Mali Mali
Moussa Konatè
L'impronta della volpe
Del Vecchio editore, 2012
Traduzione di Ondina Granato
Uscita con Librairie Arthème Fayard nel 2006, è ora tradotta in italiano un’altra avventura della celebre coppia maliana del commissario Habib Keita e dell’ispettore Sosso Traoré: li abbiamo seguiti nelle periferie povere e degradate di Bamako, presso i villaggi dei pescatori Bozo e nei paesi rurali dell’interno, a sbrogliare matasse tinte di sangue e ingarbugliate di tradizioni locali, appetiti smodati di nuovi ricchi, giovani in bilico tra trasformazioni moderniste ed attaccamento atavico ad un passato che solo un’occhiata frettolosa può definire retrivo.
Ma questa volta l’ispettore filosofo supera se stesso, non tanto per l’acutezza con cui conduce le indagini, ma per la qualità delle riflessioni cui lo inducono le vicende. E’ forse la più ‘antropologica’ delle detective story uscite, probabilmente perché si ambienta tra una popolazione misteriosa su cui fiumi di inchiostro sono stati scritti , i Dogon, abitanti i villaggi disseminati sulla falesia di Bandiagara, precisamente a Pigui. Il capitolo tre si apre con una carrellata sulla falesia e su questi grumi di case aggrappati alle rocce. “Queste terre aride, sassose, corrose, dove tutto porta l’impronta di una erosione infinita, sono l’immagine della vita dura dei loro abitanti. Qui non c’è altro che il sudore dell’uomo a far inverdire le rocce[…] La natura non schiaccia l’uomo, lo minimizza. A prima vista i villaggi Dogon, come Pigui, sembrano disabitati, simili a siti preistorici portati alla luce di recente. Tutto ha il colore della terra: le rocce, le case, gli uomini.” In gran parte i terreni sono coltivati a cipolle che vengono vendute in tutto il Mali.
I due poliziotti devono affrontare una realtà molto diversa non solo rispetto alla capitale Bamako, ma anche a quella di altre zone rurali del Mali. Sono avvenute delle morti strane di tre giovani, con delle modalità inquietanti in un contesto che Keita e Sosso stentano a comprendere: né la polizia locale né la gendarmeria sono in grado di aiutarli, anzi li confondono e li terrorizzano con storie di indovini, stregoni, duelli , uccisioni a “distanza” , volpi che svelano i destini attraverso le orme e chi più ne ha ne metta. Il giovane e urbanizzato Sosso non è in grado di mettere a fuoco nulla, resta sconcertato e anche il commissario Keita vede diminuire la sua fiducia in quei parametri razionali che normalmente lo aiutano. A noi lettori sembra di assistere ad un avvincente film-documentario in presa diretta, in cui insieme a cadaveri orrendamente rigonfi e con un filo di bava gialla alla bocca, frequentiamo le credenze animiste, il perfetto e armonico universo elaborato dai Dogon, le architetture delle case, dei granai, dei cimiteri, del toguna, il luogo tradizionale delle assemblee.
Anche i personaggi sono sempre inquietanti, per esempio l’hogon, un fragile anziano più che ottantenne, capo spirituale della comunità, che non può uscire mai dal recinto della sua casa e ha perciò bisogno di un assistente che parli a suo nome, Kodjo, soprannominato il Gatto per la sua abilità ad arrampicarsi, non si sa perché, sulla falesia all’alba e al crepuscolo, o il vecchio e rigido Kansaye, zio di uno dei giovani ucciso in un duello mortale svoltosi su una piattaforma di roccia sospesa nel vuoto.
Le donne ci sono, ma non contano : una, giovanissima, muore per salvare l’onore del fratello e della famiglia, la bella Yakoromo, causa del duello, scompare dalla storia senza lasciare traccia, la madre dei due ragazzi morti impazzisce: più che mai siamo di fronte ad una gerontocrazia maschile, che non viene messa in discussione, perché detiene un sapere che è in grado di render conto di tutto: non ci sono dubbi nel mondo dei Dogon. Quello che deve essere fatto si compie perché così hanno sempre fatto i loro antenati, fuggiti settecento anni prima dall’ovest e rifugiatisi in questo mondo, dimenticato dagli uomini, forse, ma non da dio. Amma, il dio supremo che li ha creati ha fatto in modo che ogni cosa del creato, ogni atto umano fosse legato ad un sistema di valori solido e immodificabile, mettendo i suoi protetti al riparo dalla disperazione o dalle angosce di un quotidiano altrimenti intollerabile. Non a caso gli antropologi parlano di un nucleo di idee sistemiche paragonabili a quello dei greci, degli egizi o degli etruschi.
Non hanno molta fiducia i Dogon nei modi di agire della capitale: sembra addirittura, scopre il commissario Keita, che non sappiano bene cosa sia la polizia, che confondono con una specie di corpo di impiegati statali che fanno multe. Ai nostri non resta altro che farsi scudo, ahimé, dell’autorità ben altrimenti sentita della gendarmeria. Evidentemente il duello ‘polizia-carabinieri’ è un topos che travalica i confini italiani ed europei! Così come ci risultano terribilmente vicine le lamentele dei poliziotti che si vedono privati dal governo perfino della benzina per i mezzi di trasporto: c’è una scena esilarante in cui Habib e Sosso ,con la sgangherata macchina di servizio,restano bloccati in mezzo al traffico, insultati da tutti, per mancanza di carburante, a causa della diminuzione del budget assegnato alla squadra della polizia criminale.
E’ per questo che pensano “qui gatta ci cova” quando vengono messi su una confortevole automobile ministeriale, provvista di aria condizionata, con tanto di autista e spediti a Bandiagara, il capoluogo della zona dogon. L’incontro con Issa, antico compagno di scuola di Habib, ormai pezzo grosso al ministero degli interni fa nascere qualche sospetto ai nostri poliziotti: perché ci si prende la briga di inviare loro due in un oscuro villaggio dogon, per un affare che potrebbe essere risolto dalla polizia locale? Issa, simpaticone e faccendiere, ha il profilo di quelli che non se la sbrogliavano per niente bene a scuola ma che hanno imparato a farsela con il potere e a trarne profitto. Dunque esiste un qualche interesse economico governativo per Pigui da smuovere i pezzi grossi del ministero? I dubbi vengono aumentati all’arrivo al municipio di Pigui: i poliziotti si trovano davanti ad un comune dichiaratamente povero e a un sindaco ragazzino con i suoi consiglieri coetanei, vestiti di lusso e provvisti di auto fuori della portata dello stipendio normalmente attribuiti ai consiglieri comunali. Il partito istallato al municipio è lo stesso del governo centrale e non c’è opposizione di sorta.
Nel villaggio si intuisce la profonda distanza culturale tra il governo e i Dogon: senza capire la realtà locale si sono appiccicate istituzioni che nulla hanno a che fare con la loro esperienza quasi millenaria, assumendo un comportamento dichiaratamente razzista, come del resto il Mali compie anche nei confronti dei Tuareg del nord.
Ma che c’entra tutto questo con il veleno dei cobra, con quello della Testa gialla, con le antiche maschere, i riti tradizionali e Lèbè, il primo antenato che ha donato la morte agli uomini? Come sempre, nei romanzi di Konaté, la violenza nasce dall’attrito tra i comportamenti dettati dalla tradizione, dalla voglia di cambiamento e libertà delle nuove generazioni che vogliono possedere tutto e subito e dal bieco sfruttamento di coloro che, dalla capitale, manovrano situazioni locali per i loro interessi : a Pigui c’è infatti in ballo un mega complesso turistico da realizzarsi nei sacri campi dell’hogon. Basta, non possiamo rivelare altro della trama…
La drammaticità delle situazioni viene comunque stemperata con il ricorso a meccanismi, già messi in azione negli altri romanzi. Innanzitutto l’inserimento di scorci della vita familiare del commissario Habib, alle prese con una moglie paziente e un bambino di sei anni, affettuosamente apostrofato come generale Oumar, che, come il padre, ha sempre la risposta pronta: non è facile essere padre di un cucciolo, ad una età più che matura e affrontare i ragionamenti di un bambino che comincia a farsi idea del mondo. Senza contare l’ultimo nato, il “gattino”, che se ne va in giro cinto del reggiseno della madre e con gli slip del padre in testa!
Poi ci sono le allusioni ai tic dei due poliziotti: siamo in Africa, è vero, ma i due poliziotti cittadini non sanno più come fare fronte a savane, a falesie ripidamente scoscese, a zanzare giganti, a cobra magici e a polpette di …cane e asino. Non ne parliamo poi se uno è oggetto di magia e ha strane visioni, come capita al povero Sosso o se si è costretti a chinarsi per terra per cercare di seguire e capire bastoncini e orme di volpi che darebbero responsi su quanto sta per accadere, se uno sa interrogarle o c’è qualcuno che lo chiede, come spiegano gli indovini.
L’altro meccanismo distensivo è costituito dalle figurine dei personaggi minori che ci danno una idea più precisa della realtà circostante, a cominciare dall’autista Samaké, simpatico e chiacchierone, che è contento di trasportare Habib e Sosso, finché non scopre che i due sono poliziotti, venuti ad indagare in una terra di cui ha terrore e dalla quale è scappato. O il gendarme, innamorato delle capre, non si sa bene a che livello, che finisce in manicomio. C’è poi una certa attenzione a disegnare i bambini: quelli straccioni e petulanti che si attaccano ai turisti e non li mollano più. Non vanno a scuola e sbarcano il lunario, cercando di vendere statuine e paccottiglie, ma in realtà sfamano famiglie intere. Il bambino malefico Diginè, servo oscuro del Gatto, ha come contraltare Ambaguè, un ragazzino creativo,paralizzato alle gambe, che si è costruito con materiale svariato di scarti vari una carrozzella precaria con la quale arranca per le pessime strade: Habib rimane scioccato e, sia pure con i suoi magri guadagni, gliene compra una nuova, grato anche per averlo messo sulla pista giusta per la risoluzione del caso.
Dunque, alla fine, ci sono gli omicidi, ci sono le prove e i moventi, ci sono anche i colpevoli. Perché il commissario non riuscirà ad arrestare nessuno? Non possiamo proprio rivelarvelo… Possiamo concludere con le parole di Habib Keita ”Quelli con cui abbiamo a che fare qui non appartengono al nostro universo e non osiamo confessare che li consideriamo , dal punto di vista del pensiero, come primitivi. Allora li disprezziamo[…]Non si tratta di far finta di capirli, ma di ammettere che hanno il diritto di avere il loro proprio universo”.