Camerun
La trappola
Edizioni Infinito, 2012
Questa volta non è un romanzo di cui vogliamo parlarvi, anche se si legge tutto d’un fiato come una fiction appassionante . Si tratta di una testimonianza, ben scritta in un linguaggio secco e senza sentimentalismi, in prima persona e senza la rituale interposizione di un giornalista o scrittore che ne raccolga la storia, come è successo nella maggioranza dei casi di migranti sopravvissuti alle terribili traversate per terra e per mare per approdare nella Fortezza Europa. E non è l’unico elemento di interesse: il testo è scritto da una donna camerunense, che non è riuscita a ‘passare’ e che, invece di perdersi, ha deciso di tornare e di prendere in mano il destino suo e di tanti altri giovani e donne africani, adoperandosi non solo per narrare la sua ‘avventura’, ma per farne uno spunto di partenza per riflettere e invitare a capire i meccanismi che conducono a questa ossessione di partire per Mbeng, l’Europa nel gergo dei migranti sub sahariani.
Certo dobbiamo dire che è stata aiutata da un incontro con una donna eccezionale, la maliana Aminata Traoré, ex-ministro della cultura in Mali, responsabile del Centro Amadou Hampaté Ba e promotrice del Forum per un Altro Mali , che l’ha incoraggiata nelle sue decisioni di dedicarsi a queste attività in Mali e che non a caso è presente nel testo con una sua presentazione . Ma la traduzione italiana conosce anche l’introduzione di Dagmawi Yimer, il migrante etiope che ha narrato la sua vicenda di attraversamento del Sahara e del Mediterraneo insieme ad altri nel bellissimo documentario Come un uomo sulla terra, firmato con Andrea Segre, mostrandoci la migrazione che arriva a buon fine e con un percorso positivo di inserimento nella terra di arrivo: ma appunto lui osserva che lei è andata oltre, ha dato voce a chi non ce l’ha fatta e ha saputo trasformare la sconfitta in un percorso di rinascita nell’Africa stessa.
La letteratura documentaristica italiana ci ha regalato degli splendidi e crudi documentari sul traffico di esseri umani che attraversano il mare di terra e il mare di acqua, sulle crudeltà commesse dagli sfruttatori ad ogni livello, sulle responsabilità della Libia, della polizia nordafricana in genere, su quelle delle politiche europee e, in particolare, sui respingimenti dell’Italia a chi scappa da guerra, fame e mancanza di libertà. Ricordiamo A sud di Lampedusa di Stefano Liberti, Sulla via di Agadez di Fabrizio Gatti, Hotel Sahara di Bettina Haasen, Mare chiuso di A.Segre e S.Liberti e altri che non possiamo citare tutti. Il pubblico più sensibile ha cominciato a interessarsi al problema con un libro-reportage scritto da F.Gatti per l’Espresso con Bilal il mio viaggio da infiltrato, ma soprattutto con i testi Mamadou va a morire e Mare di mezzo di Gabriele Del Grande, autore dell’informatissimo blog Fortress Europa, pieni di squarci di storie dolorose e toccanti oltre che di dati.
Il testo di Clariste dice “io”e questo è molto potente per attirare l’attenzione del lettore sull’argomento: è realizzato utilizzando pagine del suo diario, riflessioni ed emozioni organizzate in poesie, pagine finali di analisi del suo viaggio, durato ben sette anni dal ’98 al 2005, interrogandosi sul senso di quello che le è accaduto; in ultimo ci sono appassionate esortazioni ai giovani e soprattutto alle donne a restare nel continente per dare una svolta a questa Africa che vuole alzarsi in piedi, finalmente fiera di essere quello che è, senza più paura di far sentire la propria voce, sentendo di essere “in un mondo dove tutti abbiamo un posto”.
La trappola comincia con la sconfitta della giovane che rinchiusa a Belyounech, dopo esssere stata arrestata per l’ennesima volta dalla polizia marocchina, mentre ascolta le urla dei suoi compagni massacrati di botte, mentre assiste e riceve umiliazioni inenarrabili in un luogo che non sarebbe degno neanche di animali. Questa volta, però s’innesca in lei un meccanismo diverso: come sono arrivata a questo? perché debbo continuare a subire un sogno che non mi appartiene più, ucciso dalla violenza e dalla sopraffazione, dai rifiuti, dal razzismo delle popolazioni arabe , dalla mancanza di umanità? E’ da quel momento che la giovane Clariste ha bisogno di ricordare, rievocare non solo ciò che le è successo in viaggio attraverso una decina di paesi, ma anche gli eventi e i sentimenti, i pensieri che le hanno fatto prendere la decisione di partire, per capire per sé e per gli altri.
Parte dal Camerun, con l’accordo della famiglia, impoverita dalla disoccupazione del padre e dagli aggiustamenti strutturali degli anni ’90 che hanno messo in ginocchio la maggioranza dei paesi africani, perché è condiviso da tutti il desiderio di tentare di avere un avvenire migliore in un luogo più ricco e sicuro: la riprova è il successo di quanti esibiscono, al ritorno, soldi e ‘cose’, omettendo però, quasi sempre, quanto sia costato in termini di dignità e umilianti compromessi.
La giovane ha un asso nella manica: è una calciatrice, nata in un paese dove il pallone è un dio e la voglia di giocare in una bella squadra europea è il sogno proibito di molti. Sarà una attività che le permetterà di sopravvivere in molti dei paesi attraversati, facendoci scoprire un calcio femminile povero ma intensamente vissuto. Conosce persone buone e solidali, mascalzoni profittatori e delinquenti di professione, come i nigeriani che viaggiano con le donne destinate alla prostituzione in Africa e in Europa o l’uomo d’affari liberiano, privo di qualsiasi scrupolo nel lucrare sulle sofferenze e i sogni altrui.
I soldi servono per sopravvivere e per pagarsi le varie tappe del viaggio, dato che bisogna comprare documenti falsi, corrompere funzionari di frontiera e poliziotti di ogni categoria, passeur e guide di ogni sorta: non si arretra davanti a niente, pur di non interrompere il percorso. Ma è così che comincia un processo di disumanizzazione: non si ha più un sogno da portare avanti, ma un sogno che ti mangia l’anima: man mano che il viaggio avanza nelle tappe del deserto, con i mezzi più improbabili o a piedi, è evidente che ognuno pensa solo a sé e scompare ogni forma di solidarietà, anche se una bella ragazza trova sempre qualcuno disposto ad aiutarla… Essere donna e carina ha nel viaggio, evidentemente vantaggi e svantaggi e questi ultimi aumentano quando si cade in mano ai poliziotti algerini e marocchini, che peraltro non fanno molta differenza tra uomini e donne, perché, dopotutto “un buco è sempre un buco”.
Quanti volti, soprattutto di giovani uomini con cui la protagonista ha condiviso anche momenti belli, le vengono alla mente, alcuni l’hanno dimenticata, una volta a destinazione, altri sono morti, altri ancora stanno tentando di forzare la Fortezza. Il clou del racconto è nella terribile descrizione dei ricoveri che ospitano quanti vogliono fare la scalata delle reti di recinzione di Ceuta, enclave spagnola in Marocco, muri resi invalicabili da una grande varietà di dispositivi e di uomini armati e nella narrazione degli ossessivi tentativi impossibili di alcuni giovani, tra cui la stessa Clariste , di abbattere, in qualche punto, la rete per passare prima dello scatto dell’allarme.
Dopo l’ultima feroce disillusione la resa alla stanchezza mentale, fisica e psichica, soprattutto all’accettazione che un’altra strada deve essere possibile per tutti coloro che sono stati sacrificati sulla via dello ‘sviluppo’ e della modernità, per coloro ai quali è sempre stato detto che l’unico sogno era quello dello occidentale. D’ora in poi cercherà di spiegare anche agli altri l’assurdità della trappola che pretende di far arrivare nel paradiso, attraverso un inferno mortifero.
Clariste intravede questa strada collaborando con Aminata Traoré, studiando, preparando relazioni e materiale per cercare di far comprendere alle donne “perché il loro marito è senza lavoro, perché tocca a loro tappare le falle senza avere la considerazione che meritano, perché i prezzi degli alimenti sono raddoppiati mentre le famiglie sono sempre più povere[…]Le donne hanno bisogno di avere informazioni sulla politica e sull’economia, sull’assenza di sovranità alimentare e il suo legame con la malnutrizione, hanno bisogno di capire il rapporto che c’è tra la comparsa del cibo spazzatura degli ogm e certe malattie che stanno diventando croniche”
Non è la solita testimonianza di vita, ma un inno inarrestabile alla voglia di fare, di uscire dalle secche del sogno di uno sviluppo che si sta rivelando ormai mortale anche per l’occidente, di lavorare in un’Africa che pretende rispetto e ascolto nell’ esprimere la capacità di decidere da sola il proprio destino.