni di cristiano. Un noioso libro di storia? Per niente. Se per Yaa Gyasi il modello è Toni Morrison l’autore sceglie il romanzo d’avventura per narrare questi avvenimenti: in certi momenti sembra di leggere il Dumas redivivo dei “Tre moschettieri” o de “Il conte di Montecristo” con intrighi di corte e scene di cappa e spada, trame oscure di corsari, navi spagnole, assalti di ciurme, pirati barbareschi, carceri maleodoranti come le stive che trasportavano gli schiavi nelle viscere delle navi . Oppure lo scrittore riporta certe atmosfere di racconti di mare e di costa alla maniera di Jack London, con le bellissime descrizioni di terribili tempeste atlantiche, bonacce e caldi torridi che fiaccano i marinai, di albe e tramonti da sogno.
Accanto a questi elementi troviamo l’insistente e brutale descrizione delle sofferenze degli schiavi, condotta fino all’estremo, come in una sorta di barocco figurativo spagnolo, allo scopo di impedire al lettore di distogliersi dalle vicende della tratta: non viene risparmiato nessun particolare delle sevizie e degli stupri, delle crudeltà gratuite e quelle commesse dai marinai obbligati a questi comportamenti dai comandanti delle navi e dagli ufficiali, il cui unico scopo era fiaccare la volontà di ribellione di uomini, donne e bambini per poterli preservare come merce.
Ma Wilfried N’Sondé bilancia questa crudezza con le espressioni delicate riservate alla tenera amicizia del protagonista con il mozzo Martin (personaggio che riserverà qualche sorpresa al lettore): incredibilmente tra questi due , provenienti da luoghi e culture profondamente diversi, si instaura una consonanza spirituale che sarà di grande aiuto al protagonista durante il viaggio, la permanenza nelle carceri dell’Inquisizione e negli ultimi istanti di vita. Quando la sua fede vacilla di fronte agli orrori, l’amico presente o evocato lo richiamerà ai valori umani e religiosi in cui è cresciuto.
C’è una scena del testo, molto efficace e potente, quella della danza macabra di un gruppo di schiavi, durante i pochi istanti di aria sul ponte della nave, che non è solamente di consolazione per ciò che è stato negato alla loro umanità, ma reca prepotentemente un senso di ribellione e volontà di riscatto: chi potrà si getterà in mare, gli altri soccomberanno al massacro: le immagini si incideranno nella memoria di dom Antonio Manuel e provocheranno in lui dei cambiamenti. Assumerà su di sé quei sentimenti e deciderà che la sua vita sarà votata a perpetuare la memoria di questa storia: dopo la sofferenza del carcere e l’aver provato sulla sua persona privazioni e torture e empatia con tutti i prigionieri dei soprusi dei potenti, si libererà dal senso di colpa per i suoi privilegi e sarà, a testa alta e ormai svincolato dalle cieche obbedienze alle autorità costituite, dalla parte degli schiavi.
Il libro si rivela originale nelle descrizioni e nel linguaggio e mostra una capacità divulgativa cui non deve essere stato estraneo il fratello storico che vive a Guadalupe, luogo dove, nonostante l’attività instancabile della Condé, si stenta a voler ricordare il passato di deportazione e schiavitù. Ma anche in Africa, in realtà, non sono molti i narratori che scelgono questa tematica: citiamo “La stagione dell’ombra” di Eleonora Miano (Feltrinelli, 2019) e “ I cento pozzi di Salaga” da noi recensiti nel sito. Ma forse gioca la stessa reticenza che ha governato gli scrittori nel divulgare fatti e storie della Shoa ebraica.