Teju Cole - Tremore - recensione a cura di Rosella Clavari

Teju Cole

Tremore

Einaudi, 2024

traduzione di Gioia Guerzoni

 

 

La fotografia, l’arte figurativa e la musica interagiscono nella sensibilità di questo scrittore, ansioso di penetrare le domande più profonde dell’uomo. 

Fotografa stati d’animo, indugia sul dettaglio, si rifugia nella musica quando arriva in Mali: “ci sarà tempo per il dolore nella vita, ma l’anno scorso a Bamako ho osato credere di essere felice, non solo perché potevo vedere la musica dal vivo ma anche perché me la godevo nel luogo dove era nata, tra persone che ne capivano le parole”; oppure nell’arte quando entra in una galleria d’arte moderna nel Massachusetts “il Massachusetts ha strati più antichi di un tempo più profondo rispetto a New York”. In ogni modo è sempre tra due mondi la ricchezza di cui fruisce, tra la Nigeria sua terra d’origine dove è vissuto fino a 17 anni e gli USA dove si è trasferito ormai da tempo con la famiglia e dove vive e lavora tutt’oggi; vive infatti a Cambridge e insegna scrittura creativa ad Harvard, il tempio della cultura americana.

Le domande che si pone vertono anche sul razzismo ancora diffuso purtroppo negli USA dove il termine “terribile tragedia” è sempre associato a una strage in cui vittime sono stati i bianchi, sottacendo o volutamente ignorando le stragi compiute dai bianchi nei confronti dei nativi americani o degli afroamericani nel corso del tempo. Anche osservando un quadro come “La nave negriera” di Turner, si può rabbrividire di fronte a un male trasformato in fatto estetico; così come è l’Occidente ad avere distrutto molte opere d’arte durante la seconda guerra mondiale e le fotografie precedenti alla guerra sono muti testimoni di quella strage della bellezza.

Un certo frammentarismo nella scrittura non consente di parlare di una trama vera e propria: la storia di Tude e Sadako, lui nigeriano e lei giapponese, con alti e bassi, tenerezza e distanze, fa da filo conduttore attraverso una voce narrante ma in un dato momento il racconto si fa polifonia: ascoltiamo dei brevi racconti, come se fossero delle interviste, di vari personaggi della metropoli nigeriana.  I luoghi sono molto importanti per l’autore (“ogni luogo ha una storia più profonda di qualsiasi persona in quel luogo”). Teju Cole riesce a creare un impasto di ambienti dove dinamiche familiari e coniugali, percezioni, angosce, paure non risolte vengono a galla; un’aura magica dove fantasia e realtà si incontrano nella denuncia di un male perpetrato ai danni degli esclusi.

Al terremoto reale di Haiti, dell’Iran, che rievoca attraverso le testimonianze di alcuni personaggi, corrispondono i vari disagi esistenziali in cui si imbatte, relazioni in bilico o in crisi, sia etero che omosessuali. Volendo sconcertare e comunicare quel tremore tellurico che preannuncia il terremoto anche a livello psicologico, l’autore raggiunge l’obiettivo in quest’opera venata di sperimentalismo dove la frattura a livello di stile vede il passaggio dalla voce narrante alla polifonia, dalla narrazione in prima persona a una serie di racconti personali che potrebbero essere monologhi teatrali o interviste televisive.

Se il suo romanzo “Città aperta” del 2013 è più lineare nella sua espressione e consente di essere seguito maggiormente, tuttavia dobbiamo prendere atto anche di questa metamorfosi dell’artista che forse prepara a ulteriori cambiamenti nel suo percorso esistenziale e professionale. Nella sua vita gli ambienti cool della classe intellettuale americana a volte cinica e spietata si alternano ai ricordi vividi di Lagos o Bamako, terra africana sanguigna e sanguinosa.

Una curiosità: è amante della cultura italiana, in particolare della pittura rinascimentale, della fotografia (suoi maestri considera Luigi Ghini e Guido Guidi) e della letteratura (Italo Calvino e Primo Levi) e ci ha onorato della sua presenza in vari incontri e rassegne in Italia.

 

 

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