Abdulrazak Gurnah - L'ultimo dono - recensione a cura di Giulia De Martino

Abdulrazak Gurnah

L'ultimo dono

La nave di Teseo, 2024

traduzione di Alberto Cristofori

 

 

Quest’ultima traduzione dello scrittore anglo-zanzibarino edita da La nave di Teseo, risale in realtà al 2011, quando ormai più che sessantenne guarda alla sua esperienza di rifugiato degli anni '60, con una maggiore voglia di conciliazione delle contraddizioni che attraversano tutte le vite dei migranti. Vite che contemplano la lotta tra vecchie e nuove appartenenze, l'identità nuova che si acquisisce nelle diverse vicende ed esperienze, anche in relazione all'età, e quella stereotipata che ancora ti rimandano gli occhi di chi ti osserva e vuole relegarti allo stesso ruolo di straniero emigrato, privo di legami significativi con la terra che ti ospita.

Il protagonista Abbas, dopo una esistenza di lavoro, subisce un ictus che lo immobilizza e lo rende afasico: ma l'afasia della malattia lo porta a guarire dal mutismo circa le sue origini, le vicende che lo hanno portato da un'isola dell'Africa orientale all'emigrazione. Silenzio che ha regolato per tutta la vita i rapporti con sua moglie Maryam e i figli Hanna e Jamal, nati in Inghilterra. Abbas, baldo giovane marinaio, imbarcato per diversi anni su navi mercantili, bello, affascinante e con quel tanto di mistero che seduce, conosce una bella trovatella di sangue misto, pressoché adolescente, a Exeter, dove ha deciso di fermarsi. Lei è passata attraverso vari nuclei affidatari, fino ad una famiglia indiana che mescola, nei suoi comportamenti, gentilezza e violenza repressa. Il giovane la convince a fuggire e iniziare insieme una nuova vita: lei subisce il suo fascino soggiogata e suggestionata dalla possibilità di una esistenza diversa, lo segue senza chiedere niente del suo passato, della terra da cui proviene e del perché voglia fermarsi dopo anni di vagabondaggi in mare.

Anche Maryam non parla mai della sua condizione di trovatella fuggiasca e della sua voglia di conoscere la madre che l'ha abbandonata. Soprattutto la figlia Hanna si sente schiacciata da tutto ciò e non vuole sentire parlare delle loro “vili storie di migranti”.

Per tutta la vita i due si amano, senza conoscersi veramente, condizionando la vita dei figli che sentono inconsciamente questo vuoto sulle loro origini, originando una rabbia verso i genitori, che arriva, nella figlia, anche alla cancellazione dell'acca iniziale del nome Hanna, mutato in una Anna, meno compromettente per chi voglia mimetizzarsi in una esistenza tutta british. Nel figlio si genera invece un interesse professionale verso il mondo della migrazione e arriva ad un dottorato sulle politiche migratorie della U.E ( ricordiamo che nel 2011 non era ancora all'orizzonte la Brexit) che però ancora non riesce a concludere.

La vicenda accoglie i punti di vista di tutti i personaggi di questa famiglia, trascorrendo dall'uno all'altro senza imbarazzare il lettore, grazie all'abilità straordinaria dell'autore che con uno stile fluido ed efficace non crea salti di lettura che possano confondere chi legge.

La malattia del padre costringe i figli ad un ritorno a casa e si crea un'atmosfera da resa dei conti: ci si confronta con il non detto con cui hanno tutti vissuto. Ma non in modo diretto, parlando con Abbas, poiché lui non è in grado di affrontare lunghe conversazioni. Abbas si affida ad un registratore, su cui incide tutti i ricordi e le immagini che si affacciano sullo schermo della sua mente. Teme di non farcela a dire tutto quello che vorrebbe dire, prima di una morte che sente ormai vicina, e i ricordi si affastellano incessantemente.

Ecco che il lettore viaggia letteralmente nel passato di Abbas: molto è dedicato alla sua infanzia con un padre burbero, avaro e anaffettivo, alla scuola che ha frequentato, grazie alla rinuncia del fratello, cui spettava di diritto, alla povertà condita di durissimi lavori per riuscire a sottrarsi al destino di miseria. Alla memoria di Abbas si presentano le immagini colorate di Zanzibar, della sua natura, della folla di gente mescolata in lingue ed etnie, dei mercati e villaggi.

I figli apprendono della fuga del padre, a causa di un fortunoso matrimonio con la figlia di un ricco benestante, da cui dovrebbe discendere il benessere della famiglia di Abbas. A quale prezzo? La rinuncia alla propria dignità e libertà: il giovane si sottrae, in realtà con molta vergogna, alla giovane moglie e ad un figlio in arrivo, di cui non è sicuro di essere il padre, per affrontare, per molti anni, una vita avventurosa in mare.

Al lettore sembra di entrare dentro i romanzi di Melville e Conrad per poi bruscamente passare alla vita di Abbas come emigrato in Inghilterra. I periodi politici tormentati, seguiti da rivolte, dopo la fine del sultanato a Zanzibar, rendono impossibile il ritorno. La placida Norwich accoglierà la vita, non priva di qualche benessere, di Abbas e Maryam.

Finalmente i figli sanno da dove proviene il loro sangue e capiscono di avere respirato, fin da bambini, nella reticenza del padre, il senso di colpa e la nostalgia da cui era dominato. L'oscuro senso di estraneità all'ambiente britannico che covava in loro si chiarisce e capiscono che fanno parte di due mondi. Sono inglesi ma percepiscono cosa ha impedito loro di esserlo del tutto: attraverso il padre si sono sentiti addosso quella non accettazione che prova ogni migrante di prima generazione da parte del paese in cui viene accolto e che continua a passare alle generazioni successive.

La moglie sente che la malattia del marito ha in realtà un influsso benefico su di lei. Prova un sollievo unito alla tenerezza con cui assiste il marito. Eterodiretta da sempre, per la prima volta sente di avere una individualità propria, cresce la sua capacità di scegliere e capire cosa la interessa: pensa di riprendere le ricerche per ritrovare la famiglia adottiva e la madre biologica che l'ha partorita. Trova un suo posto per lavorare come volontaria in una associazione che si occupa di migranti e rifugiati.

Anche i figli, attraverso il superamento del non detto, quella che qualche critico ha chiamato “la morfologia del silenzio”, accettano la loro origine, programmando, dopo la morte del padre, un viaggio a Zanzibar.

Dopo i litigi e i rancori affrontano il dialogo e la riconciliazione: questa è la grande lezione di Gurnah, nella famiglia come nella società in cui ci si è trovati a vivere, non sempre per una scelta diretta, come nel caso dei rifugiati.

Restano comunque, in tutti i romanzi di Gurnah, i giudizi critici su cosa ha reso Zanzibar un giocattolo ameno ad uso e consumo del turismo internazionale, in mano ai grandi capitali; la memoria dei luoghi che diventa un sacro mito per chi non vi ritorna più; la rabbia, discreta ma costante verso un mondo occidentale che non sa veramente accogliere gli altri, che rischiano di restare altri per tutta la vita.

Ci è parso il romanzo più dolente tra quelli pubblicati, ma anche aperto alla speranza di un cambiamento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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